“Il roveto in cenere”: sullo straordinario romanzo di Manès Sperber
Libri
Silvano Calzini
Si scrive a volte per dissipare un destino; per veder riflesso il proprio amore nello specchio degli occhi dell’altro. Ma spesso ciò non basta. Così, con una lettera di fuoco e fiamme che mai verrà resa pubblica, Abigail, l’amata musa del poeta Carl, stravolge le carte in tavola, e per via di un equivoco, rimette tutto in gioco. Il fatto è sconvolgente. Di quelli che solo i grandi scrittori poterono mettere in pratica, affidandosi al pensiero, se non all’azione, di un amico fidato.
Si è predestinati, nello scrivere, a mantenere vivo un fuoco oramai raro e prezioso. Ma si è davvero scelti da un assoluto istinto nell’estinguere quelle stesse lettere d’amore, bruciandole, o cancellandole definitivamente con due click. Insomma, sono state liberate delle lettere. Ne esisterà ancora traccia?
L’incendio si è compiuto in una notte. Per colpa, o grazie a un equivoco svelato, nasce questo romanzo.
Dopo Lettera da Noversch, Giorgio Anelli ha scritto una nuova storia. La seconda di quella che un giorno rappresenterà una trilogia. Maledetti i poeti è un romanzo d’amore. Un romanzo epistolare. Una storia sulla poesia e sui mille agguati che essa comporta; facendo i conti con se stessi: guardandosi profondamente in uno specchio, per compiere la scelta decisiva e definitiva: rimanere degli scribacchini al servizio del mercato, o puntare all’immortalità?
***
Non saprei dirvi l’acqua.
Mi sento preceduto, mi sento seguito dall’acqua,
sferza il cuore.Benjamin Fondane
Urge la scelta tremenda,
dire sì, dire no
a qualcosa che so.Clemente Rebora
Fu davvero un fatto eccezionale il ricordo di un poeta ai più misconosciuto. La morte che tutto toglie e nulla risparmia per una volta dava la vita, rendendo immortali le spoglie umane di chi sovvertiva il mondo con un verso; rendendo a tutti vivido il tormento di parole vergate a mano su un foglio. Tutti – di colpo, inaspettatamente – sapevano della sua esistenza; del respiro di John, di quella malata ossessione che si dice scrivere; di quel suo guizzo improvviso che lo allontanava dall’era presente, proiettandolo subitamente in tempi che parlavano di altri mondi, e gli confidavano quel che veramente valeva la pena di vivere.
La notizia della morte di John era giunta fino a lui. Che il suo più grande amico, poeta, fratello, si fosse sfracellato giù da un ponte tra i sassi e la corrente di un fiume di montagna, non poteva lasciarlo indifferente. Carl non si capacitava di quanto era accaduto. Torcendosi disperato le mani, piangeva, urlando a più non posso tra le mura della stanza-studio.
Quella morte rimbalzava da uno schermo all’altro:
«John Barleicorn, il noto poeta italiano, si è tolto la vita buttandosi da un ponte romano a Noversch. La notizia ha fatto subito il giro della nazione, e l’ANSA riporta pure segnalazioni in Sudamerica, dov’era tanto conosciuto e apprezzato».
Con mano tremante Carl strinse la bottiglia. Si versò un goccio, lo buttò giù, e poi scagliò il vetro contro il muro.
«Ma come!» disse «nessuno ti conosceva; e ora che sei morto, tutti parlano di te?». Carl urlò ai muri: «Maledetti! Maledetti i giorni nei quali vi ho incontrato e conosciuto! Maledetti voi, maledetti tutti!». Bevve quasi tutta la notte, sconvolto, tremendamente irre- quieto. D’un tratto, rovistò tra le tasche dei pantaloni e il portafoglio, fino a quando trovò un foglio sporco e appuntato, che diceva pressappoco così:
“Maledetti i poeti che mi voglion santo
Maledetti i poeti che se ne vanno prima del tempo
Maledetti i poeti che mi han preso con loro
Poiché condividiamo la medesima sorte
E non ne possiamo fare a meno…”
*
Lys è tornato. Gli cammino accanto. La sua irruenza non mi è nuova. Dopo aver visto più e più volte la meraviglia del- la foce del Toce che s’immette nel Maggiore, a Verbania, là dove forse un giorno andrò ad abitare, per una volta ancora ritorno alle origini; lassù, dove tutto è cominciato.
Ho raggiunto la pace, il fresco, qui a Gressoney, fuggendo da mesi caldissimi. Lys prorompe tra i massi bagnati, eccita l’istinto. Ma più dell’acqua, sono le rocce delle montagne immortali a reggere il mio impatto. Lo spettro di Sofia è svanito. Sofia forse è morta… Fu “musa del disincanto”. Ne ho lasciato traccia scritta – dei frammenti – da qualche parte nella stanza-studio.
Di lei è rimasto un anello: l’albero della vita a sigillare nell’argento un’aristocrazia della forma alla quale continua- mente tendere nella scrittura.
Ho esorcizzato il suo spettro. La sua malìa non mi tocca affatto.
Sarò degno di queste parole?
*
Musa del disincanto
Caro Carl,
se finalmente mi decido a scriverti è perché sono ferita da un’assenza non prevista. Il tuo andartene improvviso ha causato in me turbamento. Mi ha reso sciocca ai tuoi occhi. Mi ha fatto capire quanto tu ci tenevi sul serio. È vero, probabilmente me la sono andata a cercare, ho tirato troppo la corda; ma, in fondo, quali aspettative avevamo l’uno sull’altra?
Non ho mai avuto il coraggio di rispondere alle tue lettere, nonostante ti dicessi il contrario. In ciò sta la mia paura: quell’indole asimmetrica di donna devota ai suoi figli, ma timorosa di tutto. Compitamente, sono una donna forte. Hai avuto modo di saggiarmi abbastanza. Io, che mi sono sempre dovuta sobbarcare tutto sulle mie spalle. Io, forte e randagia… stanziale. Per quel lavoro che mi obbliga a rimanere chiusa, fors’anche in me stessa, nella valle che hai sempre amato, e che ora rinneghi, allontanandoti da me.
Mi chiedo spesso dove tu possa essere andato. Volevo forse tenerti tutto per me… Qualcosa, fin da ragazzi, ci ha sempre attratto. La responsabilità è mia. D’altronde, a me piace giocare. Essere quella che nel giro fa casino, deborda, eccede. Il fatto è che ce la stavi quasi facendo. Eri riuscito a insinuarti talmente tanto nella mia mente, che non potevo più fare a meno di pensarti. Eri diventato la mia ossessione. L’uomo d’amare e ingannare. Forse, persino tradire.
Da quando te ne sei andato ho ripreso a bere. Più di prima. E so che dirtelo non servirà a farti tornare. Allora magari m’illudo che, scrivendoti, possa stringerti ancora una volta a me.
In fondo ti ho proprio ingannato. Ma ho preso in giro anche me stessa, illudendomi di poter essere libera una volta nella vita di provare qualcosa di diverso dall’euforia, ovvero la gratitudine nei confronti di qualcuno.
Eppure, te lo dissi, mi spaventavi. Non meritavo quell’attenzione. Sebbene mi facesse piacere. La tua pacata insistenza, soprattutto. I tuoi versi; quelle poesie che mi dedicavi e che sono ormai immortali. Quei libri che hai scritto per me. Soprattutto l’ultimo, quello dell’addio.
Molto prima che tu mi chiedessi di diventare la tua musa, già provavo qualcosa. Io che mi sentivo preda di forze avverse; che avevo già vissuto; che avevo girato il mondo con mio padre. Un padre-padrone che al di là di tutto mi ha insegnato molto. Io che ho sempre preso la vita a schiaffi. Io, che mi credevo una donna forte, ho incontrato un poeta. Ero convinta che la mia cultura mi permettesse di reggere il confronto col tuo sguardo. Ebbene, mi sbagliavo.
La mia vita è sempre stata dura, e non ho mai avuto il tempo di lamentarmi. Sebbene ogni tanto, di nascosto, pianga. La mia vita voleva essere tua, anche se aveva già deciso in maniera differente. Tu eri l’uomo che aspettavo a ogni stagione. Sì! Ti aspettavo sempre. Non te l’ho mai detto. Egoisticamente riempivi i miei vuoti. Ma fu quando urlasti, nella notte come un lupo, che il mio cuore venne trafitto insieme a tutta la valle. La notte era finalmente squarciata. Sapevo ormai che qualcuno osava quanto e più di me. Sapevo che qualcuno della mia stessa tempra urlava la medesima disperazione. E quell’urlo rimbombava tra la neve e le rocce, crepando il ghiaccio delle mie lacrime. Almeno a te era permesso farlo. Uno straniero giungeva a rompere la monotonia di un paese fin troppo chiuso. Un poeta varcava la soglia. E io mi sono riconosciuta.
Dove sei Carl?
Se volevi darmi una lezione, ci sei riuscito.
Torna.
Giorgio Anelli
*In copertina: Carl Spitzweg, Il povero poeta, 1839