“Mi hai ingabbiato nella salsedine della tua lingua”. Alda Merini e Giorgio Manganelli
Cultura generale
Marilena Garis
Anzitutto, la copertina. Un quadro di Filippo de Pisis del 1933. De Pisis aveva conosciuto Eugenio Montale a Genova, nel 1919; Montale onora De Pisis aggiornando il proprio manuale di ornitologia lirica. Montale amava l’upupa; a De Pisis, ne Le occasioni, dedica un beccaccino: “Una botta di stocco nel zig zag/ del beccaccino –/ e si librano piume su uno scrìmolo.// (Poi discendono là, fra sgorbiature/ di rami, al freddo balsamo del fiume)”. Nel 1932 De Pisis aveva dipinto in effetti una Natura morta con beccaccino; Montale ricambiava con Alla maniera di Filippo de Pisis nell’inviargli questo libro.
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La copertina di De Pisis annuncia l’ultimo libro di Giampiero Neri, Da un paese vicino. Per questo suo ultimo libro, Neri, specie di Omero della poesia italiana – ha esordito ‘vecchio’, a quasi cinquant’anni, nel 1976, con L’aspetto occidentale del vestito, è creatura senza tempo, ha voce di vetro e un viso che pare un momento di respiro tra l’intonazione di un Salmo e l’altro – ha scelto un piccolo editore, le Edizioni Ares. Ha pubblicato, finora, per Guanda, Mondadori (nel 2007 è uscito un ‘Oscar’ che radunava Tutte le poesie, ora fuori catalogo), Garzanti. Qualcosa vorrà dire. A proposito di De Pisis: quando fu a Rimini, scandalizzando i benpensanti, dipinse su una tavola di legno un Ex voto alla Madonna delle Grazie. Si era ispirato a Piero della Francesca, aveva posto la firma sul retro – Philippus De Pisis fecit in Arimino a. D. MCMXLI. Mater Dei ora pro me – e in processione, con l’amato pappagallo sulla spalla sinistra, era salito sul colle di Covignano, dove è il santuario caro ai riminesi. La tavola fu rubata una notte di settembre del 1985. Io faccio finta di averla stanata e la porgo in omaggio a Neri, a propiziare la lettura.
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Il libro si apre con un ingresso al giardino – “Al giardino si entrava per un cancelletto di legno che non aveva chiusura” – come si entra nell’Eden degli anni perduti. O sulla cima del Purgatorio. Il libro ha una nitidezza, una luce di lago, radente e feroce, che esclude ogni nostalgia. Non c’è rimpianto nello spartire il rosario di nomi e volti che appaiono nel libro: costoro non sono spettri, ma ospiti alla tavola, è pranzo. A volte il tono di Neri è paziente, a volte severo – inflessibile, come un elmo acheo.
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Recentemente le Edizioni Ares hanno pubblicato “Una conversazione con Giampiero Neri”, Ritorno ai classici, in cui il poeta parla di Tacito e di Boris Pasternak, di Sofocle e del De Bello Gallico, di Virgilio, dei Vangeli, di Machiavelli, di Milarepa… È raro trovare un poeta dalle letture così vaste e disperse: sembra di varcare un oceano. Nei suoi libri per poesie, invece, lo spazio è microscopico, largo quanto una sala. Da un paese vicino è ambientato a Erba, dove è nato il poeta, intorno alla casa “in via Mainoni al numero 5”.
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Che il giardino – “A me sembrava molto grande. Allora andavo alle scuole elementari ma, in giardino, trovavo sempre qualcosa da curiosare” – abbia attinenza con la cima del Purgatorio lo conferma la poesia con cui si chiude il libro. “Di Dante, della sua vita sappiamo poco, ma in quel poco un particolare mi sembra significativo. Si dice infatti che Dante camminava a testa bassa”.
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Giampiero Neri scrive in prosa, ma la sua non è ‘poema in prosa’ né ‘prosa poetica’, al modo delle Illuminazioni, di René Char, di Edmond Jabés. In quel caso, la prosa non placa l’enigma: lo moltiplica. La prosa di Neri è ancora meno della prosa, come un falegname che riduca una sedia a un fiammifero. Per questo, infiamma. Le prose di Neri sono poesia perché tolgono: la stanza non è arredata da altro che da voci, bisbigli, fraintendimenti, frantumi. Ombre date alle fiamme.
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Ad esempio, in questa rassegna di persone, c’è Giancarlo Frigerio, “Morto in guerra nel 1944… correva il mezzofondo, quattrocento metri. Vinceva nelle gare regionali con una facilità irrisoria”; “una certa Lola” che “gestiva un Bar-Tabaccheria. Bella, bravissima in cucina, e pronta di lingua”; “mio cugino Sandro” che “si era convertito alla pittura, ma non aveva abbandonato la politica”, autore di un aforisma micidiale, “La bellezza della nostra sconfitta”; “un certo Ciceri… un affarista… voleva il compenso di una lira per un pipistrello, naturalmente morto”. Naturalmente, appare il “professor Fumagalli”: questa volta “aveva posto gli occhi su una ragazza del paese, piuttosto singolare, cui era stato affibbiato il soprannome di Poldo”. Il “signor Giovanni” è riassunto in una formula memorabile: “Dalle lezioni del signor Giovanni erano bandite le regole di grammatica, in assenza di libri. L’unico presente in casa era una copia molto consunta dei Miserabili, tenuta in conto di libro sacro. Il signor Giovanni sembrava impersonare il protagonista di quel libro”. Dette così, parrebbero scene da film neorealista, ispirate, chessò, a Dino Risi, semmai stemperate nell’ironia bronzea di Ennio Flaiano. Invece, le figure di Neri starebbero bene in Erodoto, un uomo che ha viaggiato, e che è felice di non tornare più dove è stato.
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Che sia orfico o lombardo, avanguardista o economo nel verbo, apocalittico o integrato, il poeta vuole la parola esatta, il cristallo di ogni cosa: quando leggi, la parola ti buca il dito, sanguina bianco. Per questo, Giampiero Neri leviga i ricordi con la lima, fino al punto in cui sono assolti, non sono più suoi.
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Le figure di Neri ricorrono in diversi brani, i brani si rincorrono. Da un paese vicino – a che prossimità si allude?, forse a un al di là stabilito in province – non è un romanzo in versi, ma per epigrafi. Eppure, tutto, in fondo, sembra una chiacchiera, buttata lì, tra il bar e l’altare.
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Alla poesia che dedica a De Pisis, Montale aggioga un esergo, “…l’Arno balsamo fino”, tratto da ciò che ci resta del canzoniere di Lapo Gianni, l’amico di Dante. In particolare, il verso viene da Amor, eo chero mia donna ’n domino. L’ultimo distico della poesia, di satura semplicità, è questo: “Giovane sana allegra e secura/ fosse mia vita fin che ’l mondo dura”. Nelle lamine di Neri c’è qualcosa di imperturbabile, come se il mondo durasse per sempre e l’inverno fosse una macchia, sul soffitto. (d.b.)
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XLVI
Da quel quadrivio, poco fuori Erba, dove le strade si incontrano, ne parte una per il paese di Alserio.
Quasi all’inizio, una casa colonica coperta di rampicanti è come messa a guardia della strada che seguirà, solitaria, silenziosa, immersa nel verde degli alberi e dei campi, che digradano al lago.
Il paese sarà raggiunto dopo un chilometro o due.
Sarebbe piaciuta a Thoreau questa passeggiata, a Robert Walser, a questi spiriti magni che amavano pensare e pensare camminando, nello spirito della natura.
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LVI
Il nodo su cui si avvolge la narrazione dell’Odissea è forse la giustizia. È la giustizia, di cui abbiamo innata consapevolezza e che si vorrebbe perseguire, la grande dominatrice delle azioni umane.
La stessa vendetta ne è sottoposta. Infatti si compie di rimessa, a seguito di una ingiustizia.
Niente infine sembra appagante come un atto di giustizia, un giudizio di Salomone.
Giampiero Neri
*I testi sono tratti da: Giampiero Neri, “Da un paese vicino”, Edizioni Ares, 2020