In un mondo che privilegia giudizi accusatori a verdetti indulgenti, convincere il lettore a empatizzare con un contadino pervaso da malvagità gratuita non è cosa da poco. Eppure, Guido Cavani riesce a far poggiare l’ascia di guerra al proprio pubblico, inibendo l’incessante “caccia all’assassino” che è, in qualche modo, prerogativa viscerale dell’animo umano.
Rinunciate quindi alla possibilità di smascherare colpevoli o responsabili, di avvalorare accuse per confutarne altre: non esiste alcun capro espiatorio che giustifichi il male, inflitto e autoinflitto, dell’anti-eroe protagonista Zebio Còtal– “una faccia di profeta dagli occhi diabolici” che non troverà pace nemmeno nel suo vagabondare randagio.
“A cosa serve camminare se non si arriva mai a trovare un po’ di pace? Se dove si arriva tutti ti trattano male e ti mordono con le cattive parole? Bevo per questo; bevo per dimenticare il male che tutti mi fanno e mi fanno fare.”
Dinnanzi a questo connubio inscindibile di disordine morale e compassionevole rassegnazione, il lettore – abituato a parteggiare per paladini indomiti – si trova inaspettatamente esitante: l’epopea di un tiranno spietato e annebbiato dal vino, indifferente persino alla morte dei familiari, si tramuta gradualmente nell’apologia di un “povero figlio di Dio” per cui non si può provare che pietà.
Forse è per questo che negli ultimi decenni si è risvegliato l’interesse per uno scrittore autodidatta, autore – secondo Pasolini – “destinato in tempi meno distratti a riemergere”.
E la profezia sembra avverarsi: Zebio Còtal, un libro prima autoprodotto e poi pubblicato da Feltrinelli nel 1961, è stato riproposto da readerforblind, casa editrice nata nel 2015 come rivista indipendente e ora specializzata nel recupero di grandi scritti finiti nel dimenticatoio. Grazie a quest’opera di paziente ricerca, una variante odierna del poema pastorale si inserisce nella collana Le Polveri, riportando Cavani – noto a suo tempo come poeta (Modena, 1897 -1967) – fra gli scaffali delle librerie.
Il romanzo, ambientato nel modenese, racconta le vite brutali e infelici di sei braccianti, stretti nel giogo di una gabbia esistenziale in cui l’unica via d’uscita sembra essere la morte: tragica compagna di quella discesa agli inferi che è la vita. In questa cornice dai tratti novecenteschi, lo stile spietato e lirico – in cui riemerge l’identità del Cavani poeta – affianca alla diaspora del nucleo familiare di Zebio la prorompente descrizione paesaggistica.
“Dentro di sé capì che non c’era nessun rimedio, perché il destino della sua famiglia era quello di sfaldarsi come la roccia arenaria.”
E anche nell’orchestrare vicissitudini e scenari dell’Appenino modenese, l’autore sembra essere dotato della “giusta perizia descrittiva e della capacità di sintesi emotiva necessaria” – come sottolinea Omar Di Monopoli nella prefazione. L’ambientazione “autobiografica” del romanzo riflette almeno parzialmente la vita appartata nella piccola dimensione della città nativa di Cavani, che nel dipingere le vedute paesistiche non incappa nemmeno per un attimo nel rischio della gratuità o dell’involontaria banalizzazione.
“Il campo di Zebio Còtal […] era un lembo tondeggiante di terreno incastrato fra i calanchi. Le rocce in molti punti affioravano come le ossa sotto la pelle dei vecchi. Il grano ci veniva su a stento; la pioggia lo spiantava, il vento lo torceva in tutti i sensi, il sole lo strinava senza lasciarlo maturare.”
Un romanzo, questo, in cui l’eterna dicotomia fra uomo e natura onnipotente, ostile e incantevole allo stesso tempo, si erge a co-protagonista, contribuendo alla realizzazione di un’opera che, pur narrando di un’epoca ben precisa, finisce per essere pressoché universale.
Questa scrittura asciutta e dai tratti atemporali permea soprattutto le pagine finali, dove le sorti di Zebio sembrano riflettere quelle del suo piccolo podere: da sempre troppo arido per assicura il necessario per la sopravvivenza. Ma persino a libro concluso, qualcosa di questo personaggio persiste, resta amaramente attaccato ai pensieri del lettore. E, come sottolinea Omar Di Monopoli, “questo è qualcosa che la letteratura riserva solo ai grandi personaggi, a quelli capaci di toccare in noi parti nascoste, parti che forse nemmeno sapevamo di avere”.
“È un viaggio inutile come tutti i viaggi della vita e come la vita stessa, si diceva [Zebio], ma bisogna farlo per illudersi, per credere a qualcosa, altrimenti è finita.”