Il 18 febbraio 1940 nasceva a Genova Fabrizio De André: poeta, cantante, musicista, scrittore, uomo di una sensibilità davvero fuori dal comune. Riferimento imprescindibile e riconosciuto di un folto gruppo di grandi cantautori italiani che grazie a lui acquisirono ed in alcuni casi condivisero la straordinaria capacità di essere testimoni ed interpreti del loro tempo: De Gregori, Fossati, Guccini, Vasco Rossi, Battiato, Vecchioni su tutti.
Il percorso artistico di De André nasce ascoltando i dischi, donatigli dal padre, dei grandi chansonniers francesi a partire da Georges Brassens, ma è forse il primo dei nostri interpreti a percepire le trasformazioni di un mondo globalizzato, e qui sta la sua grande attualità, senza esserne omologato e senza perdere anima e radici. Egli viceversa procederà sempre “in direzione ostinata e contraria”: anarchico, paladino degli ultimi, esponente della musica etnica e dialettale come linguaggio universale. La voce di un cantastorie dalla sensibilità così umana da sembrare fuori dal tempo e intensa come un romanzo di formazione di Kafka, severo, diretto, “etico” e sempre a cavallo tra tenerezza ed ironia. Una voce stentorea per dare anima alla rabbia per le ingiustizie sociali ma un uomo che, con il suo sguardo puro sul mondo, insegnava a non giudicare mai ma a cercare di capire gli altri e contemporaneamente ad accettare le debolezze di ognuno di noi. Un timbro di voce inconfondibile che era una cosa sola con lo sguardo un po’ triste, la sigaretta sempre accesa ed il ciuffo sull’occhio sinistro.
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Ha cantato l’amore e la morte con la stessa capacità di descriverne ogni stato d’animo, ogni sfaccettatura, ogni dettaglio. Nella sua poetica possono individuarsi almeno due filoni fondamentali: l’amore e Genova. L’amore struggente: Quei giorni perduti a rincorrere il vento, a chiederci un bacio e volerne altri cento (Amore che vieni amore che vai), l’amore carnale: C’è chi l’amore lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, Bocca di rosa nè l’uno nè l’altro, lei lo faceva per passione (Bocca di rosa), l’amore onirico e sublimato: Sola senza il ricordo di un dolore, vivevi senza il sogno di un amore, ma un re senza corona e senza scorta, bussò tre volte un giorno alla tua porta (La canzone di Marinella), l’amore senza speranza e suicida: Un uomo onesto, un uomo probo, s’innamorò perdutamente, d’una che non lo amava niente (ballata dell’amore cieco), l’amore finito: Vorrei dirti ora le stesse cose ma come fan presto,amore, ad appasir le rose, così per noi… (Canzone dell’amore perduto). E poi Genova, la sua amata città, quella dei vicoli di “Via del Campo”, delle voci e dei suoni di “Creuza de ma” e di “Dolcenera” e quelle atmosfere tipiche del retroporto di una città di mare: Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli in quell’aria spessa carica di sale, gonfia di odori (La città vecchia). E poi il filone più politico di “La domenica delle salme” e “Don Raffaè” o antimilitarista de “La guerra di Piero”, “La ballata dell’eroe”, “Fiume Sand Creek”. L’ironia sagace de “Il testamento” e de “Il gorilla” e della, più volte censurata dalla Rai, “Carlo Martello”.
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Una produzione ricchissima di brani memorabili di argomento religioso, tratti dai vangeli apocrifi, da cui scaturirono gemme quali: “Si chiamava Gesù”, “Il sogno di Maria”, “Il testamento di Tito”. Ma De Andrè resterà legato per sempre anche ai suoi personaggi: Andrea, il pescatore, un giudice, il suonatore Jones (di carattere autobiografico), Geordie, Susanne, solo per citarne alcuni. In ogni pezzo tracce della sua vita come nel brano “Hotel Supramonte” sul sequestro di persona subito con Dori Ghezzi o la morte dell’amico suicida Luigi Tenco (Preghiera in gennaio). Ma se Fabrizio De Andrè è stato innanzi tutto i versi delle sue canzoni, di grande poeta in musica, in lui si sono magicamente fuse la malinconia struggente: la terra stanca sotto la neve, dorme il silenzio di un sonno greve, l’inverno raccoglie la sua fatica di mille secoli, da un’alba antica…(Inverno) e la speranza che non muore mai: ama e ridi se amor risponde, piangi forte se non ti sente, dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior (Via del campo).
Un giorno Albert Einstein disse: Il nostro compito deve essere di liberarci di questa prigione allargando il nostro cerchio della compassione, per abbracciare tutti gli esseri viventi e l’intera natura nella sua bellezza… è quello che fece con la sua arte Fabrizio De Andrè.
Stefano Quaranta
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L’artista è colui che divora tutto quello che vede e che incontra, che vive in prima persona e che gli viene raccontato. Si vive quindi anche negli occhi degli altri, si vive per cantare una storia, per restituire una voce. De André ci canta per srotolare una storia scomoda dal buio delle case, farla scivolare con la musica sulla bocca di tutti. Come nella canzone “Rimini”, dall’omonimo album del 1978 scritto con Massimo Bubola. Oggi sono gli ottant’anni dalla nascita di De Andrè, quest’anno è il centenario dalla nascita di Federico Fellini. Si distanziano di venti anni esatti e un mese. Con questo articolo vogliamo fare incontrare due uomini che hanno preso il quotidiano e ce lo hanno restituito straordinario, indimenticabile. Hanno elevato la vita normale, anche vissuta con una certa discrezione nella difficoltà e nelle contraddizioni, al livello di storia. Hanno creato entrambi una forma di narrazione, hanno reso speciale quelli che li hanno sfiorati. Un artista non chiede il permesso e si appropria del dolore altrui, lo vive in modo necessario.
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Allora in “Rimini” c’è Teresa che ha gli occhi secchi, guarda verso il mare e parla poco. C’è questa ragazza “che indica un amore perso a Rimini d’estate”. L’altro lato di Rimini è quello che rimane anche d’inverno, è la crosta umana che resiste con gli occhi secchi e le labbra screpolate, che continua ad andare a trovare il mare anche quando fa freddo e c’è la nebbia. Quando tutto pare dimenticato, anche se poi niente si dimentica davvero, si sceglie solo cosa ci fa comodo. De André racconta la storia di una giovane donna che resiste alla fine dell’estate, alla fine di quel carnevale di promesse poi mantenute. Ci porta con delicatezza in quello che tutti sanno ma che nessuno racconta:
“E un errore ho commesso – dice –
un errore di saggezza
abortire il figlio del bagnino
e poi guardarlo con dolcezza
ma voi che siete a Rimini
tra i gelati e le bandiere
non fate più scommesse
sulla figlia del droghiere”
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L’altra Rimini è questa capacità di riportare al mare tutte le promesse fatte o ricevute e mai rispettate, restituirle all’acqua alla fine dell’estate. Sperare che con la prossima estate le onde ce le possano in qualche modo restituire, sbattercele sulla riva come noi facciamo regolarmente con il telo da mare sulla sabbia. Un appuntamento che a ogni anno si rinnova, un punto di speranza, un inverno che contiene nel suo gelo tutti i desideri. Rimini non è dei turisti, non illudetevi di conoscerla se ci siete stati in vacanza, se avete sperimentato il vortice verticale, se siete stati spinti dalla folla sul lungo mare. Rimini è di chi torna perché risponde a una chiamata a cui non sa sottrarsi, è una città che ha luoghi diversi e necessari. Chi si avvicina al ponte Tiberio non può restarne immune, è un luogo che in tutte le stagioni porta alla resa, chiede di arrendersi. Allora al ponte ci si bacia, ci si permette la gioia e la bellezza, ci si restituisce una forma di dolcezza, escono dall’oblio anche le farfalle della notte.
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La Rimini di De Andrè è quella che chiede di non fare più scommesse sulla figlia del droghiere, è quella che fa crescere le donne con una saggezza dedita all’attesa e alla pazienza, di quelle donne che sono capaci di scegliere una fedeltà che sanno che non appartiene a loro, ma solo al mare, che tutto ciò che porta via poi finisce per restituirlo. Gli uomini nati al mare sono coloro che nel torace hanno una nave, hanno altri continenti che gli viaggiano negli occhi. Sono uomini capaci di partire in ogni momento ma sempre di ritornare. La Rimini vera appartiene a donne e uomini così, a chi è capace di sprecarsi la pelle nelle sue estati nel dominio di Dioniso e allo stesso tempo la custodisce nella nebbia, incartata come un amore delicato. De André e Fellini hanno cucito nella nostra memoria queste storie, questi uomini e donne altrimenti lasciati alla distrazione.
Clery Celeste