Della battaglia non restano neanche i frammenti con cui “ho puntellato le mie rovine” – era il 1922, un secolo fa, e dalla Terra desolata dell’Occidente Thomas S. Eliot, il poeta, dopo una gita sulla riva del Gange, tentava di salvare il salvabile. Ora, un secolo dopo, anche dei frammenti è scempio, Dio è morto da un pezzo, lo storico è sostituito dall’influencer, il poeta dall’opinionista, l’epos dalle news, l’apoftegma dai tweet. Serafico, allora, Marcello Veneziani non istituisce battaglia; piuttosto, ha la statura di un monaco, in grado di ricostruire il geroglifico che salda le costellazioni agli alberi, che conosce il verbo capace di dare carisma alle pietre. Nostalgia degli dei(Marsilio, 2018), tutt’altro che un libro nostalgico, ha la tensione di un libro definitivo nel corpo bibliografico di un pensatore costantemente anomalo, apolide all’ovvio. La formula del libro è provocatoria: Veneziani estrae dieci parole che fanno venire la lebbra ai progressisti, alle cicale perbeniste (“Patria”, “Famiglia”, “Tradizione”, “Destino”, “Anima”…), con un intento, tuttavia, per nulla polemico, bensì filosofico. Esempio. La parola “Destino”, gettata nello scantinato delle cose desuete, perché, d’altronde, con la muscolosità degli idioti, siamo noi a farci, a forgiare il nostro futuro (come se esistesse, di per sé, l’entità ‘futuro’): “Il fato conferisce senso all’accadere; indica il disegno intelligente del divenire. Il destino non segna il rifugio nel guscio della necessità ma, al contrario, è tornare a esistere a cielo aperto, sfondando il tetto della casa… Accogliere il destino è offrirsi allo sguardo che viene dall’alto, svelarsi”. Con un linguaggio ostinatamente contrario al blabla televisivo, alla spocchia giornalistica, propria degli individui privi di individualità, invidiata dai beoti, Veneziani tenta di innescare il pensiero, e offre una lettura della tragedia patria – la disaffezione, la rottura del patto implicito con la propria origine, che è origine di ‘questa’ Italia – di armato nitore: “A Piazzale Loreto mancò un Priamo che avesse la forza, il carisma, il coraggio di recarsi dal vincitore ancora schiumante di rabbia, inginocchiarsi al suo cospetto e implorare la restituzione dei corpi, così purificando l’odio e placando i demoni della vendetta, innalzando la storia al rango dell’epica, la volontà degli uomini al disegno del fato. Ci sarebbe voluto un re, un sacerdote, un padre della patria ferita, in grado di compiere quell’atto pietoso. I riti sono importanti, le civiltà lo sapevano. Mancò nel furore della guerra civile un pater a ricomporre il corpo martoriato della nazione, rimarginare la ferita e curare le sue letali infezioni”. Insomma, è un libro controcorrente, questo, della meditazione senza mediazioni, con quella solarità data a chi, senza rimozioni né timori, tenta di ricostruire. Ci sono, anche, tanti passi da sottolineare. Per deviazione estetica, ho segnato questa, che riguarda il senso profondo della poesia: “Il Poeta è un tornante; torna alle radici dell’esistenza, guidato da angeli misteriosi, svelando le segrete corrispondenze tra microcosmo e macrocosmo. Il travaglio che lo accompagna in questo viaggio a ritroso è la nostalgia di perfezione, quasi un rivivere nella sua anima la gravidanza del mondo che viene alla luce. La sua opera è il tentativo di nominare, di battezzare le cose. La potenza di un verso è nella capacità evocativa di far tornare alla luce ciò che è nascosto e appare come dissipato, perduto, dimenticato. Dietro le Muse c’è Mnemosine, colei che fa tornare alla mente”. Eccolo, Veneziani. Nell’intemperia dell’oscurità, stana l’alba, il suo cranio bianco, come una bestia dal volto di bimbo. (Davide Brullo)
Quale delle parole centrali, definitive che allinei ti sembra la più abusata e la più bistrattata, oggi?
Il filo conduttore che le accomuna è che nel Canone dominante sono viste tutte, in varia misura, con diffidenza, sospetto, fastidio. Non sono parole neutrali, del resto, indicano orizzonti preclusi al pensiero globale; non ce n’è una in particolare più bistrattata e abusata delle altre.
Come si concilia il concetto di Patria con quello di Europa: ti piace l’idea di Europa? Che cosa ti fa dire di essere italiano, abitante di un paese, scrivi, che ha “Grande personalità, modesta statura”, che è “Una civiltà, più che uno Stato”?
La patria riguarda la nazione e la tua terra, l’Europa è invece una civiltà; tra le due idee non c’è conflitto o incompatibilità. Anzi credo che si debbano declinare in progressione i tre patriottismi, locale, nazionale ed europeo. L’Italia poi ha uno status speciale, perché fu una civiltà prima che una nazione e una nazione prima che uno stato unitario. L’Italia è una nazione culturale, più che politica, unita dalla sua lingua, dalla sua arte, dalla sua letteratura e dal pensiero; un paese con una spiccata personalità seppure modesta come forza economica, demografica, tecnologica, militare.
La trimurti Dio-Patria-Famiglia “erano e sono gli argini di sicurezza per fronteggiare la paura di perdersi, di soffrire e di morire”, scrivi. A volte, però, quei mastici della sicurezza sono sentiti come una prigionia da cui evadere, per rilanciare. Alessandro Magno fa esplodere la sua ‘civiltà’, si orienta a Oriente; San Paolo fa della ‘patria’ un concetto mentale e non più geografico, concettualizza il patto; i monaci fanno patria tra loro; d’altronde, Edipo snatura il concetto di ‘famiglia’. Forse bisogna perdersi, perdere, per capire a cosa si appartiene… Dimmi.
Considero gli dei di cui scrivo, e Dio, patria e famiglia in particolare, come proiezioni e protezioni dell’uomo. Ovvero come aperture al cielo e legami con la terra, aperture di senso e argini di sicurezza. Segnano la trascendenza e insieme il limite della nostra vita e della nostra libertà. Senza quei principi siamo in balia del caso/caos, del tempo, della morte, e della solitudine individuale. Poi, certo, come tutti i principi possono anche degenerare, diventare dispotici e bugiardi, ma non si possono identificare i principi con le loro possibili degenerazioni.
“Una società equilibrata ama conservare e pratica l’innovazione; da tempo accade il contrario, si ama e si declama l’innovazione e si pratica poi la conservazione; e non di princìpi ed esperienze vitali, ma la stagnazione, il conformismo, la coazione a ripetere per allineamento, pigrizia, uniformità”: al concetto di ‘tradizione’, che a orecchie comuni rimanda a ‘tradizionalismo’, ‘tradizionalisti’, l’atteggiamento di chi dice, a priori, che è meglio ciò che è stato, con beota chiusura all’ora, alla vita, dai un significato, direi, ‘rivoluzionario’, di spinta verso il futuro. Spiegaci.
Potrei suggerire il richiamo a un ossimoro, rivoluzione conservatrice, per spiegare cosa intendo: innovazione dei mezzi e tradizione dei principi, cambiamento degli assetti, circolazione delle élite e permanenza dei principi, continuità dei patrimoni; coscienza che indietro non si torna, aspettativa verso un futuro che si avvale dell’esperienza. La tradizione, sostengo, non è il culto del passato ma il senso della continuità e perciò aggiungo che la tradizione sta ai tradizionalisti, come il fuoco alle ceneri. È cosa viva, non è reliquia, la ripetizione pigra è il kitsch, non è la tradizione che è invece “fedeltà creatrice”.
“Cosa c’è al posto di Dio? C’è la libertà, si risponde. Cos’è la libertà in assoluto? È nessun tetto all’io. Dio perde la testa: decapitato, Dio è solo io”. Anche leggendo Ovidio, in effetti, si sente la ‘nostalgia degli dèi’: gli dèi sono lo scintillio di una fiaba, non sono più atto, presenza, morso. Cosa dobbiamo rispondere a questa nostalgia?
La nostalgia degli dei a cui mi riferisco io non è l’effusione romantica, l’elegia decadente di chi sospira il tempo andato ma è un mito che trae spunto dal passato per fondare il futuro, è nostalgia dell’avvenire.La libertà ha senso se è compito, impegno, responsabilità e non pura liberazione, emancipazione, cupio dissolvi. Libertà per fare e non puro disfare, libertà e destino, non libertà contro il destino, protesa solo nel desiderio. La libertà smisurata si perde nel nulla e si rovescia nel suo contrario, nella schiavitù, personale e politica.
Perché parli di nostalgia degli dèi e non di Dio, del Dio biblico? Dove lo trovi, lo odori, ora, il sacro?
Perché il mio non è un trattato teologico e nemmeno un testo confessionale, gli dei in questione sono metafore, figurazioni dell’essere, idee e simboli. Per chi ha fede quegli dei sono le scale che portano poi al Dio Unico. Il cristianesimo qui è affrontato come civiltà cristiana, non come fede. La nostalgia del sacro non si identifica con la religione, ma attraversa anche altri territori, evoca la trascendenza e si pone sulle tracce del divino. Dunque gli dei non sono in alternativa al Dio biblico, affrontano gli dei sul piano del pensiero vivente, non della professione di fede e della devozione.
Quando parli del ritorno accenni al poeta, “un tornante; torna alle radici dell’esistenza, guidato da angeli misteriosi, svelando le segrete corrispondenze tra microcosmo e macrocosmo”. Di certo, l’atto letterario ha mantenuto, nei secoli, un legame con la carnalità dei misteri, ma… ora? Cosa leggi, ora? A cosa torni?
Il tornare accompagna la vita e non solo le letture, è la chiave di comprensione più profonda dell’esistenza, il conato di ritorno verso l’origine, l’inizio. Premesso il ritorno come dimensione cosmica ed esistenziale, spirituale e vitale, la letteratura del ritorno è una compagna preziosa per il viaggio: dall’Odissea alla Divina Commedia, da Plotino – che fu il filosofo antico del ritorno – a Vico, che fu il filosofo del ritorno agli albori della modernità fino all’eterno ritorno di Nietzsche. C’è poi la poesia del ritorno, per esempio in Borges, la letteratura moderna del ritorno, con Proust… Io torno a quei libri, ma torno pure al mio paese natale, torno ai miei cari, torno nei luoghi elettivi…
Alla fine del libro, ipotizzi un decalogo, una specie di disciplina per “rifondare la vita, nel cammino dall’esistenza all’essenza”. Come primo punto, imponi di tornare a pensare piuttosto che ad agire: a una politica ‘del fare’, mi vien da dire, meglio una politica del ‘capire’. Ecco, ti chiederei un consiglio da dare al principe e al governante o al capo di governo, oggi.
Non so dare consigli ai politici, anche perché so che non li ascoltano, E in fondo il mio libro non vuole suggerire nulla alla politica, è un viaggio nella conoscenza per trasformare gli uomini, che solo indirettamente diventa anche un modello di comportamento con implicazioni storiche, politiche, civili. Teniamo aperta la doppia possibilità di salvare il mondo o salvarsi dal mondo. Se volessi però tradurre nel gergo del presente le parole chiave che sostanziano la nostalgia degli dei, ne userei due: sovranità e confine, che rappresentano il cielo e la terra, le espressioni della proiezione e della protezione di cui abbiamo bisogno per ripararci dal nulla e dal caos. La sovranità come senso verticale e ideale, il confine come senso del limite e della misura. Poi non resta che far precedere il pensare all’agire, la visione all’azione, e la visione del mondo alla mutazione permanente.