02 Aprile 2019

Un tempo in cui i governanti erano reclutati tra i poeti. L’imperatore del Giappone inaugura una nuova era e io sogno di stare sotto il kimono con Murasaki Shikibu, il più grande romanziere del pianeta

Mi colpisce questa immagine. Il più grande romanziere del pianeta curvo sotto l’onda del kimono. Il kimono, probabilmente, è riccamente tessuto: vi si vede l’immagine di una tigre trasognata – a quelle latitudini la belva ha sentimenti d’angelo – oppure la gru, che depone le parole dei morti negli occhi dei vivi. Piuttosto, sul kimono è un ramo di ciliegio dove i boccioli vibrano come bambini. Del romanziere, una donna, non si vede che la fetta del viso. Con quale ferocia si è strappata il cuore, si è spogliata di sé, per considerare il cuore una qualità estetica. Lirica, qui, è chirurgia di stile – con un ideogramma, lei, ti ha sezionato. Non te ne accorgi, ma non hai più la schiena, sei solo ossa, erba che cammina.

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Il più grande romanziere del pianeta è una donna, invisibile sotto la cattedrale del kimono, si chiama Murasaki Shikibu e mille anni fa ha detto l’uomo, il suo abisso, in un romanzo che si chiama La storia di Genji. Per un po’, questo capolavoro miliare e millenario – al pari di Dante, Shakespeare, Cervantes, Proust, Joyce, Tolstoj – è stato tradotto in italiano riferendosi alla versione inglese di Arthur Waley. Ci si è messo anche, per Bompiani, Piero Jahier, perché solo un poeta può sintonizzarsi a quelle vertigini, prive di esotismo ma di abbagli, di bagliori. Nel 2012 – impresa pazzesca – Maria Teresa Orsi ha tradotto il romanzo dal giapponese antico per Einaudi.

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Un romanzo così vasto – oltre 1350 pagine l’edizione italiana – in uno spazio così angusto. Il mondo creato da Murasaki Shikibu è tutto mentale: si svolge in piccole aule, tra appuntamenti mancati, pettegolezzi, malignità, sulla soglia di un paravento, nel turbine dell’ombra. In una manciata di versi, scambiati tra amanti in verticale, il centro dell’universo. Alludere – l’arte del verso – significa agitare il tempo di illusioni. Ma è questo amare: erigere Everest di vetro, girare gli specchi in modo che un esercito di armati si disintegri al sole.

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Dico, lasciatemi sognare. Il Giappone, oggi, è un nodo di contraddizioni – valgono, ancora, i mirabili reportage di Fosco Maraini, per un primo contatto – tra l’ostia della tradizione e l’ostaggio del Sogno Americano. Longevità e suicidio, disciplina e ribellione, sacrificio e solitudine, tenerezza e efferatezza, meraviglia della natura e oscenità urbane. D’altronde, scoperchiato il Vaticano, in Italia non c’è neanche la contraddizione, siamo detti dall’immagine che gli altri hanno del Belpaese, una identità garantita dalla pizza.

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Ci si suicida, per altro, dopo aver investigato brutalmente se stessi senza aver trovato altro che sé.

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Dalla ‘spettacolarizzazione’ della politica al mondo dello spettacolo in politica. Siamo figli degli americani. Con la differenza che dietro Ronald Reagan e ‘Schwarzy’ c’erano testoni così, dietro gli altri ci sono teste di. Beppe Grillo da noi – uno stratega che ha imposto i tempi dello show in ambito elettorale – Vladimir Zelensky in Ucraina. Dopo l’epica dell’imprenditore di successo, quella dell’attore di fama. Eppure, sappiamo che soldi e share non misurano la competenza politica. Preferirei un monaco come premier.

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In Giappone – lasciatemi sognare – il tempo si misura in ere decretate dall’imperatore (il metodo si dice gengo). La nuova era, corrispondente al regno di Naruhito, primogenito di Akihito, che comincerà il primo maggio, si chiama “Reiwa”. Il significato del segno incrocia “ordine” e “auspicio” con “armonia”. Disciplina verso l’armonia. Non abdichiamo al nitore dei segni: chi limita al folklore il nome dell’era o l’adorazione dei fiori di ciliegio sintetizza la propria stupidità. Il segno si radica dentro di noi con la forza di un sigillo, ad esso possiamo ribellarci ma ad esso siamo prostrati – l’ultimo segno, oggi: la Croce. Il nostro tempo è vuoto di segni, ce ne siamo ‘liberati’: siamo schiavi del piacere, per natura parziale, cioè del nulla.

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Il segno scelto per identificare la nuova era giapponese è tratto dal Man’yoshu, l’antologia più antica di poesie del Giappone, compilata nell’VIII secolo. La poesia sigilla un’era – lasciatemi sognare. Il tempo testimoniato dal Man’yoshu e dal Genji Monogatari narra di gare poetiche per scegliere i funzionari del regno. I più bravi a scrivere poesie hanno il carattere giusto per governare – l’arte lirica e quella della spada sono uno. Per scrivere una poesia non conta la svenevolezza, la vaghezza e i buoni sentimenti, ma la radicalità nell’esprimere un pensiero, la capacità di coniugare una immagine vivida, il genio nel suggerire e nel soggiogare. Ecco perché chi sa scrivere una poesia riesce a ordinare gli uomini, con pietà e ferocia.

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Governare è anzitutto addomesticare la grammatica, far lampeggiare le parole. L’ordine è un segno, vento marmorizzato da una parola, l’unica.

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Nella Storia di Genji il seduttore è abile nella pratica della poesia. La poesia adombra il corpo adorando il desiderio – amplia l’eros con l’elusione, la delusione, il crisma del fraintendimento. Ogni lettera è un paravento – i sentimenti sono forzati fino all’abominio, fino all’attesa straziata, la grazia della dedizione. Chi vuole ‘tutto e subito’ non conosce l’aristocrazia della conquista. Sedurre è governare.

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La vanità del soffrire (“Ho creduto che il dolore non avesse uguali al mondo, ma ora mi sono reso conto che il passare di mesi e di anni fa sì che giunga il momento in cui esso si attenua, e che ogni sofferenza ha un limite”), la rapace certezza della vittoria del destino, della corruzione del tutto, che si è travolti, perciò più che agire – cioè, affrettare il corrotto – è bene guardare, sono i caratteri del Genji. Come la percezione che c’è qualcosa di inaccessibile a cui dobbiamo rivolgerci, perché l’uomo è la creatura che in questo mondo crea altri mondi: “Più ancora dei fiori di ciliegio o delle foglie rosse in pieno rigoglio che stagione dopo stagione sembrano affascinare il cuore degli uomini, il cielo di una notte d’inverno, quando il riflesso della neve, per quanto privo di colori, splende alla luce limpida della luna, chissà perché, si imprime nel cuore e richiama alla mente un mondo diverso dal nostro, sicché la sua bellezza e la commozione che risveglia non hanno eguali”.

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Lasciatemi sognare. Un mondo in cui la poesia ha preminenza e definisce, imperitura, il radioso del tempo; un mondo in cui i governanti vengono reclutati tra i poeti.

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Carpire il disegno sul kimono di Murasaki e rifarlo sul mio petto fu il sogno – cavalcare l’airone senza dare dottrina alla sua fuga. (d.b.)

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