13 Febbraio 2020

“Il centro della mia vita è la vertigine della solitudine”. Nel precipizio, con Drieu La Rochelle

Ciò che è terminale – perciò interminabile. Si scrive perché sia l’ultimo, il testamento, parola non più cristallina di questa – parola che ferisce, che infierisce, interferendo nel nostro giorno dando a tutto l’infallibile sentore del fallimento. Parola che colma ogni atto, rendendolo indifeso e deficiente, riducendoci al contemplare: questo s’impone lo scrittore.

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Nel 1944 Drieu La Rochelle è già morto infinite volte, due anni prima si è detto, “spero di trovare una morte conforme al mio sogno di sempre, una morte degna del rivoluzionario e del reazionario che sono”, ma la morte non obbedisce, sorprende. E visto che la morte, a volte, è codarda, o ha la pigrizia feroce della lince, occorre cercarla. Drieu tenta la morte, più volte – salvarlo equivale a offenderlo. Si uccide, infine, l’anno dopo, nel ’45. In una fotografia, bambino, chioma da Dioniso, si appoggia alla madre, di ineffabile e brutale bellezza. Il bisnonno, Jacques Drieu, aveva procurato quel cognome, “La Rochelle”, esito di spavaldo coraggio durante le campagne della Rivoluzione e dell’Impero. Ma l’era dell’azione, del dilagare, del trono e della ghigliottina – in equivalenza – e di un eroismo frugale, perfino contadino, è persa: Drieu, in Diario di un delicato, delinea la noia, lo sfinimento, il termine dell’uomo. Di sé dice l’impossibile, l’estirpato, individuo che s’avvolge nel veleno, “il centro della mia vita è la vertigine della solitudine”. Solo quattro anni prima, nelle Note per comprendere il secolo (ora Aragno, 2018), poteva scrivere, “Io non sono un uomo del passato, ma della vita”. Notoriamente, la distanza tra vita e morte è un fugace fraintendimento.

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Drieu, all’apice dello sfinimento, nell’estasi della sconfitta, va letto in quel vigore d’anni. Dall’eremo del corpo – “L’uomo nuovo restituisce al corpo la propria centralità valoriale. Partirà dai bisogni e dai dati del corpo” – all’impotenza, “La vita era davanti a me e rifiutavo la vita”. Poiché si è, scrivendo, in un Golgota, nel caglio dedotto da un tagliagole.

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“L’ambiguo Drieu”, come lo diceva Giaime Pintor, si pone come corona di spine, problema insano, insanabile, getto d’acido contro la barbarie dell’ovvio. Se infastidisce è per eccesso di caduta. “Drieu assegnò all’intellettuale il compito ‘di saggiare tutti i sentieri della Storia’. Il gioco era rischioso, lo sapeva. Ma il rischio di perdersi non fu il solo. Un errore è un errore, la colpa è la colpa, e alla colpa occorre rispondere. Sapeva anche questo. Poco prima della fine, il bilancio inesorabile: ‘ho giocato, ho perso – reclamo la morte’. Fu l’avvocato, il giudice e il boia di se stesso. ‘Fu sincero, ne ha dato prova’, dirà Sartre… Secondo Drieu, che aveva il culto del fallimento – nell’arte, nell’amore, nella politica – ‘l’opera d’arte riuscita è una delusione per chi si accontenta della miserabile verità’… Insicuro di sé, Drieu si pone alla mercé dei contemporanei”, è scritto nella nota che accompagna il tomo ‘Pléiade’ che raduna Romans, récits, nouvelles, a cura di Jean-François Louette.

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Solo il poeta, che sonda l’inesorabile, che appicca l’inappropriato, può penetrare Drieu. Personalità dall’opera caravaggesca, tesa alla sfida, sfiduciata, in tremenda tensione – SE ha da poco ristampato Racconto segreto; Aspis ha pubblicato Il giovane europeo; Gog e Mattioli Una donna alla finestra; Mimesis L’eroe da romanzo; Theoria Piccoli borghesi; Giometti & Antonello Gilles – trova singolare sintonia con Milo De Angelis, che nel 1998 traduce Journal d’un délicat. Austero tra gli estremi, il poeta descrive l’opera così: “è una lunga, intensa, lacerata riflessione sulla vita che non si lascia prendere, che non si vuole prendere”. Attratti dalla vertigine – perché l’occhio umano si abbaglia nei gorghi, gettato nell’insonoro fango verifichiamo “quel chiaroscuro allarmato e fosco di presagi che è la scrittura stessa di Drieu”, la “parte distruttiva” che la anima. In effetti, solo distruggendoci, siamo.

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Il romanzo ‘d’idee’, la confessione, il diario, non produce il patetico – ma il sagace sussurro che scaturisce dal tremito dei coltelli. La tattica – tutta francese, da Montaigne a Pascal a Rousseau a Montherlant – s’impegna a scotennare la creatura. L’aforisma non ha forza se titilla l’attività cerebrale ma solo se scuoia ogni resistenza al bosco, allo stellare. L’uomo non è grande se ha la ‘schiena dritta’, ma se sguaina la spina dorsale, facendone un lazo con cui concupire gli astri. Il pensiero veritiero è quello che vince la sonorità della ragione. “Credo veramente che la letteratura sia morta… La letteratura è stata una realtà, una magnifica realtà, ma ora è solo un cicaleccio anacronistico”: eccola, la fierezza. Sfinita.

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Tenta sempre di accarezzare il muso della morte, lo scrittore, pensando di riferirla in guaiti – la sfida, direi, ora, è quella di definire la bestia che si nasconde nella luce, accecante. Non basta più uccidersi. (d.b.)

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Il nome del mio popolo mi torna incessantemente alle labbra, per abitudine, per imitazione, perché lo sento ripetere incessantemente intorno a me. Monotonia di un richiamo. La forza si è rifugiata nel grido inutile che ciascuno, lanciandolo verso gli altri, lancia a se stesso.

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Per tutta la vita sono stato ossessionato dal tema delle isole. Quando sono su un’isola mi sembra di essere al mio posto ideale: nella terra e lontano dalla terra, nell’umano e lontano dall’umano.

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Quando sono nella natura, non ho più voglia di fare l’amore, almeno per un po’ di tempo. Questa convulsione mi sembra troppo particolare e si dissolve nel respiro universale. Non mi sento più e non sento più nessuno vicino a me. A Parigi è diverso, c’è l’illusione dei muri. Ho bisogno non solo della città, ma dell’inverno, del dedalo delle strade, degli schermi caldi dentro il freddo. Nascosto in fondo al labirinto, riscopro la figura della donna, questa piccola superstizione acuta. Nelle lunghe serate tranquille vicino al fuoco, lei entra a poco a poco in tutte le illusioni che le prodigo.

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Tutta la nostra filosofia occidentale, dai presocratici a Nietzsche, è soltanto una ridicola contorsione rispetto all’inenarrabile purezza, all’inenarrabile profondità indiana.

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Sono solo, solo. Cosa c’è in fondo a questo sentimento di solitudine? Il divino separato da se stesso si ricongiunge, si rinserra dolcemente. Dio è Dio, e io non sono più. Solo per un impercettibile errore mi distinguevo e discernevo. La delizia della solitudine è sentire questa incorruttibile unità di Dio. La passante ha occhi d’acqua.

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Il mondo non è Dio e io non sono Dio. Ma Dio solo è. Appaio come un impercettibile e fuggitivo fremito quando Dio si rigira nella sua immobilità.

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La letteratura è solo una forma edulcorata della confessione, della testimonianza, che sono funzioni preliminari alla preghiera.

Drieu La Rochelle

*I brani sono tratti da: Pierre Drieu La Rochelle, “Diario di un delicato”, SE 2016, traduzione di Milo De Angelis

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