Il Novecento è stato un secolo incomprensibile. Un secolo solcato da contraddizioni talmente profonde da renderlo indecifrabile. Ma la contraddizione è la più sottile delle manifestazioni dello spirito e, così, questo strano secolo è stato anche quello più umano. L’ultimo film del più grande regista, realizzato proprio sul crinale di questo fatidico arco temporale, non poteva che esserne una perfetta sintesi. A partire da quel titolo intraducibile: Eyes Wide Shut, “Occhi Aperti e Chiusi”, verrebbe da dire, ma si perderebbe nella traduzione quella naturalezza che lo rende così misterioso, inspiegabile e allo stesso tempo vero. Meglio non azzardare, che rimanga quello, l’unico titolo.
Del resto, il tema è proprio quello dell’incomprensione, dell’impossibilità di comunicare. In questo caso il titolo ha il dovere di essere un enigma. Eyes Wide Shut è un film che prova a raccontare l’irraccontabile. Le contraddizioni dell’animo umano, lo scarto incolmabile tra desiderio e amore, tra seduzione e sentimento e ciò che di più perturbante si nasconde negli oscuri angoli delle nostre vite. Il controsenso che abita il quotidiano. L’assurdo che si cela nell’ordinario per poi entrare in scena all’improvviso con un boato che ci lascia sconvolti. Siamo stati educati alla logica, al pragmatismo, non siamo preparati all’urto delle pulsioni. Ci era stato promesso che avremmo visto tutto, che tutto avremmo capito, e invece eccoci qua, tremanti come bambini di fronte alla potenza dell’irrazionale.
Kubrick riconosce il Novecento come il secolo dell’incongruo, e in questa confusione universale pone un personaggio irrisolto. Un burattino di quest’epoca, una marionetta depersonalizzata nelle mani della storia. Bill Harford (Tom Cruise), è un giovane medico di successo che ha tutto dalla vita, ma che è in perenne ricerca di qualcosa che non riesce a trovare. Metafisica del desiderio. La ricerca di un uomo che appare realizzato ma che in realtà ha seppellito nei meandri della coscienza tutto ciò che non è controllabile, che non è addomesticabile. Istinti, passioni e perfino sentimenti. Mentre Nicole Kidman, la bellissima moglie dalle movenze ammalianti, madre di suo figlio e sua personale sirena, è una donna che rimane un mistero per il marito che presto si accorge di non conoscerla affatto e di esserne ostaggio.
Sarà proprio lei, una sera, stordita da qualche grammo di cannabis, a raccontare di un sogno in cui un marinaio la seduce mentre lei, colta da un improvviso fremito libidinoso, vi si abbandona scoprendo di desiderarlo con tutta sé stessa. È come se Bill potesse vedere l’intera scena davanti ai suoi occhi, anche se è solo il racconto di un sogno, ma realtà e immaginazione sono la stessa cosa. Potremmo qui iniziare una lunga riflessione tra il film e l’originale novella di Schnitzler, Traumnovelle, letteralmente “Racconto della visione”, perché più che una storia, questo è il racconto di una storia, più che una serie di avvenimenti il racconto di questi.
Questo è il primo paradosso. La storia di una storia. Una storia che sprofonda in sé stessa rinnovandosi in qualcosa di altro da sé. Bill non è il protagonista, ma uno spettatore, questa è la storia di uno spettatore disorientato che insegue disperatamente qualcosa che non può raggiungere.
La visione della moglie tormenta il dottore a tal punto da costringerlo a vagare inquieto per New York in cerca di risposte. Le troverà in un luogo oscuro in cui precipita e dal quale rischia di non riuscire a scappare. Un luogo che apre i suoi occhi di fronte a ciò che di più pauroso alberga nell’animo umano. È Nick Nightingale, un amico di lunga data che suona il pianoforte bendato, ad introdurlo in certe misteriose feste dove donne bellissime si concedono a tutti i partecipanti in riti dionisiaci. Bill ne è intrigato. Una di queste donne, bella come una dea, si sacrifica per lui. Gli salva la vita, dando in cambio la sua. Ma una volta in salvo il dottore continua a pensare a quel luogo e a quella donna, la cerca e la trova, ormai morta, sulle pagine dei giornali. Ecco il bivio: continuare a cercare risposte, a cercare di vedere, a sforzarsi di vedere, oppure finirla lì e rifugiarsi dietro la falsità del quotidiano, dietro quella maschera che eloquentemente sul finire del film è poggiata sul letto, talamo nunziale che adesso appare un palco su cui inscenare la più vera delle farse?
Tornano in mente le parole di Godard: “a volte occorre tornare alla messa in scena, e abbandonare il mito della finestra sul mondo”, come a dire che arrivati ad un certo punto conviene chiudere gli occhi, dimenticare i dolori e le pene della vita, e abbracciare il sogno e le sue finzioni. E non è forse questo quello che intende la Kidman quando sul finire pronuncia quelle parole così ciniche, “Let’s fuck” dice, ma intende dire: “il mondo è troppo duro, troppo doloroso, meglio una scopata”. Preferisce dunque non vedere, pur avendo gli occhi ben aperti e mettere definitivamente fine a quel gioco di seduzioni che aveva innescato lei stessa con il racconto di quel sogno proibito. Perché la seduzione è un gioco a perdere, un inseguimento impossibile, una ricerca infinita, e come tale può esistere solo nell’incertezza del mistero, mai nella pienezza chiarificatrice che placa le nostre angosce ma che appiattisce e banalizza la realtà.
Questo è il tema centrale, il cuore del racconto. E la scena madre non è come potrebbe sembrare quella della festa dove si adempiono rituali dionisiaci, bensì quella del dialogo tra Bill Harford e Victor Ziegler (Sydney Pollack) nella sala del biliardo, dove l’amico, senza troppi giri di parole, gli dice di lasciar stare. Di dimenticare quello che ha visto. Perché quello che ha visto è troppo più grande di lui. Ed è troppo pericoloso. Meglio fingere che non sia successo nulla: “…nessuno ha ucciso nessuno, semplicemente è morto qualcuno. Succede tutte le volte. La vita va avanti…”. Ecco.
Eyes Wide Shut cerca attraverso la ricerca di un uomo, di spiegare le contraddizioni di un’intera epoca. Forse il mondo americano, proprio come il giovane dottore, vive la realtà di una finzione che non può comprendere, perché comprenderla sarebbe troppo doloroso, sarebbe insostenibile, e dunque preferisce far finta di non vedere, far finta di non sapere. La consapevole regressione all’inconsapevolezza infantile. Il più grande dei paradossi. La più grande sconfitta ma anche l’unica possibilità di successo possibile, ora che la certezza dell’ignoranza pare essere l’unica via di fuga da una verità insostenibile. In alternativa non rimane che la finzione della maschera, i cui occhi rimangono sempre spalancati. “Gli occhi talmente freddi davanti al dolore che, aperti, sembrano chiusi per sempre”, diceva Louis Delluc.
E qui si ripresenta quella riflessione da cui il regista era ossessionato. L’atto del guardare (per cui rimando all’indispensabile libro di Sandro Bernardi Kubrick e il cinema come arte del visibile). Il tema sovrano di tutta l’opera di Kubrick. Tema che già aveva affrontato in Arancia Meccanica e soprattutto in Shining, sapiente messa in scena di quell’eterno conflitto tra Eidos e Logos che il regista pensò di aver risolto, sancendo con il Novecento e l’apogeo dell’arte cinematografica la vittoria del primo sul secondo. Ma ora, a distanza di qualche anno, si rende conto che quella era stata una falsa vittoria, o che peggio ancora, quella vittoria era stata inutile. Perché nel mondo che si prospetta, non ha più importanza né l’uno né l’altro, tutto è confuso e inquinato, tutto così terribilmente capovolto da essere irriconoscibile, indecifrabile. E i nostri occhi, aperti o chiusi che siano, non possono più vedere alcunché.