[Dal 1833 al 1838 il compositore francese Hector Berlioz scrisse un insieme di saggi che complessivamente venne conosciuto come Étude critique des symphonies de Beethoven, diventando così il più grande sostenitore di Beethoven in Francia. Mentre le intuizioni musicologiche sono degne di nota, lo stile è così carico e appassionato che, per la nostra sensibilità contemporanea, appare eccessivo. Essendo io ugualmente entusiasta del concerto L’Imperatore di Beethoven, ho pensato di scrivere un pezzo nello stile di Berlioz. Sebbene un approccio del genere possa puzzare di postmodernismo, la mia passione è sincera. Preparatevi pertanto a leggere qualcosa che scaturisce direttamente dall’epoca romantica.]
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I musicologi sostengono che, nella storia della musica classica, la sinfonia e la sonata sono le più ambiziose forme di composizione. In effetti, il concerto per uno o più strumenti e orchestra è inevitabilmente più teatrale, promuovendo spesso, piuttosto che la musica in sé, un vacuo virtuosismo. Ma il concerto L’Imperatore di Beethoven per piano e orchestra eleva la generalmente ovvia contrapposizione tra solista e orchestra a una compiuta integrazione di animus e anima, sole e luna, i due elementi opposti dell’universo, in un trionfalmente riuscito esempio di coniunctio oppositorum (da non confondersi con il non-dualismo di filosofi pedanti).
Quanto segue dovrebbe incoraggiare i lettori a tornare alla fonte, cioè, al concerto stesso, che sia la prima volta che lo ascoltano o l’ennesima.
Il Concerto per pianoforte n° 5 in mi bemolle maggiore opera 73 L’Imperatore è il prototipo della perfezione concertistica. L’orchestra è la donna; il piano, l’uomo; la loro musica insieme, fare l’amore. D’altra parte, che cosa significa “concerto”? Dal fiorentino antico, accordo, armonia, probabilmente dal tardo Latino concertus, participio passato di con-cernere, mescolarsi. I successivi tentativi di compositori meno dotati non reggono il confronto; alcuni sono di fatto risibili, specialmente il primo di Tchaikovsky, avventuroso ma istrionico e vuoto. Lo strumento solista che lotta contro l’orchestra; l’orchestra che cerca di sommergere il solista in caotici fortissimi. Maschio e femmina, in lite l’un con l’altro, che si azzuffano in pubblico!
Per ritornare all’Imperatore.
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I. Allegro
Il primo movimento è ciò che gli smidollati uomini a venire – modernisti, esistenzialisti – non avrebbero mai potuto concepire, men che meno comporre. L’orchestra introduce il pianoforte improvvisamente: un sonoro, fortissimo tutti, solo pochi secondi e poi – à toi, mon amour, lei, l’orchestra, sembra sottointendere. E il piano la compiace con fantastici arpeggi e scale, riversandosi scintillante in un abbagliante, cadenzato, sfoggio di virtuosismo, ma non fine a se stesso. Lui, il piano, sta facendo tutto ciò per la sua amata, l’orchestra. Nella speranza di fare una buona impressione, non c’è niente di meglio che l’esuberanza. I fortissimi accentuanti dell’orchestra sembrano confermare che tale esuberanza è gradita. Poi, finiscono i fuochi d’artificio e i due si mettono all’opera.
Innegabilmente colpita dal suo corteggiamento, e dal grado di preparazione che ha evidentemente comportato, lei accetta le sue ouvertures. Il tema è introdotto. E poi, che cos’è? È amore allo stato puro.
L’orchestra stessa gli mostra che non intende ricevere passivamente le sue attenzioni. La sua ispirazione e la sua abilità sono pari alle sue. Ed è ugualmente agile, cosa straordinaria, visto che conta cinquanta o più strumenti. Così è lei che prende il comando, e il piano si zittisce, rispettoso e ammirato mentre, senza che nessuno l’ascolti, piange sommessamente.
È tempo di essere di nuovo uniti. Lui ascende alle altezze di lei con una scala vertiginosa, che si livella con un trillo prolungato. Il piano vorrebbe poter sostenere le note come un organo, ma appena una nota è formata, comincia a svanire. Il trillo è il suo espediente per sostenere le note indefinitamente. D’altronde nessuno meglio di lui sa come cesellare simmetricamente melodie celestiali dagli accordi trancianti dei suoi martelletti. Percussivo o meno, tutto ciò che sa fare è cantare.
Poi il tema è suonato di nuovo, questa volta più gentilmente. Ma presto la passione monta ancora e riconquista i due. È un altro fortissimo, poi un piano, mentre il tempo continua a mutare – niente sembra in grado di fermare le loro emozioni e i loro virtuosismi. Suonano con abbandono, e tuttavia si trattengono, attenti a non oltrepassare i rispettivi confini, fin troppo consapevoli che, se ciò accadesse, ne risulterebbero rumore e tormento invece che musica e amore.
È una sfida, ma entrambi gli sfidanti rispettano le regole autoimposte. E le ampie modulazioni enarmoniche; lo schema tonale così rispettosamente rivoluzionario (tenendo il genio dentro la bottiglia, piegando ed estendendo le regole, ma in ultimo rispettandole, Beethoven risulta più potente che il suo contemporaneo Schubert, il quale, invece, avendo lasciato uscire il genio dalla bottiglia, modulava liberamente verso tonalità distanti); gli accordi martellati dagli strati più profondi della psiche del piano, pronti a balzare avanti, sconfinando in vero e proprio romanticismo.
Ma qui il piano inverte la marcia impetuosa, e regredisce, sorprendentemente, al contrappunto. Non è ancora tempo di balzare avanti. L’orchestra ritorna perentoriamente o alla dominante o alla tonica, nel tentativo di non superare il limite, in modo che non si verifichi una rottura, ma un’estasi. Il piano entra ed esce di scena con scale cromatiche, mentre l’orchestra approva e continua a suonare. Persino la cadenza diventa ridondante – l’intero movimento è intriso di virtuosismo, è virtuosismo. Per il bene dell’amore, questo e altro!
L’Allegro termina all’unisono, forte, fortissimo e poi piano, oscillando ampiamente in dinamica ed emozioni. “Ti ho mostrato tutti i miei fuochi d’artificio,” annuncia il piano, “non potremmo adesso fare l’amore carezzevolmente?”
L’orchestra dà il suo consenso con tre accordi conclusivi.
È tempo di riposare.
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II. Adagio un poco mosso
Le parole più forti di un amante sono quelle sussurrate nell’orecchio dell’amata. È L’orchestra, i suoi archi – dovrei dire le sue mani? – che inizia a carezzare. Partecipano anche alcuni strumenti a fiato. Una breve sospensione… e il piano deve intervenire.
Dapprima esitantemente melodico, e tuttavia con la perfetta volizione di un dio, canta la sua melodia in modo celeste, che contrasto con il suo precedente esibizionismo! Non si tratta che di poche scale discendenti.
E noi,
che pensiamo alla grazia come a qualcosa che
ascende
rimaniamone, ora, sconcertati
sentendola
discendere
Ma lui non può resistere alla tentazione di alcuni trilli.
“Molto bene, dunque,” dichiara l’orchestra, “ma non eccedere!”
Presto lui riprende la melodia, e lei lo accompagna con signorile delicatezza. Poi è lui ad accompagnare, e lei a cantare, il suo flauto sopra gli archi. Questi sono i modi degli amanti. Adagio, ma, un poco mosso…
Il piano annuncia un cambio di direzione, timidamente, due volte…
Poi…
*
III. Rondò: Allegro ma non troppo
È un’improvvisa esplosione!
I due intonano uno sfolgorantemente volteggiante rondò, che reitera le stesse emozioni ma in toni più vividi e in tempo più serrato. Uomo e donna pienamente inebriati dal loro valzer rapido e sincopato, sebbene mai fuori controllo, mai lasciandosi andare a un caos orgiastico. Al contrario, il loro abbandono è conscio e inconscio allo stesso tempo. Volteggiando, ruotando, piroettando, disegnando cerchi, orbitando – non è ciò che fanno i pianeti nella loro annuale ricerca di amore empireo?
Dalla velocità e dall’altezza inebriante dell’Allegro, il piano rallenta la sua corsa, e ingaggia un duo con, fra tutti gli strumenti, i timpani! È la naturale conclusione di così tanto dare e ricevere.
I due si baciano per l’ultima volta, nel modo in cui si baciano gli amanti dopo che la loro passione si è placata. È un momento di tale enormità sia musicale sia spirituale, Dio ne è partecipe. Se la storia dell’umanità terminasse su quelle note finali, non sarebbe del tutto inaccettabile.
Sfortunatamente, Beethoven concluse il concerto con un bang, una ricapitolazione finale. Uno stridente fortissimo sia di piano sia di orchestra segue quel momento di sublime divinità. Convenzioni del tempo. È quasi come se due amanti, dopo aver fatto l’amore, si chiedessero l’un l’altro: “Ti è piaciuto?” e urlassero le loro risposte ai quattro venti.
Guido Mina di Sospiro
*Guido Mina di Sospiro è l’autore, tra l’altro, di “L’albero” (Rizzoli, 2002), “La metafisica del ping-pong” (Ponte alle Grazie, 2016) e “Sottovento e sopravvento” (Ponte alle Grazie, 2017).
(articolo originalmente pubblicato su New English Review con il titolo “Coniunctio Oppositorum in Beethoven’s Emperor Concerto”; tradotto da Patrizia Poli)