
“Il poeta è il nemico della società, il poeta è un paria”
Politica culturale
Queste lettere testimoniano i rapporti tra due titani della poesia anglofona del secondo Novecento, Ted Hughes e Seamus Heaney. Heaney aveva appena ricevuto il Nobel per la letteratura, era il 1995 e la giuria svedese aveva compiuto un gesto di distensione. C’era anche un valore sospirato di pace tra Inglesi e Irlandesi, scrive Hughes, nelle lezioni di Heaney di quegli anni intitolate con passo veloce ed elegante La riparazione della poesia (Massimo Bacigalupo l’ha tradotta per Fazi nel 1999). Quello di Heaney era un gesto notevole espresso a Oxford.
Con la seconda lettera veniamo invece alla dura sostanza della vicenda: Hughes cerca di appigliarsi alla speranza che Heaney capirà cosa significa scrivere da tempo le fatidiche Lettere di compleanno alla sua prima vittima involontaria, la sontuosa Plath la quale aveva scritto, tra le altre cose, che “ogni vera donna ama un fascista”. La raccolta fatidica, sarà pubblica nel 1998 e, come si sa, chiude la vita lirica e totale di Hughes, che muore nell’ottobre di quell’anno.
Le lettere dei poeti sono un genere di cui si proclama la via d’estinzione: insomma, il creatore distrugge se stesso e chi gli vuol bene. Le cose non stanno così e la lettera di Hughes lo dimostra, quando si consegna oggi a noi come una sorta di fabbro all’opera, mentre lima, ribatte il ferro caldo, poi si allontana e vede l’effetto che fa il suo strumento visto di profilo. Poi lo accorcia. Lo rifila… e a noi resta un libro, se siamo fortunati anche una lettera.
Andrea Bianchi
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8 ottobre 1995, Ms Emory
Caro Seamus –
Bene – eccoti. E per sempre. Come un dio marino su una grande onda sei emerso e inevitabilmente te lo sei preso, per sovranità naturale. Mi colpisce – c’è mai stato un simile, indisturbato, mai distorto e pieno sviluppo delle possibilità – e così per tempo, così preparato per la parte. Così, afferrato con tutto il cuore. Così pienamente maturo per il giusto momento storico.
Bene – congratulazioni è una povera, misera parola per quel che mi sembra così naturalmente giusto, e dal significato misterioso.
E stavo per scriverti riguardo le lezioni di Oxford. Il tuo rilievo finale su quel che hai affrontato – semplicemente mi meraviglio per la pienezza, la pazienza e l’arte sottile con la quale ti intrufoli ed alteri la struttura genetica di cose su cui si è pensato per troppo tempo. E tutto quello sciocco welfare state di semplificazioni psicologiche che mantiene la nostra coscienza pulita davanti a se stessa, e tutto il resto – il nostro generale e infantile bisogno patologico – una situazione critica che sempre peggiora.
Penso che la corona della tua raccolta vada all’ultimo pezzo, Frontiere della scrittura. Rivolgendoti a una platea inglese sei stato in grado di parlare tanto più chiaramente e con senso di urgenza a tutti gli altri fuori dall’aula, e perciò risuonerà più netto a orecchio irlandese. Non mi sorprenderebbe che questa lezione abbia grandi effetti – passo passo. Intendo effetti politici. Ancora una parola – sei giunto al momento giusto, e con l’esatto accompagnamento divino e mesmerizzante!
Bene – tutta la faccenda è meravigliosa, Seamus – da noi abbracci calorosi a tutti voi che ne gioirete.
Ted
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1 gennaio 1998, Ms Emory
La tua lettera mi ha sopraffatto. Sinceramente volevo sapere cosa sentivi riguardo a tutti questi pezzi, e riguardo il gesto di pubblicarli o meno – la tua opinione sopra quella degli altri (sono un veterano se ti metti a farmi il solletico). In un dato modo, la mia decisione è stata per 3 parti cieca – una scommessa. Ero arrivato a un punto dove non parevano esserci alternative. Dato il vecchio angolo fisico in cui mi ero ritrovato, e il ruolo teatrale e misterioso nella mia vita che SP vi aveva svolto in via postuma – e dato il matrimonio postumo, altro ruolo nella mia vita – la pubblicazione non mi è sembrata meno una faccenda letteraria che un’operazione fisica che avrebbe potuto cambiare i patemi psichici in modo cruciale per me, e aprirmi una via, spazzando il resto. Benché mi chiedessi se la mia immediata determinazione di ignorare ogni sorta di reazione alle lettere, e ogni possibile aspetto improprio nel rivelarle, e se questo non comportasse una certa diminuzione intellettuale – giacché tutti questi 25 anni, o meno, ho vissuto sotto un regime che consentiva di trovare tutte le ragioni per nasconderle, queste lettere, quasi fossero l’idiota di famiglia, e poi forse me ne sarei liberato tranquillamente un giorno, se solo avessi trovato il coraggio. Me ne sarei liberato o – suppongo fosse questa la giustificazione del mio lavoro – avrei assorbito i loro suggerimenti vitali in un altro lavoro, propriamente creativo, più oggettivo. Sempre ho avuto qualche idea che il vero resoconto dei miei rapporti con Sylvia sarebbe emerso in modo inavvertito, per qualche moda obliqua, tramite qualche pezzo solo simbolicamente legato a questi nodi – l’autentica via creativa. Eppure eccole qui, le lettere. Ho battuto questa strada, lettere dirette, come una transazione illegale tra lei e me – ho semplicemente seguito gli aiuti istintivi, e si sono impilate l’una sull’altra.
La comprensione che mi dovevo sbarazzare di tutta questa pila di carte mescolate – faccenda urgente – si è presentata all’alba del mio lavoro su Shakespeare. A volte mi domandavo se quel tomo su Shakespeare non sia stato la poesia che avrei dovuto scrivere – decodificata, enormemente riflessa ancora e ancora e poi scaricata su spalle che potessero portarla. Poi [1995] quando assemblavo i miei pezzi, nuovi e raccolti (principalmente per ripulire l’apparenza fisica da voltastomaco e tipograficamente illeggibile della raccolta precedente) ho pensato di aggiungere un buon numero di questi pezzi – forse 30 o 40 – e ho preso ad allisciare e rifilare quelli che si presentavano meno attraenti e più sfilacciati. Ma la sorella di Carol stava per morire, e assisterla giorno per giorno non si agganciava in nessun modo con quest’altra mia attività extra. Sono riuscito e ripulire alcuni pochi pezzi – anche quelli su Assia (scritti in modo davvero diverso) – che poi ho incluso. Il resto l’ho rimesso nel sacco. Ma non ci voleva stare. Così li ho ritirati fuori e ci ho scritto su, su tutta la massa per qualche tempo – senza sapere cosa ne avrei ottenuto e dove sarei finito. Finché improvvisamente – tra un giorno e l’altro – capii che la cosa stava lì. Non riuscivo ad afferrare l’insieme ma avevo la sensazione che tutto quel carico di preoccupazioni durate a lungo stava scivolando via – si stava separando da solo e davvero scivolava via come un casco di frutta. La sensazione di non sentirlo più è stata forte e strana. Avevo una quantità enorme di piccole note fiorite ai lati – tutte improvvisamente obsolete.
Ted
*Curate da Christopher Reid, le “Letters of Ted Hughes” sono edite da Faber & Faber nel 2007