Una volta. Qualche giorno prima del Natale del 2013. Raccolgo brandelli di parole, dopo un dialogo con Nicola Crocetti. Segno queste. “Ho sempre pensato che la grandezza di un poeta sia proporzionalmente commisurabile alle sue doti di generosità e umanità. Sono convinto che quasi sempre sia così”. Non mi importa sapere se questa frase corrisponda al vero (cosa intendiamo, poi, per generosità e grandezza?, siamo in grado, nell’infimo reticolo dei nostri muscoli, di contenere generosità e grandezza?) – è più importante convincersi che sia così. Crocetti intagliava quella frase sulla vita di Ghiannis Ritsos.
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La mia edizione di Quarta dimensione è segnata e quasi sconfitta dalla lettura. Pubblicato da Crocetti nel 1993, poi nel 2013 con l’aggiunta di nuovi canti, quello è il libro assoluto di Ritsos. La natura epica e teatrale del suo canto, civica e certa, che convoca i morti scagliandoceli in braccia, che fa del mito qualcosa di vivo, di quotidiano, un pasto, è risoluta, lì. Questo è il principio del canto di Crisòtemi, la figlia di Agamennone, la dimenticata:
Com’è che si sono ricordati di me? Nessuno si ricorda mai di me. Nessuno
si è mai accorto di me. Non che mi lamenti. È andata bene così,
anzi, forse anche meglio.
Sapete, col passare del tempo
ogni cosa, per quanto amara o orrenda, ci sembra indispensabile,
perfino utile e bella. E questa rude montagna sopra di me,
era una compagnia – una protezione, quasi – mi vestivo della sua ombra.
Dunque, da questa mia inapparenza mi compiacevo di vedere e ascoltare. Potevo
sognare liberamente. Era bello, davvero – come se vivessi
fuori dalla storia, in un mio spazio intatto, assoluto,
protetta, e allo stesso tempo presente.
Osservavo per ore intere
l’acqua racchiusa in un bicchiere con gli steli marci
di fiori dimenticati – una sostanza viscida e vellutata
restava nel bicchiere, invadeva la camera e la casa –
Vedete. La dedizione al particolare, la ‘scena’, il periplo psichico. S’inaugura carne sull’onda delle ombre. Il mito ha odore. Quarta dimensione è tra i libri al di là del giudizio, santi, chessò, Anabasi, le Elegie duinesi, i Quattro quartetti, The Rock, Le onde di Pasternak, Dylan Thomas.
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Trascelgo due eventi biografici che narrano la statura poetica di Ritsos. Nel 1937 il poeta ha 28 anni. “Kostis Palamàs, il ‘patriarca’ delle lettere greche, saluta la pubblicazione de Il canto di mia sorella con queste parole: ‘Ci scostiamo, porta, perché tu passi’”. Il carisma lirico trafigge Ritsos, subito, con radicalità radiosa. E che dire, poi, della generosità del patriarca, che si scosta… la riconoscenza è il tratto del poeta eccelso – perché sa che il canto non è suo, che di ogni verbo, necessario come l’acqua, deve grazie.
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L’altro episodio accade nel 1949. L’anno prima Ritsos è arrestato ad Atene, dopo il licenziamento, per ragioni politiche – l’appartenenza al Partito comunista –, dal Teatro Nazionale, vi lavorava da dieci anni. “Viene trasferito nel campo di concentramento dell’isola di Makronissos, famigerato per i metodi di ‘rieducazione nazionale’, le torture e le esecuzioni di massa. Delle 100.000 persone che passano per quell’inferno, solo 500 rifiutano di firmare la ‘dichiarazione di lealtà’, cioè l’abiura della loro ideologia: Ritsos è tra questi” (cito da: Ghiannis Ritsos, La signora delle vigne, Guanda, 1987). Ritsos si consacra alla lirica – e a un’etica della letteratura.
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“Si tratta di un poeta sempre all’erta e sempre allarmato, di un poeta fulmineamente reattivo a quanto di ora in ora il quadro della realtà gli presenta. Non è questione di avere il verso facile, quanto di ravvisare con immediatezza assolutamente insolita, in questo caso sbalorditiva, nel normalmente insignificante una potenzialità e un richiamo, addirittura un invito”, scrive Vittorio Sereni nelle Note di lettura per Ritsos, a introdurre Trasfusione, raccolta di poesie italiane e occasionali edite da Einaudi nel 1980. Sereni ragiona intorno all’ispirazione inesausta di Ritsos, in grado di scrivere poesia in ogni circostanza, più volte al giorno. Quasi che la poesia sgorgasse dal suo sangue, nel suono del corpo, connaturata. In realtà, Sereni afferma qualcosa di più: ogni cosa, soprattutto quella insignificante e normale è per il poeta gravida di sensi, un invito. Rabdomante, il poeta scova lo splendore nella tenebra, nelle inapparenze. Non coglie la seduzione dell’apparente, ma l’invito dell’invisibile.
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Torno a Crocetti, che ha fatto conoscere, con dedita tenacia, l’opera di Ritsos in Italia. Gli avevo chiesto di raccontarmi il suo incontro con il poeta greco. “Conobbi Ritsos nell’aprile del 1972, durante un mio viaggio ‘clandestino’ in Grecia, durante la dittatura dei colonnelli. Clandestino perché, avendo io aiutato in vario modo i fuoriusciti Greci che in Italia si battevano contro il regime militare, in Grecia rischiavo l’arresto. Pretesto di questo viaggio fu proprio cercare di contattare in qualche modo Ritsos, che dopo il putsch militare era stato arrestato e deportato su un’isola-campo di concentramento. Nel ’72 era corsa voce che Ritsos fosse gravemente malato o addirittura morto. A causa della censura e delle difficoltà nelle comunicazioni, era impossibile verificarlo, così io mi sobbarcai quel viaggio rischioso. Ad Atene venni a sapere che Ritsos era stato scarcerato in seguito a un’errata diagnosi di cancro, e relegato a domicilio coatto in un villaggio di Samo, dove la moglie era medico. Ci andai. La casa era sorvegliata 24 ore, ma fortunosamente riuscii a eludere i controlli e rimasi con lui tre giorni. Così nacque la nostra amicizia, durata fino alla sua morte, nel 1990. Per tutti quegli anni ci frequentammo con una certa assiduità: io andavo spesso ad Atene o a Samo, e lui, che non si muoveva quasi mai, fece ben otto viaggi in Italia. Lavoravamo di concerto: Ritsos scriveva, incessantemente, per molte ore al giorno; io traducevo. Per me fu un’incomparabile lezione di vita e di poesia”. Senza questo duplice sacrificio, il poeta non esiste. Il poeta sacrifica la vita al canto, ma ha bisogno di un altro che ne raccolga i verbi, che li traduca. Entrambi indifesi nella fede.
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Nel 1957 Louis Aragon riconosce con enfasi il genio di Ritsos – “Ritsos è uno dei più grandi e più singolari poeti di oggi. Per ciò che mi riguarda, era da molto tempo che qualcosa non mi donava, come questa poesia, il violento shock del genio” – che in Francia sarà edito da Gallimard. Nell’epoca della poesia sbriciolata dagli esperimenti verbosi oppure incapsulata nell’ombelico del poeta, preso dai fatti suoi, dalle sue retoriche smussature d’animo, Ritsos fa un effetto omerico. Sul “Times Literary Supplement” Peter Levi, poeta e archeologo – ha viaggiato con Bruce Chatwin, ha tradotto i Salmi, il Vangelo di Giovanni, l’Apocalisse – intaglia un cammeo per Ritsos: “Incarna la grandezza del poeta vecchio stile. La sua produzione è enorme, la sua vita eroica, la sua voce l’incarnazione del coraggio nazionale, la sua mente ha una energia instancabile”.
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I morti sempre e dovunque sono più numerosi dei vivi. Non parlano –
perciò il silenzio si infittisce. Tuttavia ascoltano;
sentono prima ancora del rumore; sentono i nostri passi
prima che ci alziamo dal letto a prendere
un bicchiere d’acqua dal rubinetto. E l’acqua
ha un tepore diaccio come se l’avessero tenuta loro
tra le mani a coppa, dentro il muro, nel buio. L’acqua non ti rinfresca –
e d’altronde non vuoi essere rinfrescato; anzi hai paura
che qualcosa di più intensamente freddo mostri chiara
la differenza con il nostro calore tiepido, che un poco ci riposa.
I morti se ne sono andati nel frastuono della gloria, in mezzo al sangue,
con le loro alte uniformi, i loro elmi imponenti
tra le montagne di fiori, con le spade sul marmo,
un guanto sulla scala, davanti al peristilio, là,
non lo smuove il vento – certe cose
assumono un peso inspiegabile giorno dopo giorno,
restano immobili, e non riesci a sollevarle, a nasconderle nel baule.
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È un lacerto da Il ritorno di Ifigenia, il brano calcato sopra. Ci vuole pazienza, coraggio, umile audacia nell’ascoltare le voci fuori di noi, più che registrare la nostra nenia interiore. Ma la differenza tra un poeta e uno che scrive è quella.
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Laggiù nulla turba il silenzio. Solo un cane (che non abbaia),
un cane brutto, il suo, sinistro, dalle zanne storte,
con due grandi occhi vaghi, fedeli e estranei,
oscuri come pozzi – nei quali non distingui
il tuo volto, le tue mani o il suo volto.
Tuttavia distingui l’oscurità intera, compatta e trasparente,
completa, consonante, senza peccato. Finge di non vederti
però annusa sempre tutto.
Nel momento in cui sogno,
sento d’improvviso il suo respiro alitarmi sotto il mento
o attraversarmi le tempie come se mi controllasse i pensieri,
i brividi, il desiderio (e li vedo anch’io). Tutti i miei gesti,
perfino i più calmi e semplici, quando mi pettino o mi lavo,
li sento risuonare nel lago del suo respiro,
descrivere interminabili cerchi fino a quel grande fondo,
impenetrabile come l’inesistenza. Ogni parola taciuta,
ogni gesto differito, entrano nel suo spazio,
sotto il suo potere – lui li aspira.
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Questo è un frammento da Persefone. Tutto è tattile, è verificato, come la polpa popolana del giorno tra le mani, che ci scuote e rivela la sua luce. Ritsos è morto trent’anni fa. Dovremmo cantarlo ogni sera, per dare stabilità alla casa, visione al vivere. (d.b.)