Roma, settembre 2019, qualche mese prima della pandemia. Incontro Giobbe Covatta nella sede romana di Amref Health Africa. Abbiamo fissato un appuntamento “il più tardi possibile per me”. Propone di andare insieme a pranzo con Cristina e alcuni membri dello staff. Alla frutta, di comune accordo, decidiamo di fare l’intervista proprio lì, nel ristorante all’aperto del Mercato Rionale Flaminio. Qualche settimana prima di incontrarci ci siamo scambiati messaggi in cui mi proponeva di sciogliere indovinelli.
Il primo ricordo che ho di Giobbe Covatta da ragazza, è la tenerezza provata mentre legge “Parola di Giobbe” al Maurizio Costanzo Show, di quelle per cui ti devi girare verso lo schermo qualsiasi cosa tu stia facendo. È la dolcezza benevola e struggente dell’ascoltarlo, anni dopo, in sketch come Il bambino europeo e il bambino africano. Se dovessi descrivere che cosa rappresenta Giobbe per me, ripenserei al suo sguardo felice a Nairobi, con AMREF, fra i bambini di quartieri poverissimi mentre gioca facendosi carico delle loro ragioni. E se dovessi affidare a qualcuno, per spiegarle, le ragioni dell’Africa dilapidata, le affiderei di sicuro a Giobbe.
È la mia ultima intervista in ordine di tempo e, in un certo senso, la più sudata. Ogni tanto mi si incaglia. In un primo momento mi pare che Giobbe si annoi. Non riesco a trovare subito il bandolo della matassa che si dipana qua e là, imbizzarrita. Lo osservo e cerco di arginare con i miei esigui mezzi l’esubero del multiforme, incontenibile talento. Giobbe tracima letteralmente d’estro. Traspira arte. Che lo esprima con un gesto o a teatro o attraverso i suoi libri o nel ventre profondo dell’Africa, è prisma che irradia, luce che moltiplica, esalta. Attore senza maschera, anima d’artista.
Poco prima di cominciare, mentre aggiusto il registratore, Giobbe si diverte a imitare le prove microfono. Ripete tutto allegro: “Prova, io provo, prova… sah, sah, sah…”. Io scoppio a ridere. Dopo qualche minuto cerco di fargli la prima domanda. Lui è imprendibile, sfuggevole. “Come ti chiami, e perché i tuoi genitori…”. Nonostante sia partita, lui continua a scherzare. E’ la prima volta che mi lascio travolgere dall’intervista che si confonde, impazzita, fra le mille sfumature della creatività. Giobbe ha una voce bellissima, profonda, un po’ roca e a volte strascica parole rilassate ma precise che, riflettute, seguono una trama solida. Ho la sensazione che durante le prime domande mi studi e squadri. Ha un leggero accento napoletano che si diverte a strascicare un po’ qua e là.
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1. “Allora, le dieci domande!”(Dico, battendo le mani… forse per attirare la sua attenzione). Lui si diverte un mondo a tenermi sulle spine. Ride: “Che c’è?”, mi chiede sempre più divertito. “La prima domanda”, proseguo, cercando di usare il tono più credibile che posseggo. Come ti chiami, e perché i tuoi genitori hanno scelto proprio questo nome?
Giobbe Covatta – Mio papà si chiamava Giacobbe, mia madre Isacco, e così mi hanno chiamato Giobbe… Hai capito?
M.D. – (Lì per lì mi spiazza. Rido e dopo un attimo di riflessione, proseguo). …Invece la verità?
G.C. – …La verità (riprende serio)… è che è venuto un angelo, dal cielo… e…
M.D.– Tu lo chiamerai Giobbe… (Completo, cercando di imitare la voce onirica dell’angelo).
G.C. – … Tu lo chiamerai Giobbe… e… e da quel momento… è andata così. Poi c’è una terza verità di cui nessuno ha memoria, ho chiesto anche a scuola. A scuola mi chiamavano così.
M.D. – Ah, sì?
G.C. – A distanza di tanti anni ho telefonato ai miei compagni per sapere… nessuno ricorda perché. (Conclude, solenne). Non se ne ricorda nessuno.
M.D. – E la mamma da piccolo come ti chiamava?
G.C. – Mamma da piccolo mi chiamave “Re”… quello perché… d’altra parte…
M.D. – Invece la verità? (Lo incalzo ridendo).
G.C. – La verità è che io mi chiamo Gianni… Anzi in realtà mi chiamo Gianni Maria.
M.D. – E tua madre ti chiamava?
G.C. – Gianni, credo… (Dice più serio).
M.D. – E dopo ti hanno chiamato Giobbe…
G.C. – Dopo, a scuola, mi chiamavano così… Ormai anche io… anche mia figlia pensa che io mi chiami Giobbe. Mia moglie mi chiama Giobbe! Tutti. Solo in banca mi chiamano…
M.D. – Signor Giovanni! (E rido).
G.C. – …Giovanni Covatta. Ma per il resto… Anzi, mi chiamavano! Adesso che il conto corrente sta a zero… (scoppio a ridere) non mi chiamano più!
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2. Se non ti chiamassi in questo modo (Giobbe fa un sospiro di sollievo), che nome sceglieresti se potessi prenderlo in prestito ad un personaggio storico o reale del passato o del presente?
Giobbe Covatta – Ma guarda (dice subito), io mi volevo chiamare Pippo Baudo (dice forzando la pronuncia delle “p” e della “b”), ma era già stato occupato, hai capito? Ce n’è già un altro… Mi piaceva “Pippo Baudo”… Pi p p o Bau do… mi piaceva… ma purtroppo c’è uno che già…
M.D. – (Continua a ridere). È lo sbotto: Pi ppo Baaudoo…
G.C. – Eh sì, esatto! E poi ad un certo punto (continua parlando tranquillamente come se con parole bislacche esprimesse alte verità) molti mi hanno chiamato… Alessandro Magno. Ma lo hanno fatto di loro iniziativa (aggiunge, rassicurante).
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3. Manuela Diliberto – Tre. Sai che…
Giobbe Covatta – Tre… Ma so’ tutte così le domande? (Fa una pausa) …Del cavolo?
M.D. – Grazie! (Dico fingendomi offesa. Ridiamo insieme e lui più forte di me).
Sai che questa intervista anticipa il mio prossimo progetto letterario in cui sono intervistate persone note o sconosciute che avrebbero potuto condurre una vita comoda e vivere con tranquillità e facendo finta di nulla, ma che han deciso di sobbarcarsi rischi, disagi di ogni genere ed il biasimo della famiglia, degli amici e\o della società, per aver compiuto scelte “scomode”.
Giobbe Covatta –Ah, ho capito… Perché…
M.D. – (Lo interrompo e continuo) Tu, secondo te, perché sei seduto su questa sedia e stai per essere intervistato?
G.C. – Ah… perché abbiamo appena pranzato… e puoi farli questi pranzi in piedi? Allora sto seduto sulla sedia!
M.D. – Ecco! Questo è il motivo per cui sei seduto. E perché invece stai per essere intervistato?
G.C. – Non lo so, probabilmente perché ho abbracciato nella vita delle situazioni particolarmente complicate… (Fa una pausa, serissimo e poi parla come dovesse fare una lista di quelle situazioni). Mia moglie Paola… (scoppio a ridere sorpresa!) mia figlia Olivia… Eeeh! Guarda che ce ne sono di problemi (ridiamo insieme)… E io cerco di risolverli, capito?
M.D. – E invece, quelli del Kenya? I problemi legati al Kenya?
G.C. – Guarda, io… Vuoi sapere proprio la vera verità della vera verità?
M.D. – Sì!
G.C. – È che io da piccolo volevo fare l’esploratore. Poi so’ diventato grande e ho fatto l’attore. Poi ho detto, ma come si fa a fare l’esploratore e l’attore contemporaneamente? Dico… e allora sai che faccio? Vado a fare i documentari, vado a fare queste cose… E sono andato a fare queste cose qua. Poi come dicevano i miei trisavoli, tanti tanti milioni di anni fa, per amare qualcosa bisogna conoscerla, sennò non si può amare ‘na cosa che non conosci… è impossibile… E allora col fatto che ho cominciato a fare queste cose, mi è capitato di conoscere, ho cominciato ad entrare nel merito, a incuriosirmi, a cercare di trovare – non direi soluzioni – ma domande da fare che potessero essere dei grimaldelli… perché come tu sai, essendo sorella d’arte, il comico fa le domande… è la politica che dà le risposte.
M.D. – Sì, effettivamente!
G.C. – Da quando è il comico che dà le risposte è successo un casino (dice afflitto, scuotendo la testa. Io scoppio ancora a ridere! Mi guarda e ride anche lui con me). Non ti dico… non ti conto! Ecco… insomma, diciamo che questa è la motivazione generale. Dopo di che da lì ho cominciato ad approfondire le cose che avevo imparato sul campo, per cui sono diventato un modestissimo africanista… nel senso che mi interesso dell’Africa. Già ci pensavo da prima, ma poi è successo che quello che era solo un pensiero teorico e accademico è diventato un motivo di vita, è diventato il mio lavoro con AMREF o con tutto quello che mi capita di fare con il Terzo Mondo, per l’ambiente o per degli argomenti che mi stanno particolarmente a cuore. Allora il mio lavoro è quello di cercare di comunicare alla gente qualche informazione. Cioè, io non voglio fare Piero Angela che fa il divulgatore. Io voglio fare l’incuriositore.
M.D. – (Mi piace molto il concetto!) Certo, certo…
G.C. – Ecco. Uno si deve incuriosire riguardo ad un argomento: il mio scopo è andare da una parte e mostrare immagini, spettacoli e quant’altro …
M.D. – Che poi è quello che un comico fa benissimo!
G.C. – …Usare il mio mestiere per cercare di far incuriosire nei confronti di un certo argomento. Poi se qualcuno pensa che i miei spettacoli o i miei libri possano in qualche misura essere esaustivi, si sbaglia. Non lo sono! Sono soltanto dei grimaldelli per aprire una porta (fa una pausa)… dietro la quale c’è un problema che io non risolvo, che io non so risolvere, ma che mostro a tutti quanti in modo che se ci mettiamo tutti insieme, forse, alla fine, si risolverà. Questa è! Come sono andato fino ad ora? Bene? (Mi domanda divertendosi ad uscire dalla trama. Ride).
M.D. – Benissimo!
G.C. – (Lui si gira guardandosi intorno e ripete) Bene? Sono andato bene?
M.D. – Quattro: Ne L’Arte della guerra…
G.C. – Quattro… (Mi incalza).
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4. Ne L’Arte della guerra, scritta fra il 1519 e il 1520, Machiavelli diceva che “Gli uomini che vogliono fare una cosa, debbono prima con ogni industria prepararsi per essere, venendo l’Occasione, apparecchiati a soddisfare a quello che si hanno presupposto di operare”. Nelle piccole cose, o ancor più nelle grandi, è sufficiente impegnarsi con ogni industria, con grande zelo, tenacia e ostinazione, o si ha anche bisogno dell’Occasione?
Giobbe Covatta – Beh, Machiavelli è nato un po’ di tempo fa… è morto anche un po’ di tempo fa… Per cui non aveva a che vedere con un sacco di robe… tipo, per esempio, internet, che adesso è la prima che mi viene in mente, non è che volevo puntualizzare l’attenzione proprio su quella cosa là!
M.D. – E oggi volere è veramente potere?
G.C. – Diciamo che rispetto ai tempi di Machiavelli, oggi, se vuoi qualche cosa, hai più strumenti per raggiungerla. Poi però questo significa anche che molte più persone possono accedere alla stessa cosa. E questo significa di conseguenza che quella che era la selezione naturale, adesso non c’è più – che poi c’è comunque… in qualche misura una selezione ci deve essere, perché sennò…
M.D. – Quindi ci sono delle circostanze che favoriscono la volontà?
G.C. – Secondo me ci sono le circostanze che favoriscono… sì, sì, sicuramente sì. E’ il “come” si accede a queste circostanze…
M.D. – E da cosa sono date secondo te queste circostanze?
G.C. – In parte dalla fortuna, in parte dal… io so per certo di essere stato in un certo posto al momento giusto… Ma non è che l’ho scelto! E’ capitato.
M.D. – Ma tu eri apparecchiato!
G.C. – Io ero apparecchiato (dice riflettendo bene). Io ero apparecchiato, ma anche lì, non è che ero apparecchiato per quella cosa. Io mi ero apparecchiato, ma se non fosse stata quella e fosse stata un’altra, probabilmente sarei stato apparecchiato anche per quell’altra. Non è che mi fossi apparecchiato per quella circostanza specifica. Avevo semplicemente tentato di apparecchiare me stesso.
M.D. – Infatti… apparecchiare se stesso. Bel concetto!
G.C. – Il mio apparecchiamento mi è servito per una serie di cose. Detto questo, si può anche desiderare di perseguire qualche cosa, ovviamente.
M.D. – Certo.
G.C. – Poi io sono uno che caratterialmente si abbandona spesso a quello che è il destino… il fato…
M.D. – …La Provvidenza? (Azzardo). Sei credente?
G.C. – No, no… il destino… consapevole del gesto di Corto Maltese che la linea della fortuna nella mano se l’è tagliata col rasoio: non ce l’aveva Corto Maltese e se l’è fatta da solo!
M.D. – Ma quando cominci perché hai un’idea…
G.C. – Però so’ pigro. Capito? So’ pigro e se una cosa non mi riesce tanto bene, dico, e vabbé, fa gnente, va’… ne faremo un’altra! (Dice come se si compiacesse di napoletaneggiarsi un po’). Sono pigro, mi annoio facilmente, ho una serie di caratteristiche per cui certi meccanismi, diciamo, si sono in qualche maniera… incastrati da soli l’uno con l’altro.
M.D. – Ma forse appagato dal fatto che hai avuto comunque la fortuna di farli incastrare…
G.C. – Ma io ero pigro pure prima.
M.D. – Pure prima?
G.C. – Pure prima! Non è che dopo ero più pigro e prima non ero pigro…
M.D. – Tu dici, io intanto mi sono apparecchiato per me, e poi è successo…
G.C. – …Sì, diciamo che io sono anche molto curioso. Per cui mi apparecchio spesso per un sacco di cose.
M.D. – La curiosità fa molto bene alla pigrizia!
G.C. – Non so se fa bene alla pigrizia, però la curiosità…
M.D. – Nel senso che la argina…
G.C. – Sì, sì, ma la curiosità si può praticare anche da seduti (rido con lui). Se tu guardi un cardiochirurgo che opera al cuore (contina ridendo) lo puoi fare da seduto! Però… ti metti lì e guardi bene, bene, bene tutto quello che fa. Io so fare un sacco di cose, ma tantissime! Chiedi a mia figlia (dice rivolgendosi alla bellissima ragazza bruna seduta accanto a noi). “Tantissime” (conferma lei, sobria e divertita). “Dodici” (aggiunge sempre più candida). Dodici (ripete Giobbe, rivolgendosi di nuovo a me).
M.D. – Accidenti! Dodici, nientemeno!
G.C. – De-do-deca…
M.D. – Quello!
G.C. – …tetrico… dodecatetrico! E so fare un sacco di cose perché io nella vita ho perso mesi, anni, a guardare con grande curiosità quelli che facevano le cose (mentre parla rido senza riuscire a fermarmi). Quando ero bambino ho passato un sacco di tempo in una veleria da un vecchietto che poi è morto – perché era vecchietto – che cuciva vele e faceva l’attrezzatore navale. E se tu adesso mi dai un pezzo di stoffa e una macchina da cucire, io ti faccio una vela in maniera impeccabile, tant’è che a casa mia se c’è da aggiustare i pantaloni, cambiare una cerniera lampo, fare una gonna o costruire un costume per mia moglie…
M.D. – (Lo guardo impressionata). La cerniera lampo, il costume… Sono cose difficili!
G.C. – E l’ho fatto spesso (aggiunge come a garantirne la veridicità). …O per un paio di pantaloni per mia moglie: chiamano me!
M.D. – Allora tu sei un “curiosissimo pigro autodidatta”.
G.C. – Io sono un curiosissimo pigro. L’autodidattismo viene da sé, dopo.
M.D. – E certo!
G.C. – So fare un sacco di cose… però poi mi chiedo, perché doverle fare? (Rido e lui con me). Ormai le so fare… basta! Ma questa è una drammatica riflessione che vale anche per il teatro, nel senso che io sono un grande appassionato di teatro: il mio mestiere è il teatro… se tu mi chiedi che mestiere fai, io ti dico “faccio il teatrante”, poi, occasionalmente faccio lo scrittore, faccio la televisione, il cinema… occasionalmente. Ma il mio mestiere è il teatro. Nonostante questo, io sono atipico rispetto agli altri teatranti, perché io dopo quaranta repliche non ne posso più! Ne ho la misura colma!
M.D. – Sì, infatti l’hai detto che ti annoi facilmente.
G.C. – Esatto. Perché a fare quaranta volte la stessa cosa, io alla quarantunesima comincio a dire, ma l’ho fatta ieri, perché la devo fare pure oggi? Perché sono venuti quelli. Ma potevano venire ieri quelli! (E ride un po’ delle sue parole).
M.D. – E allora smetti?
G.C. – No (dice secco). Non smetto perché è il mio mestiere, ovviamente. Immagino che anche il tranviere quando sta sul tram ad un certo punto bestemmia come un turco perché deve fare tutti i giorni la stessa linea. E’ il mio mestiere e lo faccio… però lo faccio con… eeeh! … Questo è il mio modo di affrontare, non dico la vita, ma alcuni aspetti della vita. O per esempio, io c’ho dei figli, no? Dopo il terzo anno uno dice, mo’ basta, li ho campati per tre anni, mo’ facessero loro… e invece no!
M.D. – Quelli non si schiodano più! (Ridiamo insieme e ride pure la figlia!).
G.C. – Ma una cosa terribile… te li devi portare appresso per tutta la vita! (Io continuo a ridere). Dai! Che altro vuoi sapere (aggiunge impaziente)?
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5. A cosa pensi, cosa provi nei momenti più duri quando hai tutti contro e le critiche si abbattono numerose? A quale forza ti sei aggrappato?
Giobbe Covatta – Guarda, se riesci ad affrontare questa situazione e riesci… ad affrontare il fatto che tutti ti amino, allora tu sei un uomo, figlio mio… (Risponde parafrasando la Lettera al Figlio di Kipling).
M.D. – (Ancora una volta spiazzata, riprendo subito). Sì però questo l’ha detto un’altra persona! (Ridiamo insieme e io comincio a chiedermi se riuscirò mai a terminare l’intervista).
G.C. – Pensavo ci cascassi!
M.D. – Questa diciamo che l’abbiamo già sentita! (Dico, continuando a ridere).
G.C. – È furba (dice guardando gli altri), non ci è cascata!
M.D. – No, no…
G.C. – A che mi aggrappo? Agli improperi, di solito! (Dice ridendo). Alle parolacce…
M.D. – Quando hai proprio delle difficoltà?
G.C. – E a che vuoi che mi aggrappi? A niente! Come tutti d’altra parte. Ognuno c’ha le sue ricette, ma non funzionano. Non funzionano!
M.D. – E tu? La tua ricetta?
G.C. – Non c’è! Perché tanto lo so che non funziona! Nooo… le ricette… ti dico, stai incavolato ma più di quello… che vo’ fa’? Mo’ parlamm’c chiaramente… cerchi di mettere le pezze! Ma non è che cambia l’umore… Amore, scusa, vai là e dici: “Il mio papà, quello belliiissimo, vorrebbe un po’ d’acqua con le bolle… (Si interrompe per rivolgersi alla figlia che con un sorriso esaudisce la richiesta). Grazie, amore!
M.D. – Se vuoi c’è questa! (Dico, riferendomi alla bottiglia di acqua gassata non poco distante).
G.C. – Ma questa è senza le bolle!
M.D. – No, è con le bolle.
G.C. – Ah! E’ con le bolle!? Questa è con le bolle! (Dice ad alta voce guardando più lontano, verso la figlia).
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6. Cosa fa la differenza fra il decidere di intraprendere la via più tortuosa e, invece, il far finta di niente?
Giobbe Covatta – (Fa un lungo silenzio). Ma… guarda… questo è… è il quesito del pianeta, del mondo. È il quesito fondamentale di tutto. Qual è la cosa più comoda?
M.D. – Tu saresti capace di far finta di niente?
G.C. – Io non solo ne sarei capace, ma in alcune circostanze ne sono capace, come tutti d’altra parte. Poi ci sono delle cose nei confronti delle quali non posso proprio far finta di niente.
M.D. – Appunto!
G.C. – Però devo dire che questo è il quesito fondamentale.
M.D. – Per esempio, tu sei molto brillante, avresti potuto farti i fattarelli tuoi, invece…
G.C. – Sì, sì, sì… Ma ci sono tante altre cose, tanti altri argomenti nei confronti dei quali me ne faccio una ragione e chi si è visto si è visto! Anche perché non è che puoi fare… tutto! Detto questo, è così: non fare nulla, non prendere iniziative, è la cosa più facile che si possa immaginare. Cioé, tu vedi un problema e questo rimane così grazie alla tua assoluta mancanza di iniziativa, oppure vedi un problema e te devi fare ‘nu mazz’a taralla per risolverlo. Statisticamente, se tu prendi cento persone e le metti difronte a questa scelta… per questo se ti dico che, secondo me, il mio compito è quello di incuriosire, è in questo senso qua! Tu devi far incuriosire nei confronti di quella cosa per far cercare di capire agli altri che quella cosa è importante non soltanto perché a quello in quel momento gli fa male un dito del piede… Allora devi creare una curiosità attorno a quel dito del piede!
M.D. – Quindi gli artisti hanno una grande responsabilità! Perché son capaci di suscitare curiosità… attraverso anche la catarsi, come diceva Aristotele.
G.C. – E certo! Sono gli artisti che devono porre dei quesiti. Devono mostrare un mondo… o una parte, una porzione di un mondo. E all’interno di ciò che mostrano gli artisti si collocano le domande, sia quelle alle quali la gente risponde perché sono accademiche, filosofiche e non abbisognano di un intervento esterno per avere una una risposta, sia quelle che necessitano di un intervento esterno – della politica o di altro – e ciò al fine di creare una pressione sociale, quella che una volta si chiamava l’opinione pubblica… Ti ricordi l’opinione pubblica? Era bello! Eh… ti ricordi quando c’era l’opinione pubblica? (Dice con un sarcasmo che fa ridere tutti). Era bello, mo’ non c’è più! Purtroppo si è estinta l’opinione pubblica. Ma quello era… l’artista è quindi colui che lavora sull’opinione pubblica. (Fa una pausa per riflettere) …Per fare in modo, dal proprio punto di vista – perché non è che siccome uno è un artista c’ha sempre ragione! – dal proprio punto di vista, fare in modo che quello con cui sta parlando diventi quanto più possibile patrimonio universale.
M.D. – Concordo perfettamente… (dico sedotta).
G.C. – Brava! (Mi dice con lo stesso tono ironico con cui ha parlato fin ora).
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7. Una grande pena, una grande apprensione o una grande paura, possono giustificare la defezione (ritiro, rinuncia, abbandono) da una scelta che in determinate circostanze può rivelarsi fatale sia per se stessi che per la collettività? Fino a che punto ci possiamo scusare quando a pagare per la nostra inerzia è anche qualcun altro?
Giobbe Covatta – 27%… più di quello non so dirti.
M.D. – 27%… ah… (rido).
G.C. – 27% è poco? (Dice serio. Io non rispondo). Allora 41 (scoppio a ridere e lui mi segue dopo qualche istante). Non lo so… non lo so… poi dipende dalla coscienza sociale di ognuno…
M.D. – E si può puntare il dito verso qualcuno che non denuncia per esempio il racket nel negozio della porta accanto?
G.C. – Se si può puntare il dito?
M.D. – Se per esempio si assiste ad un omicidio e si sa che se non si denuncia l’assassino questo ucciderà anche qualcun altro, ma se lo si fa si mette in pericolo la propria famiglia…
G.C. – (Giobbe mi guarda scuotendo leggermente la testa) Non c’è risposta. Non c’è risposta a questo… cioé…
M.D. – Ma tu lo condanneresti qualcuno che non denuncia per paura?
G.C. – Sì, in linea teorica, per forza… Una volta io ebbi una discussione violentissima con Brunetta… Renato Brunetta, in televisione, alla fine della quale ebbi un applauso molto consistente – ma stiamo parlando di veramente tanti anni fa… una quindicina forse… ma forse di più. Si parlava dell’immigrazione, degli immigrati, e io non ricordo che dissi sull’immigrazione e Renato Brunetta mi disse: “Ah! Ma allora se tu vedi un immigrato in un parco che sta violentando tua figlia, tu non reagiresti?”, e io: “Guarda, se vedessi un immigrato in un parco che sta violentando mia figlia, io vado lì e lo uccido”. Detto questo… la mia reazione sarebbe stata il frutto di un sentimento personale. Ma la legge, non è un sentimento personale. La legge ha un valore universale e collettivo, dico, quindi, tu, Brunetta, politico, se mi chiedi cosa farei in questo caso, o sei in mala fede o non conosci la logica sociale : in entrambi i casi non puoi fare il mestiere che fai!
M.D. – E certo! Un politico non può parlare così.
G.C. – E no, perché o sei in malafede o sei incompetente… e quindi non puoi fare il politico! Perché quello che è il tuo sentimento personale non necessariamente corrisponde alla legge… ma è logico che sia così! La legge ha un valore universale! Questo vale anche se uno ti graffia la macchina e tu gli rompi la testa sul finestrino per un danno di 25 euro. C’è logica in questo? No. Ma quello è un sentimento personale! Io non sono la legge. La legge è altro. Per cui è inutile andare a cercare i dettagli su questo aspetto qua: ognuno in base al suo carattere agisce diversamente: o gli rompe la testa sul finestrino, o lo piglia a calci nel didietro, o lo porta alla polizia… ognuno fa quello che ritiene più opportuno, però qualsiasi cosa faccia, non è la legge.
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8. Un mio conoscente conserva ben in mostra fra i suoi libri, nella libreria del suo salone, una copia di Mein Kampf. (Ah… esclama Giobbe) Davanti al mio stupore e alle mie domande ha spiegato seraficamente che si tratta dell’omaggio che i suoi genitori ricevettero il giorno del loro matrimonio in Germania, negli anni 30, come si usava fare per le coppie di giovani sposi, e che per lui non si tratta che di un caro ricordo di famiglia, e niente di più. Pensi che la sua spiegazione e la sua scelta siano comprensibili e legittime?
Giobbe Covatta – No, la sua spiegazione no, la sua scelta forse sì, nel senso che io quando la mattina vado a comprare i giornali, se c’è qualche cosa di particolare, oltre a La Repubblica, che è il mio giornale di riferimento, compro anche Libero, per sapere che diavolo dicono quelli che hanno scritto su Libero sullo stesso argomento. Quindi leggere Mein Kampf… io non l’ho mai fatto ma non mi farebbe nessuna impressione…
M.D. – Si trattava della copia originale di quegli anni… senza apparato critico, né niente…
G.C. – Quella originale… Mah… io la leggerei anche se non mi è mai capitato.
M.D. – E che lui la consideri un caro ricordo di famiglia?
G.C. – Questo… questo non lo so. Se per lui è veramente un caro ricordo di famiglia, un caro ricordo di famiglia… (lo ripete come se nel frattempo riflettesse). D’altra parte i miei nonni che avranno, immagino, l’età dei genitori di questo tizio, avevano una casa che adesso abbiamo rilevato e ristrutturato, sulla quale c’era una scritta fascista che diceva “L’avvenire è nostro, il passato è dietro alle nostre spalle” più o meno… ma scritto grande sulla facciata di casa. Quando abbiamo ristrutturato casa io e mia moglie Paola abbiamo avuto una discussione, perché io le ho detto che quella scritta la volevo ristrutturare, insieme alla casa! Paola mi ha detto, ma tu sei matto! Questa è una scritta fascista! E io le ho detto: “A me lo dici? E lo so che questa è una scritta fascista!”… non è che pensavo che l’avesse scritta Biancaneve (rido!). Ma quella è storia… la storia non la puoi negare. La storia è la storia, puoi non essere d’accordo su quello che è successo, ma la storia è la storia… è innegabile! Io non ero d’accordo con Alessandro Magno ma non è che mi viene in mente di dire…
M.D. – E di mettere una didascalia sotto… per esempio?
G.C. – Ma probabilmente sì… Però sta lì da quando sono nato… non è che mi viene in mente di mettere ‘na didascalia… Quello lì c’ha Mein Kampf da quando è nato… non ci ha mai neanche pensato… per cui non credo che ci possa essere un giudizio, come dire, unico. Il giudizio è dato da mille sfumature… da mille pensieri che ci sono dietro a questa sfumatura! Per me tenere quella scritta non aveva nessun valore politico: ma ne aveva uno storico. Per cui per me quella era una cosa che faceva parte del passato. Discutibile passato, orribile passato… (riflette) Ma che vo’fa’? Mica nessuno ce l’ha mai cancellato. Quello là sta, il nostro passato. E là rimarrà per sempre. La storia è la storia. E non si nega. … poi ognuno la amministra come ritiene più opportuno. (E se un giorno si cancellassero tutte ‘ste scritte magari poi si comincerebbe anche a dire che non sono mai esistite, penso fra me.) Come sono andato? (Mi chiede lui ad un tratto cambiando tono).
M.D. – Bene! (Rido). Benissimo.
G.C. – Ah, meno male… sono andato bene!
*
9. Se non fossi te ma fossi un’altra persona…
Giobbe Covatta – “Pippo Baudo?” (Mi provoca ancora, ridendo).
M.D. – No! Giobbe. Tu non sei Giobbe? …e ti incontrassi e avessi occasione di conoscerti un po’, con che parole descriveresti Giobbe Covatta? Che descrizione ne daresti?
G. C. – Senza ricorrere agli insulti?
M.D. – Sì. (Questa volta ride lui).
G.C. – Scriverei… Madonna che brava persona! Peccato la moglie e la figlia… ma per il resto… (ridiamo tutti).
M.D. – E dai!! Un aggettivo… due…
G.C. – No, non lo so sinceramente… Guarda io quando mi chiedono qual è il tuo pregio, qual è il tuo difetto, ‘ste cose qua… perché poi, più o meno la domanda è quella: cosa vedi di bello in lui?
M.D. – Infatti! Come pensi che vedresti te stesso… se non fossi te?
G.C. – …Come pregio, sono certo di avere un quoziente intellettivo molto alto. (Rido ancora. Rido di sorpresa. E anche di piacere. Trovo il suo modo di spiegare le cose irrimediabilmente comico). Avevo il quoziente intellettivo più alto di tutta la scuola.
M.D. – Allora: un uomo dal quoziente intellettivo molto alto…
G.C. – …Molto alto… assolutamente incapace di usarlo… questo è il difetto! Eh… che vo’ fa’? E questo è il difetto… (ride con me). Ci sono pregi e difetti… ma io a scuola sono stato il più intelligente, con il quoziente intellettivo più alto. Di tutta la scuola (ripete sempre più divertito).
M.D. – Di tutta la scuola…
G.C. – Di tutto il mercato, di tutto il liceo scientifico Giuseppe Mercalli. Certo… magari quel giorno c’era sciopero! (Aggiunge sottovoce).
M.D. – …ed eri l’unico presente! (Dico, continuando lo scherzo). Senti… – decima domanda – e se non fossi Giobbe, chi vorresti essere?
G.C. – Ma io sono stato anche altro… nel senso che quando all’inizio ti dicevo che volevo fare l’esploratore e poi ho fatto l’attore eccetera eccetera… io volevo fare l’esploratore e infatti ho fatto lo skipper per anni e anni…
M.D. – Ah! Ti piace proprio questo senso della scoperta…
G.C. – Sì! Il senso della scoperta… mi piace l’adrenalina che scorre per lo stupore, per…
M.D. – E per la curiosità di cui parlavi prima, forse. Molti comici si dicono curiosi.
G.C. – Eh… ma ne serve una dose se vuoi fare questo mestiere! Perché questo mestiere è un mestiere bizzarro: prevede che tu guardi attraverso un buco fatto nella cabina del mare, dove si mettono gli affari dove ci si cambia… E il comico che fa? Una volta fatto il buco, la cabina è piccola… per cui tu che fai? Guardi soltanto il pezzettino che ti sta davanti! Non hai mai l’immagine totale. E allora, mentre descrivi la gente che si cambia il costume, non descrivi mai la persona intera, descrivi la spalla della persona, il naso, una parte. Questa è la grandezza e il limite di questo mestiere.
M.D. – Adesso due o tre domande su di te…
G.C. – Ma erano dieci! E mo’ non è che si può fare tredici…
M.D. – No, no, no… un’ultima, dai, al volo! Gesù incontra Marx su una montagna. Che si dicono?
G.C. – Marx?! (Fa una breve pausa e poi comincia come se stesse raccontando una favola) …Gesù incontra Marx su una montagna e …si fanno un sacco di complimenti reciproci. E poi litigano su due o tre dettagli. …Ma proprio sui dettagli! (Riflette un attimo). E secondo me, se si mettono a discutere Gesù e Marx… trovano la soluzione anche su quei dettagli!
*In copertina: Giobbe Covatta in un ritratto fotografico di Cristina Dogliani.