A ‘Mita’, nel settembre del 1957, Cristina Campo ne scrive come di “un cinese antico”. “Se la vedrò le mostrerò un poeta che è stato con me sul lago e in queste notti – ha 72 anni ed è come un cinese antico”. Più avanti – il 25 ottobre – a lettura distesa: “Dice tutto quello che io non oso dire – tutto il mutamento e il pericolo che è in quest’aria di ottobre – come una primavera capovolta nel fiume… tutto si oscura e si rischiara con sempre nuova disperazione”. Nel 1958 esce, per Scheiwiller, il volume Il fiore è il nostro segno: William Carlos Williams ha privilegio di fedeltà, è il poeta più tradotto dalla Campo. Come sempre, nel caso di CC, non si tratta di rapporti ma di legami, inscindibili, di dedizione senza solvenza, di inginocchiatoio. Nel 1961 Einaudi architetta una raccolta di Poesie di WCW con le traduzioni della Campo e di Vittorio Sereni. “Un’antologia di William Carlos Williams (sia pure piccola, sia pure quasi privata) è una cosa assai difficile da comporre. L’intera opera del poeta si configura infatti come un lunghissimo e minuzioso diario cosmico: composto giorno per giorno, segmento per segmento, in quel ritmo caleidoscopico di crollo e ricomposizione da lui stesso definito in una celebre lettera: ‘La vita’ scrive Williams ‘è soprattutto sovvertitrice della vita stessa, quale era un attimo prima: sempre nuova e priva di regole. E nel verso, perché esso viva, qualcosa deve essere infuso che abbia il colore stesso dell’instabile, qualcosa nella natura di una impalpabile rivoluzione’”.
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Al cospetto dell’instabile – ecco, la poesia senza posa.
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William Carlos Williams è scomparso dal panorama editoriale italiano: resiste un suo libro in prosa – paradosso alchemico per un poeta – Nelle vene dell’America, in catalogo Adelphi, nella furibonda traduzione di Rodolfo Wilcock. Pubblico nel 1923, racconta, da Eric il Rosso (“Piuttosto il ghiaccio che fare come loro: prendere ciò ch’è mio con la sola mia forza, loro invece con la stortura della loro legge”) ad Abramo Lincoln (“Brancusi dovrebbe fare la sua statua, di legno, qualcosa come il suo Socrate, con il grosso buco nella enorme massa della testa, solo che questa sarebbe una donna…”) il gigante americano, con una lingua spigliata che mescola reportage a documenti, epopea e prosopopea, critica letteraria (un pezzo-icona su Edgar Allan Poe: “Deve pagare la sua originalità… Era americano. Era lo stupefacente, inconcepibile frutto del suo luogo. A bocca aperta lo guardavano, e lui loro, con sbalordimento”) e ceppi storici (il pezzo su Samuel Houston, “nato nel 1793, di famiglia scozzese-irlandese, scappò dalla casa dei suoi fratelli ai quali era stato affidato e si unì agli indiani cherokee del Tennessee occidentale”). Il libro è memorabile – c’è più WCW in William Vollmann che tutto il canone insieme. Fatto è che manca tutto il resto.
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Il punto morale è questo: “Tutti devono arrivare da sotto, attraverso uno strato morto… colui che vuol crescere deve prima affondare”. Deporre il nome come una corazza ammaccata, come una gimkana di farfalle, come il seme da cui cresce una discendenza non nostra. Chi vola fu pesce, tra acqua e aria la distanza è nel gergo polmonare.
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Nato a Rutherford, New Jersey, da babbo inglese e mamma portoricana, WCW studiò alla University of Pennsylvania, fu medico – pediatria, medicina generale – praticò al St. Mary’s General Hospital di Passaic, fu uno dei titani del ‘modernismo’ americano. Fu, per questo, coperto di allori: ‘Poeta laureato’ nel 1952; Premio Pulitzer nel 1963; il primo National Book Award for Poetry, nel 1950 – lo seguiranno Wallace Stevens, Marianne Moore, Auden – per l’opera somma, Paterson. Ecco. Paterson, come si dice, è una delle opere ineluttabili del secolo, inesauribili, per composizione narrativa e tensione lirica. Affascinato dall’Ulisse di Joyce, WCW decide di compiere qualcosa di simile in poesia. “Potrebbe essere il 1925 l’anno al quale risalgono i primi appunti sul progetto”, scrive WCW. Se in Nelle vene dell’America l’intento è stato quello, per blocchi storici e cammei biografici, di scrivere la storia dell’intero continente, in Paterson l’etica è opposta: con bisturi e microscopio – ed estro poetico moltiplicato – si disseziona una città – Paterson, appunto, capoluogo della Contea di Passaic – in quanto emblema del tutto. Il poeta s’inabissa nei penetrali del destino di una città, della civiltà, nella sua anima. Con l’idea, mantica, di dirne l’origine, l’energia prima: “Il rumore delle Cascate mi sembrava una lingua che noi stavamo e stiamo ancora cercando e la mia ricerca, mentre mi guardavo intorno, divenne una vera e propria lotta per interpretare e per riuscire a usare questo linguaggio. Questa è la sostanza del poema”.
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Paterson è il poema che ossessiona WCW: verbo che si fa acqua, parola che guizza. Ha ragione la Campo: un cinese antico in gergo modernista. Il poema è edito in cinque tomi, tra il 1946 e il 1958. In Italia è pubblico da Mondadori nel 1997, per la cura di Alfredo Rizzardi, dopo le edizioni Lerici (1966) e Accademia (1972). Ora non esiste, editorialmente, più: ennesimo ridicolo eccidio del genio – a volte mi pare improbabile che un poeta possa poetare senza conoscere Paterson.
Cerca il nulla
sbaraglia tutto
l’N di tutte le
equazioni
quella roccia, il vuoto,
che la sostiene
una volta strappato via –
la roccia è
la loro caduta. Cerca
quel nulla
che sta oltre ogni
visione
la morte di ogni cosa
che sta oltre
ogni essere
…La memoria è una specie
di realizzazione
una specie di rinnovamento
e anche
un’iniziazione, giacché gli spazi da lei aperti sono
nuove terre
abitate da orde
prima inavvertite,
di nuove specie –
…un mondo perduto
un mondo insospettato
accenna a nuove terre
né v’è bianchezza (perduta) tanto bianco quanto
il ricordo della bianchezza.
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Fu il più solido amico di Ezra Pound. Si conoscevano dall’università: WCW, classe 1883, descrive così, nel 1904, l’estro di Pound alla madre. “Pound è un bravo ragazzo; fede in ghisa, icona dell’ottimismo, insomma, è ammirevole. Ma non uno su mille gli garba e in molti lo detestano. Perché? Perché è così dannatamente pieno di compiacimento e di modi eccentrici. È un parlatore e pensatore di genio, ma si diletta nel fare ciò che non è: un boato che sghignazza”. Nel 1910 WCW visita Pound a Londra: l’amico lo inoltra a Yeats, lo aiuta a pubblicare i primi libri, lo presenta a Harriet Monroe, per spingerlo nei ranghi di Poetry. L’amicizia si incrina nel 1922. Il rapporto tra Pound e Thomas S. Eliot, consolidato con la pubblicazione di The Waste Land, è percepito da WCW come un tradimento. “Il più grande dono di Pound a Williams, in ogni caso, fu quella di sollecitare James Laughlin, il fondatore di New Direction, a firmare un accordo con il Bardo di Rutherford. Fino al 1936 i libri di Williams erano apparsi per lo più in placche e piccole edizioni, grazie al lavoro di New Direction i suoi lettori cominciarono a levitare” (per approndire: Herbert Leibowitz, William Carlos Williams and Ezra Pound: Episodes from a sixty-year friendship). Curioso l’aneddoto che WCW scrive nell’autobiografia del 1951. In una recita universitaria dell’Ifigenia in Aulide di Euripide, Pound interpreta una donna del coro, “aveva una parrucca stravagante, gesticolava selvaggiamente, brandiva i seni enormi in un’estasi di estrema emozione”.
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WCW ebbe il talento di riconoscere poeti acuminati come lui. Nel 1919 esaltò Emanuel Carnevali come un Rimbaud sgangherato in Gloria!, “Gesù, Gesù, salva Carnevali per me!”. “Williams era meno loquace di Cummings e la sua conversazione portava ad amarlo più che ad ammirarlo”, ricorda di lui Octavio Paz. “Parlammo degli Stati Uniti e del Messico. Ovviamente si cadde sul tema delle radici. Noi, gli dicevo, siamo soffocati dalla profusione di radici e di passati, ma voi siete schiacciati sotto il peso enorme di un futuro che si sbriciola. Si disse d’accordo con me e mi diede un opuscolo appena pubblicato di un giovane poeta, preceduto da un prologo scritto da lui: si trattava di The Howl di Allen Ginsberg”.
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Quando la Campo prende a tradurre WCW, il poeta è tormentato dal dolore: nel 1953 passa in un ospedale psichiatrico, nel 1958 un infarto – il terzo – gli impedisce i movimenti; un’ischemia gli ruba la voce. Muore, in martirio, nel 1963. Si colloca sempre nell’impossibile ogni rapporto di CC. L’11 marzo del 1963 scrive: “È morto, giorni fa, William Carlos Williams. Ora non c’è più nessuno da amare nella poesia. Eliot, Marianne Moore, Djuna Barnes. Ma non danno, come lui, la primavera, il caldo tempo che torna malgrado tutto e che si vorrebbe baciare”. Torna la primavera, dono della prima lettura; torna l’amore, detto da Paz.
Innocenza, innocenza, condizione del cielo!
Solo nell’ignoto saremo
festeggiati, nutriti. Ritualmente. L’ignoto,
rifugio a cui ci scagliamo. Perché
seppure, privi di paracadute, saremo
piatti contro la terra, non sarà più la stessa terra
che lasciammo per il volo. Cercando che? Non c’era nulla
lassù. Né è più l’ignoto, ora. Eppure mai
conoscemmo la terra come abbattuti, rotti
contro di lei. Dall’alto noi cadiamo, innocenti,
verso le nostre morti.
Così Cristina Campo traduce Il picchio. Loro – Pound, Eliot & Co. – pensavano alla parola potente, alla poesia come potere, possibilità, pensiero. WCW faceva il medico, accordava il verso alle cascate, fu come la primavera – non fu più cauto, restò blu. (d.b.)