29 Luglio 2022

“È più famoso dei Beatles, le donne impazziscono per lui”. Andrej Voznesenskij, poeta

Quando morì, il primo di giugno del 2010, la Russia trattenne il fiato, le ore raddoppiarono, il giorno durò tre giorni, calvo di tristezza. L’allora presidente della Federazione Russa, il temibile Dmitrij Medvedev, scrisse una commossa lettera di condoglianze; una fotografia lo ritrae con Vladimir Putin, il quale, addolorato dalla perdita, disse “di una personalità dal carisma così influente”. Da qualche anno, ormai, Andrej Voznesenskij non camminava, l’ictus gli aveva paralizzato una parte del corpo. Quando muore un poeta, in Russia, è come se tagliassero un dito alla nazione: tutto sanguina, e soltanto una sfrenata nostalgia, senza cautele, sa cauterizzare.

Nato nel 1933, Andrej Voznesenskij, in effetti, è stato la rock star della poesia sovietica: una fotografia lo ferma, nel 1985, insieme a Bob Dylan. Stanno mangiando qualcosa, Voznesenskij, in foia, parla, a suo dire la poesia è pura musica che si attorciglia su un grumo di immagini; Bob Dylan aveva da poco pubblicato Empire Burlesque: ascolta, insospettito. Nato a Mosca, figlio di un ingegnere, Voznesenskij studia architettura, ma presto abiura il lavoro ‘socialmente utile’ abbandonandosi alla poesia. Ha un volto svagato e scaltro, da cantautore francese, l’indole del puro folle e del seduttore: fu Boris Pasternak, a cui cominciò a scrivere, da adolescente, a instradarlo nei meandri della poesia.

“Da quando lo conobbi, la mia vita ha assunto un significato magico, il magnete di un destino: la sua poesia, le conversazioni al telefono, le chiacchiere domenicali a casa sua, dalle due alle quattro di pomeriggio, le lunghe passeggiate. Anni di felicità, di ingenua adorazione”.

Invitato nel 1963 alla trasmissione Rai “L’approdo”, Voznesenskij ricorda il debito con Pasternak, morto tre anni prima, e il punto in cui la filiazione diventa schiavitù, l’amicizia si snatura in mera obbedienza.

“Pasternak mi ha svezzato alla poesia: dopo aver letto alcuni miei versi disse, ‘potrei inserirli nel mio prossimo libro’. Ne ero, ovviamente, lusingato, ma la cosa mi fece paura. Le mie poesie, in fondo, erano una copia di quelle di Pasternak. Smisi di scrivere per un anno. Solo allora trovai il mio linguaggio”.

L’esigenza di disseccare i legami con il maestro per percorrere una propria, autorevole maestria.

Degli anni Sessanta Andrej Voznesenskij è la stella assoluta della poesia russa. Ribelle all’etica socialista, il poeta conserva una nobiltà artica, una voluttà indifendibile. Fu Nikita Chruščëv, all’epoca Presidente del Consiglio dei ministri dell’Urss, a fargli, come dire, da agente. Lo accusò di essere un poeta pervertito, un esagitato flâneur, un gagà inutile ai fini etici promossi dal governo sovietico. Invitato a un ricevimento del Partito Comunista, nel 1962, il capo politico gli urlò contro pressappoco in questo modo: “E tu saresti l’ennesimo nuovo Pasternak? Vuoi un passaporto come lui? Vuoi andartene? Prendilo! E poi vattene, vai dai quei cani, vattene in Occidente!”. Andrej Voznesenskij prese in parola il capo spupremo – la sua fama era tale, d’altronde, da non temere ritorsioni – e insieme a Evgenij Evtušenko e a Bella Achmadulina, la musa di entrambi (“Ci si può accendere un cuore, o una stufa, magari,/ e incendiare la terra, e poi mandarla al diavolo!”, la cantava Voznesenskij, ma lei gli preferì Evtušenko), cominciò un lungo tour nel mondo occidentale.

L’Italia, attenta al barometro letterario sovietico, lo pubblicò immediatamente: Andrej Voznesenskij portava una poesia ardita, energica, avida di metafore, liberatoria. Nel 1962, caso più unico che raro, uscirono nel nostro paese due titoli di Andrej Voznesenskij; il primo, Antimondi, stampato da Editori Riuniti a cura di Giovanni Crino; l’altro, pubblicato nella mitica collana ‘Le Comete’ Feltrinelli, per la traduzione di Mario Socrate – che aveva già tradotto le poesie di Pasternak in appendice al Dottor Živago – ha un titolo di tetragona bellezza, Scrivo come amo. La presentazione – una ‘quarta’ che parte dalla copertina – è bizzarra, lunatica, tesa a fare del poeta un ‘personaggio’, l’icona di un mondo nuovo, una carnevalata:

“Ha scritto di lui l’Observer: ‘La sua poesia è straordinariamente moderna nella strumentazione musicale e fa pensare al jazz sinfonico; ma è anche fortemente pittorica’. Ma poi, parlando a quattr’occhi, Evtušenko, l’idolo di tutte le ragazze dell’Unione Sovietica, di Cuba, d’Inghilterra (insomma di tutti i posti in cui è stato), s’abbandona a confidare: ‘Voznesenskij? Le donne lo adorano, per lui impazziscono letteralmente’. Non molto alto, fragile, febbrile, con un volto da ragazzo (ma lo è, un ragazzo), e due occhi straordinariamente magnetici, vagava qualche mese fa per Firenze, di giorno e di notte, sdegnando le cerimonie ufficiali, inseguendo pietre e fantasmi, come roso da una smania. Paolo Milano, quando se lo vide venire incontro, con quel suo lieve sorriso timido e struggente, gridò: ‘Ma è Rimbaud, tale quale!’. Limava poesie, la sera, nella camera sul Lungarno e la mattina pudicamente scontroso deponeva le varianti nelle mani degli amici”.

La necessità del pubblico, dei grandi numeri sovietici, di essere portavoce e profeta, si fonde, in Voznesenskij, nel tipo elusivo, nottambulo, che si dà agli altri senza appartenervi, eterno transfuga e vagabondo. “Mi piace viaggiare, tutta la vita per me è un viaggio”, diceva, a chi lo intercettava. Nella prefazione al libro pubblicato da Feltrinelli, Andrej Voznesenskij ricorda la sua visita a Firenze, traccia lo stigma di una poetica:

“La città era primaverile e annebbiata. Annebbiata come un lucido della mia giovinezza. Tralucevano, trasparivano attraverso di essa i miei amici, i miei errori, i miei entusiasmi… L’arte non può fare a meno dell’introspezione, della coscienza del destino, della conoscenza dell’anima. Sono le sue fughe di stanze, le sue scale, i suoi corridoi. La poesia deve essere limpida e infinitamente ansiosa, come il cielo”.

Angelo Maria Ripellino, naturalmente, lo aveva inserito tra i Nuovi poeti sovietici (Einaudi, 1961), poi Voznesenskij, in modo brusco, sorprendente, sparì dai radar editoriali italiani. Gli erano congeniali gli Stati Uniti, più che altro. Robert Lowell lo aveva dichiarato “uno dei più grandi poeti viventi, di ogni lingua”; un gruppo di poeti, capitanati da W.H. Auden, aveva tradotto le sue poesie in inglese. Instaurò una amicizia formale con Allen Ginsberg: alcuni credevano, senza capirci troppo, che Andrej Voznesenskij fosse una sorta di ‘beat’ russo. Kennedy si fece latore della pace tra il poeta e il governo russo: d’altronde, Voznesenskij aveva letteralmente sedotto Jacqueline Kennedy, che non si perdeva le sue letture pubbliche, sedendo in prima fila, non soltanto negli States. “È stata per me una delle figure più care e indispensabili della cultura occidentale. Una raffinata signora, con qualità da star e un gusto squisito…”, dirà, più tardi, il poeta. Riabilitato in patria, nel 1978 ottenne la più alta onorificenza sovietica assegnata a un artista.

Andrej Voznesenskij con una ammiratrice: Jackie Kennedy

Continuò le tournée liriche fino a tutti gli anni Ottanta. Quentin Vest e William C. Woods lo intervistarono per la “Paris Review” nel numero estivo del 1980. I giornalisti descrissero Voznesenskij con enfasi, “è una leggenda in Russia, lo riconoscono in tutti gli aeroporti del Sud America, è l’equivalente sovietico dei Beatles”. Il poeta non aveva perduto il suo fascino, ma una certa stanchezza, una inacidita nostalgia smorzava il suo dire, lo perseguitava:

“All’epoca il rock era proibito in Russia. Credo che i giovani desiderassero con ardore quel genere di spettacoli, dunque venivano ad ascoltare le nostre letture negli stadi, e ad applaudirci come se fossimo delle rockstar. Ci ritrovammo a leggere versi davanti a 14mila persone… È strano, per me, parlare della mia fama. Non mi sono mai preoccupato di essere popolare. Eravamo un gruppo di poeti arrabbiati, io, Evtušenko, Bella Achmadulina. In Russia è tradizione ascoltare i poeti, ma nessuno ha mai raccolto così tanto pubblico. Abbiamo iniziato con poche centinaia di persone, siamo arrivati a 14mila accoliti, in uno stadio. Come fosse una competizione sportiva. A me non è mai piaciuto. In uno stadio è difficile che 14mila persona riescano ad ascoltare ciò che hai scritto, non puoi parlare con tenerezza e intimità a ciascuno”.

Ha conosciuto Picasso, dialogava con Sartre e Heidegger, era amico di Marilyn Monroe, dalle sue poesie sono state tratte canzoni. Ogni 10 febbraio onorava il giorno natale di Pasternak, il suo maestro. Fu l’estrema cometa di un’epoca irripetibile.

**

Ballata parabolica

Lungo una parabola, come un razzo, vola il destino,
di solito nell’ombra e, rare volte, in pieno arcobaleno.

Visse un pittore dai capelli rosso fiamma, Gauguin,
agente di commercio prima di finire bohémien.
Per raggiungere da Montmartre
                                                     il Louvre regale
lo aggirò
               passando da Sumatra a Giava!
Se ne fuggì scordando il denaro e le sue insanie
il chiocciare delle mogli, l’asfissia delle accademie,
fino a vincere
                   la gravitazione terrestre.
I sacerdoti gracidavano ingollando gotti di birra:
“La retta è più breve, la parabola più rapida,
perché non copia, invece, le tende del paradiso?”.

Ma lui sfrecciava via, razzo ruggente,
attraverso il vento che strappava falde e orecchie,
e nel Louvre entrò non per la porta principale,
ma sdegnosamente,
                      sfondando il tetto
                                                     con la parabola.

Vanno alle proprie verità, coraggiosi in diverso modo
il verme per una fessura, lungo una parabola l’uomo.

C’era una volta una ragazza nello stesso mio quartiere.
Studiavamo e davamo anche gli esami insieme.
Perché mai sono partito!
                                        Il diavolo mi ha spinto
tra queste stelle georgiane, ambigue e pingui!
Perdonami, una parabola sciocca come questa.
Spallucce intirizzite nell’uniforme da festa…
Oh, come tintinnavi nelle tenebre dell’Universo,
elastica e dritta come l’asta di un’antenna!
Ma io sto volando ancora
                                     e ancora cerco di atterrare
secondo i tuoi terrestri, infreddoliti richiami.
Oh, se è difficile questa parabola….

Spazzando via canoni, prognosi, paragrafi,
volano l’arte, l’amore e la storia
lungo una parabolica traiettoria!
Lui stanotte stessa partirà per la Siberia.

Forse la via retta è quella più breve.

*

Serata al cantiere

Fanno a spaventarmi col formalismo.

Dalla vita come siete distanti
voi, tutti impregnati di formalina
e d’incenso, voi, i competenti!

Avrete forse tutta una terra vergine,
ma né un chicco, né una gemma vi germina.

E l’arte è morta senza la scintilla,
non divina, ma umana, lei che fa
che stia attento a sentire il bulldozerista
in mezzo all’impenetrabile taiga.

Ne hanno viste di cotte e di crude
ma fa che stiano fermi come adesso,
con quella barba incolta come il sole
squamandosi più dei pini;

e che quella ragazzina čuvaška,
lasciando una lacrima azzurrognola,
lasciandola scivolare pura e sporca,
lasciandola come una libellula,
batta le mani fragorosamente.

Per questo non mi toccano neppure,
gli attacchi di chiunque mi vituperi,
e le etichette più inviperite.

*

L’artista

[lettera a K.L. Zelinskij]

Nel secolo della ragione e dell’atomo,
noi siamo gli ostetrici del nuovo.
Questa sorte infernale
ci si addice e ci piace.

Siamo le levatrici.
Ruggisce il secolo e strepita,
ibrido tra un babbuino
e un motore d’aereo.

Provatevi ad assistere
a un simile parto,
bruciare sugli elettrodi,
prendere in mano il radio,

quando l’anima-attinia
allo scheletro s’attacca.
Oh radioattiva
base dell’arte!

Irradiano le parole come il quarzo
colpiscono e risanano
perché gli uomini migliorino,
perché ne abbiano un balsamo…
Perché i tumori maligni
cadano dalle anime e dai corpi.
Perché il comunismo, come una conchiglia,
avvicinandoselo, rombi…

E l’artista, lieto del suo destino,
nel laboratorio sta
immortalmente colpito
dalla radioattività!

*

Strada nella nebbia

Il sobborgo nebbioso sembra un colombo
                                         Come galleggianti, i vigili.
Nebbia.
Che secolo è? Di quale era?

Tutto è sconnesso, come in un delirio.
                                             Gli uomini, quasi fossero svitati…
Vagolo.
O meglio, mi dibatto nell’ovatta.

Nasi. Fanalini. Berretti d’uniformi.
                                                  Tutto si sdoppia come ombre cinesi.
Calosce?
Bada a non scambiare la testa con un altro!

Così una donna, appena staccata dalle tue labbra,
                                         sdoppiandosi come a richiamarti qualcosa
già non più l’amata, ma una vedova,
                                                ancora tua e già di qualcun altro…

Struscio paracarri, passanti…
                                        Venere è soltanto un gelataio!
Amici?
Oh, questi Iago casalinghi!

Tu? Eccoti che ti pizzichi le orecchie
                                          sola in un cappotto troppo largo.
Baffi?
Brina sopra i ciuffi di un orecchio!

Io inciampo, m’arrabatto, vivo,
                                        nebbia, nebbia, da non raccapezzarcisi,
a quale guancia ti strofini nella nebbia?
Ehi!
Nebbia, nebbia, inutile chiamarsi…

Che bello quando la nebbia si dilegua!

Andrej Voznesenskij

*Una selezione delle poesie di Andrej Voznesenskij sarà pubblicata prossimamente dalle edizioni Pangea / Magog

Gruppo MAGOG