Nel luglio del 1986, James Birch, giovane gallerista di Londra con vaghi progetti di dominio mondiale, parte per l’Unione Sovietica. È la sua prima visita, non sa cosa attendersi. Michail Gorbačëv era diventato da un anno Segretario generale del Partito comunista: perestroika e glasnost profumavano l’aria (comunque, la stampa britannica ne parlava). Eppure, Mosca era un mondo a parte. Su consiglio del suo compagno di viaggio, un “imprenditore culturale” il cui commercio di tappeti lo portava spesso in Urss, Birch aveva portato con sé diversi pacchetti di digestivi al cioccolato: in caso si trovasse a corto di cibo e di Camel, poteva usarli per pagare gli autisti che avrebbero dovuto dargli un passaggio. In città, praticamente, non esistevano taxi.
Birch sperava di convincere le autorità sovietiche di avere il permesso di allestire una mostra sugli amati ‘neo naturisti’, un gruppo di artisti britannici che includeva il futuro vincitore del Truner Prize, Grayson Perry. Tramite un dipendente di Sotheby’s, esperto in icone russe, aveva scritto a Tahir Salahov, direttore dell’Unione degli artisti, che controllava con severità quanto si produceva in Urss. I negoziati, se così si può dire, a questo punto dovevano essere condotti con l’aiuto di un intermediario, Sergej Klokov, ufficiale del Kgb con mansioni specifiche in ambito culturale. Klokov, che Birch aveva incontrato di sfuggita a Londra qualche mese prima, incuteva timore. Nella guerra in Afghanistan aveva maneggiato il lanciafiamme; un mero sguardo al suo curriculum faceva tremare le ginocchia. Tuttavia, in Birch c’era un non so che di ridicolo. Gli abiti griffati Pierre Cardin, la piccola borsa di pelle al polso, la sufficienza con cui fissava il nuovo amico inglese, come fosse “un parrucchiere”, diceva.
Naturalmente, Klokov e i suoi rifiutarono la mostra sui ‘neo naturisti’. Ma ciò non significava che non volessero aiutare Birch. Andy Warhol? Non potrebbe fare una mostra a Mosca? E Francis Bacon, il cui nome era pronunciato con tanta riverenza tra gli artisti sovietici contemporanei? Con Warhol, Birch non sarebbe andato da nessuna parte; grazie ad antichi legami di famiglia, conosceva Bacon da sempre.
A Londra, Bacon si dichiarò entusiasta. Avrebbe potuto andare a San Pietroburgo e ammirare a lungo i Rembrandt dell’Ermitage. Birch sapeva che la strada era complicata: Bacon era donchisciottesco e incontrollabile; Klokov aveva avvertito che opere troppo “estreme” sarebbero state bloccate dalla censura. Ma chi poteva resistere a una simile opportunità? Era la prima volta dal 1917 che a un artista britannico era concesso l’onore di una personale in Unione sovietica.
Il picaresco libro di memorie di Birch, Bacon in Moscow, scritto con l’aiuto del giornalista Michael Hodges, è il primo tomo edito da Cheerio, un marchio creato in collaborazione con gli eredi di Bacon (cheerio era il brindisi di Bacon). Fuori dall’agone accademico, da una foresta di studi e ricerche avviate da professori con pseudo borse di studio, le memorie di Birch sono divertenti, ben scritte, inghirlandate di scaltra ironia. Bacon leggeva di tutto, da Eschilo ai libri di cucina; gli aneddoti sulla gita sovietica sono memorabili. La sorveglianza, le spie, la corruzione; le insalate senza sale, la Coca Cola sgasata, gli alberghi di Stato con i cessi che puzzano di mele marce (frutto, secondo Birch, di un sistema digerente raffinato dalla vodka). Tempi che paiono lontanissimi. Tornando a casa su un aereo quasi vuoto, il gallerista londinese si trova di fronte un minatore disoccupato dello Yorkshire: lo stato sovietico gli aveva pagato una vacanza ‘solidale’ sul Mar Nero.
La mostra ebbe successo? Sappiamo che fu realizzata nel 1988 e che la gente faceva la fila per andare a vederla (in appendice al libro un apparato fotografico ne testimonia l’efficacia; sul libro dei visitatori si legge l’entusiasmo dei partecipanti, uno scrive: “È un bene che la mostra sia piccola. Potrebbe portare alla follia”). Il vero carisma del libro, comunque, è la narrazione di come è stato creato l’evento: i pettegolezzi, le minacce, i tentativi di sabotare la mostra; il momento, sfacciatamente comico, in cui Klokov vende un quadro che Bacon gli ha regalato. Con i soldi, si è comprato un allevamento di serpenti in Uzbekistan.
Rachel Cooke
*L’articolo è stato pubblicato su “The Observer”
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Nell’ottobre del 1988 ho portato Francis Bacon a Mosca, un’inimmaginabile intrusione della cultura occidentale nel cuore del sistema sovietico. Avevo 32 anni, conoscevo il più grande artista allora vivente dall’infanzia. Era un amico, e dagli anni dell’adolescenza ho passato molto tempo con lui. Abbiamo bevuto insieme al Ritz, ci siamo ubriacati a Soho, siamo stati al ristorante greco, il White Tower. Tutto questo, però, non spiega la nostra impesa in Urss, poco prima che l’Unione sovietica si distruggesse, sotto sorveglianza continua del Kgb. Sono moralmente responsabile di aver portato una trentina di Bacon in Russia, per una mostra. Tutto è stato possibile grazie a Sergei Klokov. Lui era il mio gancio, l’uomo che poteva rendere possibile l’impossibile a Mosca, che si rivelò disposto a tutto per aiutarmi. Klokov mi era stato presentato dall’incantevole Elena Khudiakova, una donna di cui, è chiaro, mi innamorai quasi subito. Ma questa storia non inizia con Klokov.
Inizia, piuttosto, con James Bond, all’epoca in cui, da ragazzo, leggevo i libri di Ian Fleming. Amavo quelle storie e soprattutto le copertine disegnate da Richard ‘Dicky’ Chopping: corpi, coltelli, pistole, insomma, quelle cose che amano i ragazzi. Quelle copertine infiammarono il mio interesse per il surrealismo. Inconsciamente, diventai un collezionista.
L’arte era un affare di famiglia da prima che nascessi. I miei genitori si sono incontrati a Cambridge, mio padre praticava architettura e ha seguito mia madre a Londra, dove studiava, alla Chelsea School of Art. Uno dei suoi insegnanti era Henry Moore. Mio padre non aveva voglia di fare l’architetto, così si è messo a dipingere. Dopo essersi sposati, i miei hanno cominciato a vivere dipingendo vasti murales. Mio fratello e mia sorella hanno studiato arte a Firenze. Quando i miei genitori andavano in Italia, venivo spedito in East Anglia, dalla nonna. Viveva nel Suffolk: paesaggi fitti di paludi, pianure di fango, maree e, di notte, migliaia di stelle. Il panorama attirava stormi di uccelli acquatici; e flotte di artisti, da Londra. Molti di questi artisti venivano a pranzo da mia nonna. Così, davanti ai miei occhi è scorsa una successione di creature esotiche e fragili. Molti di loro li conoscevo da tempo: Cedric Morris, John Nash, ‘Dicky’ Chopping, l’illustratore dei libri di James Bond, e il suo amico, Denis Wirth-Miller.
Dicky e Denis vivevano insieme e quando i miei genitori hanno preso un cottage in quella zona, siamo diventati vicini di casa. Spesso invitavano i loro amici, tra questi spiccava un pittore, Francis Bacon. Una volta ho fatto il bagno nella vasca, a casa loro: Francis ha preso una macchina e mi ha fatto una foto. Ce l’ho ancora. Nessuno si scandalizzava a casa mia, anche se ai tempi si pensava che i gay fossero pedofili. Ricordo che una volta un amico di mia madre l’ha apostrofata, “Vuoi forse dirmi che gli hai permesso di fare il bagno con Francis, Dicky e Denis? Come hai potuto lasciarlo a loro?”. Al che mia madre rispondeva, “Ovvio, mi fido completamente”.
Denis e Dicky erano i più vecchi amici di Francis. Francis aveva da poco superato i quaranta quando fu presentato ai miei genitori. Diversamente dalla leggenda popolare, suggerita dalla brutalità delle sue opere, che vede in lui un artista rabbioso e infelice, Francis era un uomo gentile, dalle maniere affettate.
James Birch