“Al centro di un mistero”. Il “mondo-altro” di Cristina Campo
Letterature
Marilena Garis
La poesia, qui, si snoda in una trama di identità. Centrale, la figura di Frank O’Hara – poeta statunitense di hollywoodiana avvenenza che realizzò il manifesto del ‘personismo’ – e, a far da satellite, quella di Mia E. Brion, scrittrice e performer teatrale francese, che dell’autore ha di recente tradotto, per il lettore d’oltralpe, un florilegio di versi editi dall’eccentrica TH.TY – Théâtre Typographique. L’avanguardia a braccetto con la nuova avanguardia.
La bizzarra plaquette che ne raduna i testi – my o’hara – è la seconda pubblicazione di Brion presso l’editore di Courbevoie, preceduta da l’a la le – melodico titolo che sta per ‘l’amour, la poesie, le reste’ –, saggio-ballata la cui poetica ruota attorno ai termini elidere ed eludere, firmata nel 2018 come Matthieu Brion. L’autore, nel frattempo, ha mutato nome. Forse anche identità.
Brion – che suona infine come un epiceno – s’imbatte nello scrittore-poeta-critico americano prima durante i suoi studi all’Ecole des Beaux Arts di Parigi e, in seconda battuta, in una stagione della serie Mad Men, in cui il poeta compare, in filigrana, con una lettura da Meditations in an emergency (in acronimo MIAE – da qui, Mia E. [Brion]?), da cui, in particolare, i versi dedicati a Majakovskij, che di O’Hara fu stella polare insieme a Pasternak, oltre a William Carlos Williams, Walt Withman e Hart Crane.
In un delirio di folgorazioni accademico-pop, Brion, a cavallo fra prosa e poesia, seleziona a corredo del breve cahier un paio di scritti dell’autore – per The New American Poetry e per la Paterson Society – oltre al più noto manifesto (tutti contenuti in The Collected Poems of Frank O’Hara, Donald Allen ed., New York, Knopf, 1995). A rimarcare quanto la poetica di O’Hara si celi sotto forme inconsuete, soprattutto per gli anni in cui le prime file della letteratura erano occupate dai più tediosamente impegnati poeti beat – santificati fino alla nausea dagli editori italiani.
O’Hara, defilato come solo il più modaiolo degli artisti può osare – «Non negherò di avere praticamente le idee più raffinate di chiunque altro scriva oggi, ma tanto che differenza fa?» – schiera, invece, nei suoi versi, un unico elemento: l’Io. E in inusitati contesti. Come nei Lunch poems – dove la poetica del newyorkese in pausa pranzo, nel bagliore rumoroso e frammentato di un mezzogiorno a Manhattan, trascende nell’urbana metafisica, fuori da qualsiasi astrazione, in siderale distanza da ogni simbolismo, talmente vivida e concreta da risultare visionaria. Così, la sua poesia si apre alla percezione intima fino a spingersi all’impressione diaristica, drasticamente ancorata a quel reale che si azzarda a sconfinare nel surreale.
«È tutto scritto nelle poesie, ma a costo di sembrare la brutta copia di un Allen Ginsberg, ti voglio scrivere, perché m’è appena giunta voce che uno dei miei colleghi poeti va dicendo in giro che se una mia poesia non la si può comprendere alla prima lettura è perché sono io che sono confuso. Ma che diamine! Non credo in dio, pertanto non ho bisogno di elaborare strutture solide e complicate. Odio Vachel Lindsay, l’ho sempre odiato; non amo neppure ritmo, assonanza, e roba del genere. Bisogna fidarsi del proprio istinto».
‘Poeta fra i pittori’ – come verrà definito da Marjorie Perloff – O’Hara si arruola in Marina – da qui invia lettere molto poco patriottiche, veri e propri resoconti letterari –, si laurea ad Harvard, infiamma la vita artistica di New York come curatore del Museum of Modern Art, critico di Art News e catalizzatore d’eterogenee attenzioni. Soggetto di più ritratti di qualsiasi altro poeta dopo Apollinaire, come critico d’arte sostiene i cubisti, Picasso, Braque, Gris, Léger, Laurencin e Picabia. Poeta urbano, dell’uomo ama raccontare la solitudine, quella metropolitana. Senza liriche ambiguità.
«Mi occupo soprattutto del mondo così come lo vivo e, a volte, quando preferirei essere morto, l’idea di non poter scrivere un’altra poesia mi pietrifica. Penso si tratti di un atteggiamento spregevole. Sarebbe più giusto morire per amore, cosa che non ho fatto. Non penso alla fama o alla posterità (come ha fatto Keats in modo tanto sontuoso e onesto), non mi interessa chiarificare le esperienze di nessuno o migliorare (se non per caso fortuito) la condizione o le relazioni sociali di alcuno, tantomeno non sono interessato ad alcuna evoluzione formale della lingua americana solo perché io stesso lo ritengo necessario.
Ciò che mi accade, accantonando menzogne ed esasperazioni che tendo ad evitare, finisce nelle mie poesie. Non credo che le mie esperienze siano chiare o belle per me o per chiunque altro; sono semplicemente lì, in qualsiasi forma io riesca a renderle. Ciò che a me risulta nitido, nel lavoro, è probabilmente oscuro per gli altri, e viceversa. La mia “posizione” formale si trova al crocevia tra ciò che so e non capisco e ciò che rimane di quel che so e posso sopportare senza odio.
Non amo la maggior parte della poesia contemporanea – tutta quella antecedente di cui abbiamo notizia è tendenzialmente molto apprezzabile –, ma risulta un’utile spina nel fianco.
Forse la poesia rende tangibili gli eventi nebulosi della vita e ne restituisce i dettagli; o, al contrario, rende intangibile la materia di avvenimenti fin troppo concreti e circostanziati. O l’una o l’altra, a seconda delle occasioni, o entrambe, al contempo»
scrive per The New American Poetry: 1945 – 1960, antologia curata da Donald Allen, che incontrò per la prima volta proprio su impulso di Ginsberg, divenne il suo contatto alla Grove Press e poi il curatore postumo della sua opera.
Il filo dei quarant’anni di O’Hara viene tranciato dall’alta velocità di una jeep, sulla spiaggia di Fire Island, alle tre di un afoso mattino. Ad affollarne le esequie – nel torrido luglio del ’66 –, ex compagni di Harvard, fra cui il poeta Kenneth Koch; Allen Ginsberg e Peter Orlovsky che intonano “Hare Krishna, Hare Rama” dall’auto di Larry Rivers – amico e amante a cui O’Hara dedicò le prime poesie –; Barnett Newman, che dopo aver giurato di non tornare mai più negli Hamptons dopo il funerale di Pollock, finì per rinnegarlo e affittare una limousine con autista; il pittore Howard Kanovitz direttamente da Provincetown con un aereo a noleggio; Al Leslie, il quale, appresa la notizia dalla spiaggia, si presentò al cimitero in costume da bagno; infine, un bus giallo noleggiato dagli amici e colleghi del MOMA ad affrontare una soffocante traversata di tre ore da Manhattan, zeppo di curatori, direttori, assistenti e segretari – così dai racconti di Brad Gooch in City Poet: The Life and Times of Frank O’Hara (Knopf, 1993).
Sul finale, mentre Philip Guston e Joe LeSueur – protagonista di una lunga relazione con O’Hara – si allontanavano dalla tomba, che sarebbe stata segnata da una pietra d’ardesia con l’iscrizione del verso del poeta: “La grazia di nascere e vivere nel modo più vario possibile”, Guston cinse con un braccio l’amico LeSueur: “Era il nostro Apollinaire”, sussurrò.
**
Poem
L’odio non è che una risposta
già, dolore e odio incedono in simultanea
Perché lasciarsi intimorire dall’odio, esiste
pensa all’abiezione, è pura angoscia
non l’odio
non crucciarti per la scarsa creanza, la stessa
nitidezza ti consentirà di essere diretto
come una cuspide che affonda il colpo
da un estremo all’altro, l’empietà lascia alitare l’amore
non devi lottare per incunearti troppo in profondità
si può sempre riemergere senza codardia
un tocco di prudenza
basta ad avvelenare il cuore
non curarti del prossimo
prima di pensare a te stesso, sono reali
tutte queste cose, se le senti
saranno graziate da una sorta di reticenza
e si convertiranno in oro
Se le sentirò, saranno deviate con un sorriso
dalla tua misteriosa inquietudine
*
As planned
Dopo il primo bicchiere di vodka
puoi tollerare ogni cosa
della vita anche il mistero
pensi sia bello che una scatola
di fiammiferi viola e marrone si chiami
La Petite e venga dalla Svezia
perché sono parole che conosci e
tutto ciò che sai sono le parole non la loro anima
o il loro significato e scrivi perché
le conosci non perché le comprendi
non perché sei sciocco e indolente
e non sarai mai acuto ma perché fai
ciò che sai altrimenti cos’altro potresti?
*
Song
È grigio
sembra grigio
è quel che pensi in città
solo grigio
è questo che pensi in città
stai trattenendo il respiro
un losco personaggio ti segue
sembra attraente. lo è davvero. sì. lo è.
tanto attraente quanto inumano. è così. sì
questo pensi in città.
il dito corre lungo la tua mente sfibrata
non è un pensiero ma cenere
così ripulisci qualcuno
diverrà forse meno malvagio. no. migliorerà per gradi
stai trattenendo il respiro
*
Metaphysical poem
Quando vuoi andare
non sono certo di volerci andare
e allora dove vuoi andare
non importa dove
penso che crollerei ovunque
ci andrò se lo desideri
non ci tengo particolarmente
crollerai altrove
posso solo andare a casa
non credo di andarci
ma non voglio costringerti ad andarci
non mi costringerai finché potrò scegliere
non potrei tuttavia restare a lungo
forse potremmo andare in un posto più vicino
non indosso la giacca
come tu non porteresti la cravatta
beh, non ho detto che dobbiamo andarci
non voglio che la indossi
non dobbiamo fare nulla
va bene, non facciamo nulla
ok ti chiamo
sì chiamami
Frank O’Hara
*La cura del servizio e la traduzione delle poesie sono di Fabrizia Sabbatini