16 Gennaio 2025

“Meglio la più tormentosa delle punizioni, piuttosto che una vita senza senso”. Ernst Weiss, uno scrittore da scoprire

Un incipit fulminante, un’autentica rasoiata che ti taglia in due; un pugno nello stomaco che ti toglie il respiro e ti fa piegare le ginocchia; un fiotto di angoscia che ti prende alla gola, ti inchioda con le spalle al muro e non ti molla più. Tanto basta per capire che siamo di fronte a un libro straordinario:

«Non so chi ero, non so chi sono. Non so chi sia l’uomo che scrive questo resoconto e definisce tutto ciò che segue realtà, non sogno».

Appena letta questa frase la mia mente è corsa subito alle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, ma subito dopo mi sono reso conto che mi trovavo di fronte a qualcosa di più radicale. Sì, perché il protagonista del capolavoro dostoevskiano, nonostante tutti i suoi travagli e tormenti, sapeva chi era, aveva consapevolezza di se stesso e della propria identità. In questo caso invece siamo al cospetto di un individuo che in un’alba livida si risveglia disteso in una latrina pubblica di una piazza di Berlino senza ricordare niente di sé, completamente sperduto, come un sughero sperduto in mare in balia delle onde. In pratica, un non essere. Il punto zero della condizione umana.

Questo il mio approccio a La prova del fuoco di Ernst Weiss (1882-1940), uno scrittore degno di guardare negli occhi da pari a pari la letteratura più grande del Novecento e purtroppo, almeno in Italia, semisconosciuto. Ebreo di lingua tedesca, Weiss nacque a Brno in Moravia, allora una provincia dell’Impero austro-ungarico, studiò medicina a Praga per poi laurearsi a Vienna, dove per puro caso ebbe tra i suoi pazienti un giovane Adolf Hitler, episodio dal quale trarrà spunto per scrivere Testimone oculare. In seguito si trasferì prima a Berlino per diversi anni, durante i quali scrisse la maggior parte delle sue opere, e all’indomani della salita al potere del nazismo a Parigi, dove visse in povertà aiutato da Thomas Mann e Stefan Zweig prima di togliersi la vita all’arrivo delle truppe tedesche nella capitale francese.

La definizione migliore de La prova del fuoco la dà lo stesso autore che lo presenta come un «poliziesco dell’anima». E in effetti siamo di fronte a un romanzo imperniato sulla caccia a un colpevole, che, sebbene inconsapevole di esistere, ha però l’assoluta certezza di essere responsabile di una grave colpa, di essersi macchiato di un delitto. 

«Quando questa mattina mi sono svegliato nel gabinetto pubblico, in un angolo di una grande piazza di Berlino, la mia prima sensazione è stata il senso di colpa, ho visto mia moglie fuggire da me, un cane poliziotto darmi la caccia, la mia bambina rifugiarsi sotto un tetto estraneo, mio padre attaccare a un chiosco la descrizione del mio delitto, l’immagine del mio io esteriore».

Parte da questa consapevolezza la caccia all’uomo dell’autore, vale a dire la ricostruzione dell’identità del protagonista-narrante attraverso indizi labili, ricordi sfocati, immagini a prima vista estranee che compaiono e scompaiono, ma che a poco a poco si fanno riconoscibili, associazioni che per vie misteriose cominciano a dare forma a un’identità. Affiorano qui gli studi psicoanalitici che Weiss ha fatto durante gli anni universitari a Vienna sotto la guida di Freud.  

Il tema centrale della colpa invece rimanda in modo inequivocabile a Kafka, che infatti oltre a essere stato buon amico di Weiss negli anni praghesi, lo stimava moltissimo come scrittore. L’elemento che li accomuna va identificato in una colpa sconosciuta che anche nel caso de La prova del fuoco sovrasta e opprime il protagonista senza che lui sappia riconoscerla. Sa che esiste, ne sente tutto l’immane peso su si sé ma non è in grado di difendersi. Un’esperienza atroce che mi ha ricordato molto quella scena, in apparenza banale ma in realtà decisiva, descritta da Tolstoj in Anna Karenina quando Vronskij cade durante la corsa di cavalli e nel momento in cui si ritrova a terra disarcionato «sperimenta la sventura più grave, una sventura irreparabile e della quale lui aveva la colpa».

Il protagonista de La prova del fuoco non ha ricordi che gli vengano in soccorso, non c’è nessuno a cui possa chiedere aiuto, sembra condannato a espiare una colpa insita nella stessa natura umana. Eppure, quella stessa condanna che pesa su di lui e lo schiaccia è anche l’unica forma di esistenza, per quanto angosciosa, a cui può attaccarsi per non affondare in una non esistenza:

«Meglio il delitto che la confusione. Meglio la più tormentosa delle punizioni, piuttosto che una vita senza senso»

Un romanzo che non fa sconti e ci mette davanti gli occhi una realtà dura da mandare giù. L’uomo in crisi delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij non solo non è venuto a capo dei suoi problemi, ma ha proseguito lungo la strada della decomposizione; a questo punto è andato in frantumi, si è dissolto in mille pezzi e giace a terra come un giocattolo rotto e ormai inutile proprio come ce lo presenta Ernst Weiss nella memorabile scena iniziale de La prova del fuoco.

Silvano Calzini

*In copertina: George Grosz, Ritratto del dottor Felix Weil, 1926

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