Per capire la Cina bisogna leggere Pound
Politica culturale
Un ritaglio di giornale, portato dal vento. Lui, dentro un elegante cappotto, è seduto su una panchina del parco, il suo angolo preferito, a guardare l’intrico dei rami degli alberi, prova un impulso irrefrenabile e raccoglie quel foglio. Una pagina qualsiasi, annunci pubblicitari di vario genere, forse ritagliata da una rivista femminile. Il foglio, in verità, è sgualcito, spiegazzato, forse aspetta, da tempo, i capricci del vento. Lo sguardo azzurro di lui percorre le fitte righe dei “Messaggi personali” e, nell’intrico di tanti, banali, appelli, improvvisamente e con violenza, legge alcune parole che lo trafiggono: “PER giovane traumatizzato cercasi persona esperta disponibile assistenza continua trattamento familiare”. Questo, in stringata parafrasi, è l’inizio de La voce della pietra di Silvio Raffo (nella fotografia di Dino Ignani), romanzo uscito per il Saggiatore nel 1996 e finalista allo Strega, ripubblicato da poche settimane, dopo oltre vent’anni, da Elliot. Romanzo da cui il regista americano Eric D. Howell (aiutoregista Roy Bava, figlio e nipote d’arte di Mario, il più celebre autore di horror italiano, Sei donne per l’assassino) ha tratto, l’anno scorso, il film Voice from the stone, con la regale Emilia Clarke, conosciuta ai più per la saga Il trono di spade. Questa è anche la pagina bianca, il punto di partenza del romanzo, quella che siamo soliti chiamare, in parole povere, l’ispirazione autobiografica.
Nel suo romanzo più celebre – il mio preferito – Silvio Raffo racconta la storia di un ragazzo, Jakob, di 17 anni (nel film, di 11) che, diventato misteriosamente muto dopo il trauma della morte della madre, incontra Verena, un’indifesa infermiera sensitiva, chiamata a prendersi cura di lui. Il libro è dedicato a tutti quelli che nelle loro vite sono stati Jakob o Verena. Come Jakob, anche Verena è orfana, priva di un’identità ben definita. Jakob, nell’antica dimora di campagna, a causa del trauma della morte della madre, si rifiuta di parlare e affida, ad un diario, i suoi pensieri. Jakob, muto, avvolto dal silenzio, ascolta una voce ultraterrena, che sussurra arcani messaggi dal grembo della pietra.
Partiamo dal cimitero. Gotico, e pieno di fascino. Dai morti proviene la voce. “La Voce della pietra sono due voci, sono le voci di Jakob e Verena. La pietra non è una, ma sono due – mi spiega, pazientemente, Raffo, siamo al circolo culturale fondato da lui, La Piccola Fenice, fuori piove a dirotto, da giorni – Sono le due lapidi su cui ho visto incisi i loro due nomi. Al cimitero di Moulehorn, un villaggio della Svizzera tedesca, mi imbatto in due lapidi nude, senza una parola. Sono vicine, leggo solo i nomi: Jakob, Verena. Così sono diventati i nomi dei miei personaggi. Sono monolitici, pur avendo un grande amore, non riescono a viverlo. Il ragazzo non riesce a diventare uomo, i morti prevalgono sui vivi. Malvina (Caterina Murino, nel film), la madre perduta, è il personaggio che vince, ed è morta. In me c’è sempre un compiacimento morboso non nel lieto fine, ma nella tragedia. Gli americani, invece, nel film Voice from the stone, hanno composto un happy ending che è morboso e tragico al tempo stesso”. La madre, del resto, è il fulcro di quest’opera. La madre che Verena non ha mai avuto, che non ha mai conosciuto, la madre che non diventerà. La madre che Jakob ha perduto per sempre. “Queste esperienze vengono saltate in una mistica animica angosciante, come in Mio padre René. È meglio rimanere a casa a curare la madre. Jakob è un ragazzo out of order, impietrito dal dolore. Il dolore si domina, si sublima, nella scrittura. Lo so bene visto che detesto ogni forma di dolore, fisico e spirituale. Resta un velo di angoscia, la sottile, amabile inquietudine che non ti lascia più”. Ma lei, nella trasfigurazione del romanzo, è diventato Verena, un’istitutrice? “Verena si è sostituita a me, perché, come al solito, nel mio immaginario, c’è l’istitutrice alla Jane Eyre, alla Prima moglie; poi è una costante nella mia vita, dalla mia prof, Mara Tonelli, in avanti. La figura dell’istitutrice oscilla fra il maschile e il femminile, perché, per me, non ha molta importanza il genere. La vita è sempre il punto di partenza. Quasi sempre, l’interesse, ciò che rende interessante una vita, è qualche aspetto insolito, quindi romanzesco. Ciò che rende valido un romanzo è il contributo speciale che sa dare alla vita, cioè la trasforma. L’autore fa andare le cose come vuole lui. In un’osmosi continua, in cui la realtà contiene lo spunto di partenza. La ricreazione della vita. L’autore, in questo senso, è dio che ricrea il mondo, nel modo che gli piace di più. Il mio libro è autobiografico in questo, come un romanzo. È la mia creatura più viscerale, il mio vissuto, il rapporto primario fra l’adolescente e la persona adulta, il tema che ricorre sempre nei miei romanzi, come nella mia vita”. Ma Raffo si nasconde anche in Jakob, l’attore (Edward Dring) assomiglia, in modo impressionante, a lui da bambino, basta confrontare le foto. “Il mio vero io è Jakob. Nonostante io sia un gran chiacchierone, ho un profondo silenzio interiore. Mi sentivo molto solo da bambino. Se mi chiedessi: ero infelice? Non so risponderti. Mi interessavano, come mi interessano, i casi singolari di solitudine, non mi interessano le storie d’amore tradizionali. Non seguivo l’iter dei miei compagni. Ero innamorato di mia madre. Mi piaceva leggere e andare a trovare le vecchie signore che abitavano vicino a me. Il libro è come me, un mosaico metafisico, paranormale. Ero un ragazzo aristocratico, di buona famiglia, leggevo e andavo al cinema. Volevo conoscere cose strane e sono diventato un principe delle nebbie, che cerca di portare la luce nelle tenebre”.
Linda Terziroli