18 Marzo 2022

“Lo scandalo non sarà occultato”. Su “Ecce Homo”, una poesia di David Gascoyne

Ecce homo è il sigillo perturbante: il momento in cui Dio cade, memento d’abisso, nudità indegna, sconsacrazione del patto, puro corpo, famelico, da fustigare. Il Tetragramma, circonfuso di nubi, onnipotente, è detto uomo, volgare Adamo, definito da mortalità e demenza, tra lacci, a giudizio, soggiogato da potere d’uomo, ed è ora e qui, ecce, senza ombra di eterno, di divino dubbio, di promessa, di magioni stellari. Idoù ό anthropos: prima di offrire il Nazareno in pasto al popolo – “non trovo in lui nessuna colpa” – Pilato “lo fece flagellare” e umiliare, con corona di spine, manto affrettato in porpora, “e gli davano schiaffi”. L’ecce homo è l’uomo in sé: frastornato di tagli, sputato, soggiogato, schiaffeggiato, posto a ludibrio di bestemmie, condanna di massa, che gode nell’infierire, feroce, sul debole e sul demente.

Dunque, l’Ecce homo, eccezionale eccitante per gli artisti, il dio nell’abiezione, slanciata ingiustizia: quello ligneo di Mantegna, quello vaporizzato, in nebbia gialla, di Daumier, quello purissimo di Caravaggio, quello sfuggente di Rubens. David Gascoyne raccoglie il suo Ecce Homo in Poems 1937-1942, il libro decisivo, che lo convoca tra i poeti prepotenti dell’epoca, alieno a generi, club, didascalie critiche. Stampato a Londra da Nicholson & Watson, il libro è illustrato, fin nella copertina, da Graham Sutherland; è un libro di guerra, con splendori apocalittici. Un libro smisurato, nella miseria. Secondo il racconto di Robert Fraser, biografo di Gascoyne – Night Thoughts: The Surreal Life oh the Poet David Gascoyne, 2012 –, Ecce Homo fece irritare Breton, che dichiarò Gascoyne un eresiarca, allontanandolo dall’ortodossia surrealista. Era il 1947, Gascoyne aveva fatto ritorno a Parigi dopo la guerra; molti anni prima, nel 1935, neppure ventenne, era stato accolto dai Surrealisti come un Rimbaud d’Albione, aveva pubblicato A Short Survey of Surrealism, si era dato da fare per esportare l’avanguardia parigina in UK: dietro la leggendaria “International Surrealist Exhibition” alle New Burlington Galleries di Mayfair, era l’estate del 1936, c’era lui; furono esposti De Chirico e Dalí, Max Ernst e Giacometti, Paul Klee, Picasso, Man Ray, Magritte. Erano, davvero, altri tempi.

Gascoyne, giovanissimo, si era iscritto al Communist Party, aveva partecipato ai vari, vaghi “Congrés international des écrivans pour la défense de la culture”, rinvenendone con l’acre sensazione di una blasfemia, di una strategia volgare: “non sono riuscito a nascondere a me stesso la disillusione che suscitarono in me le tattiche opportunistiche, le meschinità settarie e la retorica arrogante che infine furono l’esito di questo congresso”. Fu arruolato tra i ranghi della Guerra civile spagnola, quel vasto opificio ideologico, atto a raffinare l’arte in propaganda: la sua esperienza non fu diversa da quella narrata da George Orwell. Così la racconta in un’intervista concessa a Michel Carassou, ora in David Gascoyne, Incontri con Benjamin Fondane (Aragno, 2021):  

“Ho già accennato al disincanto che suscitavano in me gli intellettuali di sinistra, che per la maggior parte erano marxisti-stalinisti che avevano partecipato al congresso «per difendere la cultura», che si tenne nel 1935. Questo sentimento fu rafforzato, inevitabilmente, durante il mio breve soggiorno a Barcellona, l’anno seguente, in compagnia di Roland Penrose, Christian Zervos e le loro rispettive mogli, all’inizio della guerra civile in Spagna, e quando dovetti constare, durante il mio lavoro all’ufficio della propaganda catalana, che i comunisti laggiù disprezzavano apertamente gli anarchici, il POUM, etc. A parte tutte le querelle di partito, spero di non aver mai smesso di provare un sentimento di solidarietà nei confronti della classe operaia. Allo stesso tempo, mi chiedo come un intellettuale piccolo borghese, per quanto poco élitista egli creda di essere, arrivi a convincersi che le sue preoccupazioni possano servire a una qualunque causa. Quando fui testimone delle trame burocratiche e delle rovinose rivalità dei dirigenti politici a Barcellona, ebbi anche l’occasione di assistere a un recital di poesie presentato da Rafael Alberti e la sua compagna, in un teatro stipato dagli operai, tra il fragore dei loro applausi. E ciò non accadde, ne sono convinto, perché le poesie di Alberti esprimessero qualche sentimento politico dettato dal momento, ma, al contrario, perché ogni autentica poesia ha il potere di suscitare un senso di fraterna comunanza umana. È di questo che hanno bisogno la maggior parte di quelle che un tempo abbiamo definito «le masse»”.

David Gascoyne. Nato nel 1916, muore nel 2001

Proprio l’incontro con Fondane, nel 1937, il rapporto con gli scritti di Lev Šestov, il devoto delirare nell’opera di Rimbaud e di Hölderlin, hanno permesso a Gascoyne di liberarsi, di perfezionare la propria poetica – e dunque quella solitudine, sfacciata, sfaccettata, a colpi d’ascia.

Durante la guerra, aveva servito come cuoco sulle navi, e sporadicamente come attore mobilitato dall’Entertainments National Service Association. Secondo Cyril Connolly, le poesie radunate da Gascoyne in Poems 1937-1942, “con cauta fermezza e artica precisione, ci portano sul bordo del precipizio, in quella zona in cui l’uomo non può più tornare indietro”. Fu il libro capitale. Da allora, Gascoyne cominciò a soffrire di frequenti crisi depressive: si sentiva altro dall’intelligenza francese, un estraneo in Inghilterra, un apolide al proprio tempo. Divenne sodale di Dylan Thomas, i suoi Journal registrano l’omosessualità frustrata, l’uso frequente di anfetamine; dagli anni Sessanta, dopo ciclici ricoveri, fu rinchiuso nell’ospedale psichiatrico dell’isola di Wight. In Ecce Homo, dicono i critici, l’ispirazione originaria – le crocefissioni di Matthias Grünewald – si salda a sconcertanti visioni della Seconda guerra, al lucore sacro imposto da William B. Yeats. La poesia, tra le più note di Gascoyne, tradotta in questa pagina da Annalisa Crea, è stata letta, di recente, da Simon Callow.

L’incontro parigino con Breton era fissato al Café de la Place Blanche. L’aria era satura di vita, quello era l’antro dei Surrealisti, una specie di trincea. Proprio lì, nel 1953, Man Ray fisserà l’ennesima, estenuata riunione du groupe surréaliste: vi appaiono, tra gli altri, in prima fila, Alberto Giacometti, Benjamin Péret, Max Ernst, Julien Gracq. Cardinalizio, Breton sfogliò il libro di Gascoyne. Aveva segnato Ecce Homo. Preferì non rileggerla. “Mi disgusta scoprire che sei diventato Cattolico Romano”. Breton scomunicò Gascoyne; di poesia, notoriamente, capiva poco. Gascoyne non gli rispose, come sempre altrove: quel giorno il vento era pieno di finestre.

***

Ecce Homo

Di chi è questo viso orripilante,
La carne putrida, tumida, sferzata,
Mangiata dalle mosche, arsa dal sole?
Di chi questi occhi infossati e sanguigni
E la testa di spine e il costato trafitto?
Ecco l’Uomo: il Figlio dell’Uomo.

Scorda la leggenda, squarcia il velo pudico
Che codardia o interesse hanno disteso
Per fare del ferale nemico un amico,
Per celare la verità che le ferite dicono,
Per tema che lo scandalo non venga più occultato:
Sarà in agonia fino alla fine del mondo,

E non bisogna dormire in questo tempo!
È appeso all’albero della croce ora
E noi qui spettatori dell’infamia,
Contemporanei cinici della lenta
Tortura di Dio. Ecco il Calvario
Reso tremendo dal Suo sangue sparso

E in cima al quale Lui patisce inerte:
I centurioni indossano stivali,
Camicie nere e fez e distintivi
E si salutano col braccio alzato;
Hanno occhi di ghiaccio, labbra strette;
Sono Suoi fratelli e non sanno ciò che fanno.

E su un lato e sull’altro appesi e morti
Un contadino e un operaio,
O forse uno è un ebreo linciato
E l’altro un Negro o un Pellerossa,
Un indiano o un etiope, un irlandese,
Uno spagnolo o un democratico tedesco.

Dietro il Suo capo ciondolante i cieli
Avvampano, ardenti cateratte
Rosse degli assassinî di duemila anni
Commessi nel Suo nome e dai
Crociati, i guerrieri cristiani
Paladini di fede e proprietà.

Sotto le mani inchiodate, nella piana,
Stillanti tenebre indelebili
Come macchie di colpa, battute da venti
Lugubri e spettrali, assediate da nubi di sabbia
E faglie franose sorgono le nostre
Città fra breve bombardate e vuote.

Colui che pianse per Gerusalemme
Vede la Sua profezia spiegarsi
Sulle più inclite città del mondo,
Una ragione panica, colpevole non può arginare l’onda
Che tutto annienterà come predisse;
Fino alla fine dovrà guardare il dramma.

Sebbene spesso nominato, è ignoto
Ai cupi imperi estesi ai Suoi piedi
Dove ogni cosa svilisce le Sue parole,
Dove ogni uomo porta solo la colpa di tutti
E va bendato incontro al proprio fato,
E avidità e paura regnano sovrane.

Il punto di svolta della storia
Deve venire. Ma il fiero e il tracotante,
Chi trucida e chi sfrutta non avrà –
Cristo della Rivoluzione e della Poesia –
La resurrezione e la vita
Forgiate dal sangue del tuo spirito.

Tutti presi dai loro sofismi
Il prete nero e l’uomo retto
Muti saranno di fronte alla verità sovversiva,
Cristo della Rivoluzione e della Poesia,
Mentre i reietti e i condannati diverranno
Agenti del divino.

Non da un ostensorio d’argento cesellato
Ma dall’albero dell’umano dolore
Redimi il nostro sterile tormento,
Cristo della Rivoluzione e della Poesia,
Che il lungo viaggio dell’uomo nella notte
Non sia stato invano.

David Gascoyne

*La traduzione della poesia è di Annalisa Crea

 

 

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