Giovanni Ibello è stato definito da Milo De Angelis “poeta dell’imminenza” e nella sua silloge Dialoghi con Amin (Crocetti, 2022) ci narra qualcosa che sta per accadere e non accade mai, oppure accade e non ce ne accorgiamo, perché come dichiarato fin dal primo verso “La poesia è un lunghissimo addio”. È un enigma narrato con parola che è “una giostra di penombre” a un “Dio, gheriglio di stella”, parola che accade, cade, precipita, di cui soltanto al poeta, solo e inascoltato, possiamo chiedere il senso profondo che a noi sfugge, e così proviamo a chiederglielo, con il passo lieve di chi sa rispettare il mistero.
Una domanda che è un po’ una tassa da pagare in ogni intervista a un poeta. Cos’è per te la poesia? E la malinconia struggente che troviamo nei tuoi testi è necessariamente un prezzo da pagare per essere poeta?
C’è una vecchia poesia di Paul Muldoon che a un certo punto fa così: “Quando muoio spalancate le finestre/ perché la poesia può rendere reali le cose – / non solo può ma deve – / e questa illusione / è in sé un gesto politico”. Ecco, mi piace pensare alla poesia come a un giogo arcano, a quell’abracadabra del Sempre e del Mai che può davvero “rendere reali le cose” (o finanche effimera l’evidenza delle cose). Nell’esatta misura in cui il poeta osa “sfidare” dio, la poesia stringe intime alleanze con il fatto stesso di essere vivi. La parola si fa così bestemmia angelicata, ci aiuta a scendere a patti con questo scandalo chiamato nascita. A mio sommesso avviso non c’è verso che più di questo (di Dylan Thomas) ci racconta che cos’è la poesia:
“Non andartene docile in quella buona notte,
i vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
infuria, infuria, contro il morire della luce”.
La poesia, “movimento clandestino di resistenza”, sempre infuria contro la luce che muore. Come ho già detto altrove, per me la parola poetica è fisiologia e miracolo, ed è questo il grande paradosso. Dario Bellezza diceva che scrivere una poesia non è diverso dal mangiare, dal bere, dal dormire, ecc. Ma in qualche misura è anche un prodigio, un patto dissanguato con il transeunte. Penso a una frase di Blanchot che sento a me molto affine: “Nessuno sa quello che scrive ma si inizia a saperlo scrivendo”. Sempre Blanchot, alla domanda “Dove va la letteratura” rispondeva dicendo:
“Domanda sorprendente, ancor più sorprendente è il fatto che una risposta c’è ed è facile: la letteratura va verso sé stessa, verso la sua essenza, che è la sparizione”.
In questo senso posso ingenuamente affermare che, proprio come l’esistenza, la poesia accade per sparire. Provando a rispondere nel merito alla tua domanda, posso dirti che non mi scopro poeta, anzi, potrei dirti che non credo minimamente alla figura del poeta. Lo scorso nove giugno, a Genova, durante la cerimonia del premio Lerici Pea, ho detto queste parole alla stampa. Il giornalista Rai mi guardava con aria interrogativa. Poi, a microfoni spenti, mi è stato detto: “Ma lo sai che hai vinto il premio letterario più antico d’Europa? E ci vieni a dire che non sei poeta, che il poeta non esiste…”. Vedi, quello che sembrava uno stucchevole eccesso di modestia era in realtà un mio libero convincimento (ammesso che si possa realmente essere convinti di qualcosa). Forse siamo attraversati da un momento estatico, cooptati dalla voce di un’antica sibilla. La poesia esclude il poeta e viceversa. Se davvero vuole esistere, un poeta, deve prima morire. Il poeta non ha mai ragione di essere. La poesia emette il suo primo vagito e ha già smesso di esistere. Io non scrivo, forse ho scritto. Se esisto come poeta, esisto sempre al passato. Ho provato a tradurre da quella materia invisibile che origina il verso. Forse si parte sempre dall’invisibile, mi si perdonerà l’insopportabile retorica di questo concetto. Ha ragione Marina Cvetaeva quando afferma che l’azione poietica è assai vicina al concetto di traduzione. In altre parole, scrivere è sempre l’atto del rendere dicibile: “Scrivere versi”, diceva, “è trascrivere”. Penso infine a queste parole del mio amico e maestro Milo De Angelis tratte da La parola data, un libro di interviste che risale al 2017: “Forse la poesia è il sacro ferito dal suo dirsi, il sacro che incontra la spina della parola”.
Puoi raccontarci qualcosa della lunga genesi di “Dialoghi con Amin”? Un libro tutto sommato breve, ma cui hai dedicato molto tempo, realizzando suppongo diverse stesure. In questo lungo percorso sei andato in cerca più della chiarezza o della complessità?
Dialoghi con Amin è un piccolo poema sul martirio, un poemetto che prova a cantare l’estasi nella rovina, il disfacimento, il culto della frammentazione. A voler essere spietatamente onesti non saprei cos’altro aggiungere su questo lavoro poiché quello che sentivo di dire l’ho scritto in versi. E lo dico con la massima umiltà, non credo al poeta chiamato a spiegare una poesia. Anche durante i reading, quando sento un autore che spiega o introduce le premesse di un testo, ho come la sensazione che si stia dissacrando un rito. Su quest’opera posso dire che c’è stato un lavoro ossessivo, un lavoro che è durato sette anni e che a prescindere dalla pubblicazione potrebbe anche non essere concluso a causa del “demone delle varianti”. Parlo non a caso di ossessione. Devo dire con onestà che in merito a questo libro sento una profonda inquietudine. Mi guardo allo specchio e vedo il mio niente. Ma il niente che vedo è la sola grazia che mi è concessa. Penso a una vecchia poesia di Leopoldo Maria Panero (apparsa proprio su Poesia di Crocetti nel 2012) che dice: “Io che tutto ho prostituito, posso ancora / prostituire la mia morte e fare / del mio cadavere l’ultima poesia”. Al di là degli esiti, posso dire solo questo: che ci ho provato davvero con la parola, pur restando nell’alveo del “delitto tentato”. Nell’unico spazio concesso alla viltà. Ho studiato a lungo, ho letto i grandi, ho scelto – uno a uno – i miei “fratelli di sangue”. Ma non è abbastanza. Vedo nitidamente il mio niente e ti dico che tutto sommato va bene così.
“Giovanni Ibello è il più antico dei giovani poeti” ha scritto di te Milo De Angelis nella prefazione. Credi che la poesia debba raccontare il proprio tempo o stare fuori dal tempo?
Dai tempi dei sumeri a oggi la poesia è sempre fedele a sé stessa. Mi sbaglierò, ma non ho mai creduto all’icona del poeta testimone di un tempo, in particolare del suo, o di un luogo. So che in pochi la penseranno come me (i “rabdomanti delle avanguardie” potrebbero impalarmi, e non solo per questo) e naturalmente rispetto ogni opinione contraria. Credo, molto banalmente, che il tempo della poesia sia il tempo del Sempre e del Mai (non che la poesia sia in qualche misura destinata a restare). Il luogo della poesia, invece, è l’Altrove. La poesia non dà gioia e non si vive per la poesia: la poesia esiste perché esistere è nel suo destino: ma il suo destino è quello del “nome scritto sull’acqua”.
In una delle epigrafi citi Cristina Campo: “Di ogni parola inutile ci verrà chiesto conto”. Un invito alla sintesi?
Stare nella parola poetica è stare dentro una dimensione patologica. Forse la parola è nemica di chi prova a scendere a patti con la poesia, forse ha “segno negativo” e bisogna ambire a un verso rastremato, a un verso quasi nominale. La parola è una mistificazione del reale, ammesso che la realtà esista. Il poeta autentico deve essere il demiurgo che definisce il confronto tra la parola e l’oggetto nella sua forma più essenziale. Il poeta, ci ricorda René Char, si misura dal numero di pagine insignificanti che non scrive. Bisogna sapere che (come sosteneva peraltro Leonardo Sinisgalli, altra voce adorata del mio Sud) che in poesia le proporzioni del salvabile sono minime. Credo inoltre in quel “balletto astrologico” tra il controllo e l’abbandono. Ho provato a dominare il verso, a selezionare con cura tutti miei spettri (o l’abisso entro cui implodere). Ho scelto le parole e prima ancora delle parole ho scelto i silenzi, ho provato a declinare il fiato in lettura, a servire la phonè. Eppure, a mio sommesso avviso, altra grande sfida del poeta è quella dell’abbandono. Bisogna lasciarsi corrompere dall’incendio. Qualche tempo fa ho detto a una cara amica che con la poesia bisogna insistere, ma insistere è la resa altissima, è il refolo dell’inclemenza. È “farsi anima e coraggio” (si dice così dalle mie parti), prendere tutti i fogli sparigliati sul tavolo e gettarli nel fuoco. Penso a una poesia di Robert Creeley, quella dei “postini disonesti”: “They are taking all my letters, and they / put them into a fire. / I see the flame, etc. / But I do not care, etc”. Guarda il fuoco che brucia tutte le tue inutili lettere, non è peccato. Bisogna insistere affinché sia la parola a parlarci (se la parola deve parlarci). Devi perseverare affinché tu sia parlato dalla Lingua.
“Dialoghi con Amin” appare infatti come un testo pervaso di misticismo, di sacralità. Per te la poesia è un’esperienza anche religiosa, ultraterrena?
Certo, è indubbio che le due esperienze – la vocazione al sacro e alla parola – hanno in comune la percezione dell’assoluto ed è altrettanto vero che la poesia s’intreccia con il nulla. Eppure, a prescindere dall’esperienza religiosa, mi trovo spesso a ripetere che una lettura laica ed equidistante dei testi sacri sia in grado di nutrire la parola poetica e dialogare con l’Assoluto. Questo, ovviamente, non ha nulla a che fare con la “medicina dell’anima”. Non c’è nulla di consolatorio nel tragico, nella sola evidenza che ci è data: il disfacimento. In Trattato dell’empietà (meraviglioso saggio edito da Adelphi nel 1987) Manlio Sgalambro prova a osservare freddamente Dio, e si sceglie come invisibili protettori quei grandi teologi dimenticati, come Suárez o Melchor Cano, che sapevano trattare di Dio con cupa professionalità. Il vero teologo è colui che osa sfidare Dio (che, per me, in poesia non può che essere dio) e, a mio avviso, questo proposito è senz’altro poetico (e tragico). Penso inoltre a quei passaggi biblici che rivelano il fine ultimo – se esiste un fine ultimo – della poesia e della parola: la veggenza. Mi riferisco a versi formidabili come questo: “Morte e vita sono in potere della lingua. Chi l’ama ne mangerà i frutti” (Proverbi 18:21). Inoltre, l’Apocalisse di Giovanni ha ispirato parte del mio percorso poetico (“Il mare restituì i morti che esso custodiva” – Apocalisse, 20:13). In Dialoghi con Amin, al di là degli esiti, tento la via della “bestemmia angelicata” proprio come sforzo ontologico (di per sé una forma di preghiera). Diceva, non a torto, Novalis che “il sentimento per la poesia ha molto in comune col senso mistico. È il senso per ciò che è proprio, personale, ignoto, misterioso, da rivelare”. Sto tentando questa strada, non so se sarà feconda ma di certo anche per me “la poesia è il sacro che incontra la spina della parola”.
A un certo punto si inserisce nei tuoi dialoghi Diego Armando Maradona, elemento di modernità in un testo dallo spirito antico, classico. Cosa rappresenta per te Maradona? E se chiamiamo arte ogni eccellenza umana o sovrumana, può esserci poesia anche nel calcio?
Diego Maradona è visto come una figura post-cristica e sono tante le note di lettura che si sono soffermate su di lui nell’analizzare i miei Dialoghi. Maradona è la poesia che incontra il destino, è il destino che incontra la sparizione. Io non sono un critico e non potrò mai entrare nel dettaglio di queste parole. Quello che posso dire è che Diego Armando Maradona è, molto banalmente, uno dei protagonisti di questo poema. Lo è al pari di Amin, di Xanita (la vergine dei falò), dello stesso Giovanni. Maradona c’è come volontà di potenza ma la sua ratio esiste nel concetto di miracolo. Penso che nel calcio come nella letteratura l’incanto si assolve quando la Natura decide di intervenire arbitrariamente sul Gesto. Forse non c’è opera d’arte degna di attenzione che non sia l’esito di una profonda dialettica tra Gesto e Natura. Dio ha creato Maradona, Victor Hugo Morales (il celebre radiocronista uruguaiano di Argentina-Inghilterra 1986), lo ha nominato. Forse Maradona non avrebbe mai segnato il gol del secolo, la jugada de todos los tiempos, se dietro il microfono dell’Azteca non ci fosse stata la voce incantata che ha invocato il barrilete cosmico. La voce che ha originato l’epica del bambino lordato di cenere.
«…la va a tocar para Diego, ahí la tiene Maradona, lo marcan dos, pisa la pelota Maradona, arranca por la derecha el genio del fútbol mundial, y deja el tercero y va a tocar para Burruchaga… ¡Siempre Maradona! ¡Genio! ¡Genio! ¡Genio! ta-ta-ta-ta-ta-ta… Goooooool… Gooooool… ¡Quiero llorar! ¡Dios Santo, viva el fútbol! ¡Golaaaaaaazooooooo! ¡Diegooooooool! ¡Maradona! Es para llorar, perdónenme … Maradona, en una corrida memorable, en la jugada de todos los tiempos… barrilete cósmico… ¿de qué planeta viniste? ¡Para dejar en el camino a tanto inglés! ¡Para que el país sea un puño apretado, gritando por Argentina!… Argentina 2 – Inglaterra 0… Diegol, Diegol, Diego Armando Maradona… Gracias Dios, por el fútbol, por Maradona, por estas lágrimas, por este Argentina 2 – Inglaterra 0.»
Spesso gli scrittori, e ancor di più i poeti, vengono accusati di narcisismo. In effetti, dopo tutti i libri già scritti dai più grandi autori del passato, volerne aggiungere uno proprio potrebbe sembrare già di per sé un atto di hybris, d’altra parte se così non fosse la scrittura morirebbe. Come ti collochi al riguardo? Ti senti narcisista consapevole e fiero, oppure sfuggi a questo luogo comune sul mondo intellettuale?
Oggi vedo che in molti fanno della poesia un triste e cadente teatro, un modo facile per affermare il proprio ego o il proprio nome. Agli eventi sanno esattamente cosa dire, scelgono con cura il look, vengono tutti bene nelle foto. Ce ne fosse uno con la schiumetta alla bocca, gli occhi incendiari e i diavoli al culo! No, fanno del poeta un vero intellettuale. La domanda però, a mio sommesso avviso, è un’altra: può l’intellettuale essere veramente un poeta (e viceversa)? Detto ciò, non demonizzerei la vanità (c’è tanta tenerezza nella vanità dei poeti), né posso dire di essere esente da certe dinamiche. Ora, non so dirti esattamente il motivo preciso, ma penso al film Fortapàsc, quello dedicato a Giancarlo Siani, il giornalista napoletano che nel 1985 fu barbaramente assassinato dalla camorra. In una scena del film si vede il caposervizio del Mattino che, rivolgendosi al giovane cronista, prova a metterlo in guardia dalla potenza dinamitarda delle parole. Gli dice: “Giancà, ‘e nutizie so rutture ‘e cazzo”. Tu magari pensi che la poesia ti dia la felicità, che ti determini nella società, che ti ascriva un ruolo specifico. Pensi che le parole possano salvarti in qualche modo. Niente di più falso. La poesia è ‘na rottura di ca***. Un poeta degno di questo nome – ammesso che il poeta esista – se ne fotte delle foto fighe, degli eventi, del presenzialismo sfrenato. Pensa solo a “portare a casa la pelle”, a come fare schifo il meno possibile. Mette in rima la propria solitudine e sa bene che in poesia le proporzioni del salvabile sono minime. Penso a Qōhelet: «Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento».
“Dialoghi con Amin” è un poema notturno ed è soprattutto un poema dell’imminenza. Qualcosa di terribile sta per accadere.” Scrive ancora De Angelis dei tuoi ultimi componimenti. Ma chi è Amin, e cosa sta per accadere?
Amin è un martire (e quindi un testimone), Giuseppe Martella lo ha definito “il martire eletto”. Come ho detto prima, i Dialoghi sono un poema sul disfacimento, ed è lo stesso Amin a dirlo. È una sorta di narratore onnisciente che “rivela la sintassi del crollo”. Un martire che predice i cieli del dopo, un martire che rivela “che ogni cosa si annuncia mentre si sfigura”.
Cercava la risacca nelle pinete
fiutava l’ombra di un ago sul fondale,
la panacea di un abbandono.
Conta fino a zero, le dissi
salta nell’arco cinerino.
È tutto calmo
qui è davvero tutto calmo,
il sole è una biglia di benzodiazepina.
C’è ancora un intreccio
di gelsomini carbonizzati sulla pietra.
L’estate,
una valanga di aceto sopra i fiori.
Ma in questo valzer di occhi crociati
non dire una parola,
non parlare.
Troveremo un altro modo per fare alta la vita.
***
I fiori di tarassaco sulle rotaie
annunciano il disfacimento.
Questo è il cifrario di dio:
una giostra di tagliola e vento.
***
Io sono Amin,
colui che restò nel noncanto.
La pietraluna che stringe
intime alleanze con il temporale.
Sono la vita sognata,
la spada rivolta alle piogge.
Baratri e gemme,
rovesci, sterpi,
acqua di sperma creatore.
Io sono Amin
e non ho mai conosciuto l’amore.
Rivelo la sintassi del crollo:
un urlo angelicato, non si muore.
Vita sempre sognata, mai vita.
***
Ricavo dai roghi autunnali
un altare di gemme,
è il menhir dell’esiliata luna.
Io sono Giovanni
e non ho mai chiesto di essere amato.
L’amore stringe nel seno
la sorte del tuono:
frantumare il vetro dell’esistenza.
Così noi, ebbri di giovinezza
corriamo a perdifiato nell’oltrenero,
succhiamo avidamente
il fuoco rimasto nelle pietre
e brindiamo / all’ombra che fu delle pinete.
Ogni cosa rivela
quel nulla che siamo già stati.
Tutto simula la quiete.
Poco distante, un uomo prende a pugni la rena.
Dice: «Credimi, noi non stiamo per rinascere.
Nessun verso sconta la primavera».
***
Forse è una cosa povera di vita
l’orma della lince che battezza la neve.
*In copertina: Henry Fuseli, Probabile autoritratto, 1779 ca.