
Sull’arte di decollezionare i libri, ovvero: come disfarsi della propria biblioteca
Cultura generale
Luigi Mascheroni
Col vocabolo ‘aforisma’ si intende, in età moderna, un motto, una frase il cui carattere più immediatamente evidente è, dal punto di vista formale, la brevità: una lapidaria, fulminea concisione. L’etimologia più accreditata del termine è dal tardo latino ‘aphorismus’, derivante a sua volta dal greco ‘aphorismòs’ (apò-orìzo = separo, delimito): si tratterebbe quindi di una ‘distinzione’, e meglio ancora di una ‘definizione’.
Originariamente, gli aforismi costituivano i principi della scienza medica di Ippocrate. In tempi più vicini ai nostri questo genere di enunciato tende più genericamente a condensare in un’efficace sintesi un concetto di varia natura, spesso indulgendo a uno spirito non alieno da quella sorta di estrosa arguzia che la lingua inglese chiama “wit”: il gusto sapido e ammiccante, non di rado mordace, di una “rivelazione” volta in certi casi a stupire più che a illuminare. Da una dimensione scientifica – o filosofico-ermetica –, come nei memorabili “lampi” di Eraclito l’oscuro (“Ethos anthròpo dàimon”, “Nume è per l’uomo l’indole”, “Physis kruptesthai philei”, “Natura ama nascondersi”) si approda a una fisionomia che, pur mantenendo la connotazione gnomico-sentenziosa come basilare, tende a colorirla di tinta velatamente allusive umoristiche, enigmatiche se non sorprendenti. A tale proposito non sembra fuori luogo citare l’esemplare definizione di Karl Kraus: “L’aforisma non coincide mai con la verità: o è una mezza verità, o una verità e mezzo”.
Oscar Wilde può essere considerato un maestro di aforismi, benché non si dedichi al “genere” specifico come molti altri che vi si sono concentrati puntualmente: nella sua opera, soprattutto teatrale, gli aforismi coincidono con battute memorabili, di un’ironia spiazzante, che deliziano anche per la loro intelligente stravaganza.
Come ogni vocabolo di ogni lingua, anche il termine “aforisma” non può e non deve essere costretto in una gabbia: come non è vero che debba essere sempre necessariamente arguto, nel senso di spiritoso, così non è detto che debba essere seriosamente sentenzioso o tanto meno moraleggiante. E, ampliando ulteriormente il discorso, non è nemmeno obbligatorio che la forma dell’aforisma debba essere per forza quella della prosa. Insomma, considerando con una certa elasticità il termine, è lecito individuare ed estrapolare aforismi anche da contesti di una certa estensione, e potremmo addirittura affermare che la letteratura di ogni tempo è ricca di aforismi ne troviamo uno ogniqualvolta un enunciato conciso affermi una verità (o mezza verità, o una e mezzo) di un qualche interesse.
Non commentiamo però l’errore di confonderli con i proverbi o le massime morali di struttura complessa. La condicio sine qua non deve restare quella della brevitas e della (più o meno ironica) icasticità. In poesia l’aforisma mette per così dire le ali, e fluttua senza perdere consistenza sull’onda della musica. O meglio, la forma eterea e altalenante della poesia può sostenere agevolmente nel suo volo il carico di un atipico (ed egregio) passeggero solo apparentemente estraneo alle rotte del Sublime.
Così accade nella poesia di Emily Dickinson, poesia come nessun’altra in grado di con-fondere armoniosamente la qualità del levis e del gravis, del concreto e dell’astratto, del lirico e del filosofico in un ondeggiare obliquo e insieme folgorante. (“Tell all the truth but tell it slant”: “Dì tutta la verità, ma dilla obliqua”: questo motto dickinsoniano si accorda tra l’altro perfettamente al sopracitato aforisma di Kraus).
Non è certo difficile enucleare da contesti poetici di una certa ampiezza degli excerpta aforistici; ancora più semplice, e gratificante, individuare brani compiuti che costituiscono nella loro lirica compattezza dei perfetti aforismi in versi: veri e propri flashes del genio creativo-poetico e filosofico-mistico. Se è indubbiamente vero che lo spirito dell’aforisma è diverso da quello della poesia (la poesia è il luogo da cui si fanno viaggi verso l’altrove, mentre l’aforisma tenta di offrire valide perplessità sulle certezze terrene e sull’altrove) nella Dickinson le due modalità paiono convergere: massime minime di valore universale e al tempo stesso incontenibili slanci della “Capitale della Mente: il Cuore”.
In molte lettere del suo sterminato epistolario Emily Dickinson inserisce citazioni e ancor più spesso enunciati di sapore più o meno sentenzioso e sapienziale, in toni più o meno gravi, allusivi o ironicamente assertivi, che possono a buon diritto essere considerati aforismi, estrapolabili dal contesto e garanti di valore universale. Fino alla fine degli anni Quaranta, le sue lettere – dirette per la maggior parte al fratello Austin e alle amiche – sono contrassegnate da un registro referenziale, e si limitano a descrivere le sue occupazioni giornaliere (ad Amherst o al Collegio di Mount Holyoke); affiorano qua e là brevi citazioni dai sacri testi o da letture personali (dalla Bibbia, da Shakespeare, dai “Pensieri notturni” di Young), ma solo raramente si rinviene un’affermazione di respiro extrasoggettivo (come – ma è appunto un caso – nella lettera ad Abiah Root del 31 gennaio 1846: “È impossibile essere felici se non si possiede un tesoro nei cieli”).
Dal 1850 in avanti il livello riflessivo prevale su quello denotativo e si intensifica via via la consuetudine alla “gnome”, alla sentenza di sapore vagamente filosofico. Una delle primissime tracce di questa propensione è rinvenibile alla fine di una lettera del gennaio 1850 diretta allo zio Joel Warren Norcross, dopo la descrizione molto dettagliata di un sogno: “Certo non vale la pena di vivere in un mondo così stupido. Ci si stanca. La vita non è quel che promette d’essere”. Nel decennio successivo le dichiarazioni di questo genere – in cui l’io si identifica con un noi e grammaticalmente parlando la forma impersonale di un infinito generico e onnicomprensivo si sostituisce all’indicativo della prima persona – diventano una sorta di consuetudine stilistica.
Qualche volta le sentenze (in prosa o in versi) accompagnano la spedizione di oggetti, piccoli doni o fiori. Emily forse ignora di ripetere un costume caro alla cultura greca e romana (gli Xenia e gli Apophòreta, in cui vigeva l’usanza di illustrare letterariamente, con brevi versi, pietanze e doni riservati a ospiti e amici). In alcuni di questi aforismi l’acutezza e l’intensità del pensiero raggiungono cime abissali. Soprattutto colpisce l’acuminata icasticità d’ogni singola parola, il nudo, acre nitore d’ogni singola immagine. Trattandosi di Emily Dickinson, non c’è da stupirsi. Non a caso, è ella stessa a dircelo: “Il mio Lessico è il solo compagno…”, “Esito sulle parole da scegliere, perché posso sceglierne solo poche ed ognuna dev’essere la più essenziale… la più significativa azione della terra è contenuta in una sillaba, oltre che, talvolta, in un solo sguardo” (lettera alla Signora Holland, fine 1883).
Silvio Raffo
**
Aforismi in prosa di Emily Dickinson
Una lettera dà sempre una sensazione d’immortalità perché è l’anima sola senza la sua compagnia corporea. (Da una lettera a Thomas W. Higginson, giugno 1869)
La Natura è una casa stregata – l’Arte una casa che cerca di esserlo. (Da una lettera a Thomas W. Higginson, 1876)
Non si può strappare un incantesimo, e poi rammendarlo come un vestito. (A Susan Gilbert Dickinson, intorno al 1880)
Della bellezza riusciamo a trattenere solo l’evanescenza. (Da una lettera a Emily Fowler Ford, novembre 1882)
La prima parte della tenebra è la più densa – poi la luce comincia tremando a farsi strada. (Da una lettera a Susan Gilbert Dickinson, novembre 1883)
Il compimento è la fretta degli sciocchi, ma l’attesa è l’elisir degli dei. (Da “The Prose Fragments…”, PF 69)
Emergere da un abisso e rientrarvi – non è forse questo, la Vita? (Da una lettera a Susan Gilbert Dickinson, 1885)