10 Luglio 2023

Dario Argento e l’ossessione del sangue. Il thriller come svelamento

Regista diseguale, visionario e di intensità febbricitante, Dario Argento esorcizza da sempre i propri spettri della mente, i propri incubi e ossessioni con un cinema icastico in cui tutto ciò che concerne le ferite inferte e i delitti appare esplicito e ridondante di sangue. Si assiste a una progressiva psicologia dello svelamento in cui la sotterranea, contorta psiche dell’assassino viene portata alla luce esattamente come la sua mattanza di vittime ignare su cui incombe un costante senso di provvisorietà, pericolo, angoscia – se per angoscia intendiamo una paura profonda il cui oggetto rimane però nascosto seppure incombente. L’uso della soggettiva, fin dalle prime pellicole, è funzionale a calare lo spettatore nelle vesti dell’assassino stesso, con un processo di mimesi che lo riporta sempre al contesto malato e aggressivo, predace, di menti contorte e morbosamente funestate dalla tara psichica. Dario Argento sembra adombrare: ecco ciò che si può essere dietro al velo sottile di una routinaria normalità! Ecco come lo scarto tra sanità e malattia è labile, ecco che qualcosa sembra incrinarsi fino a creare un punto di rottura non elasticamente riassorbibile.

Spesso la psicologia dell’assassino è segnata dal trauma o dallo shock, qualcosa che non è stato dialetticamente rielaborato e torna attraverso una sorta di coazione a ripetere, una ricerca compulsiva e rituale di contesti precisi in cui si inscrive il rito, appunto, dell’assassinio. Il cinema di Argento ricorre al montaggio serrato e alle iperboli degli oggetti: anch’essi sintomatici di quanto materiale sia la partitura malata di una psiche sofferente, di come essa cerchi di incarnarsi nello strazio dei corpi, nella loro dissezione, nella manipolazione della carne, ma anche nelle armi che divengono simboli, collettori di un investimento significante, mezzi infine di tortura e inflizione di ferite, le quali sono sempre alla vista, in modo insistito e non eluso, esplicito. Ciò ha spesso portato parte della critica, in realtà miope e snob, a denigrare il cinema del regista come eccessivo, ridondante di elementi efferati troppo espliciti, anche quando innervato di genio. In esso sembra di assistere a una partitura nevrotica della composizione e della scomposizione di immagini, dettagli minimi che divengono poi rivelatori, inquadrature dentro l’inquadratura in una dimensione labirintica e claustrofobica, così densa da togliere il respiro. L’estro visionario del regista si esprime poi in virtuosismi plastici nell’uso della telecamera: essa sembra danzare, reinventare lo spazio della scena con fluide evoluzioni di movimento e inquadrature che conferiscono enfasi esorbitante a dettagli altrimenti minimi.

Proprio in Profondo rosso (nelle sale in versione restaurata dal 10 luglio) questo estro appare in splendida forma e calato in  risoluzioni cromatiche e di accompagnamento musicale (ci riferiamo alla splendida, morbosa e incalzante colonna sonora dei Goblin) di straordinaria possanza evocativa; in ambito di montaggio, poi, Argento anticipa addirittura un’immagine subliminale tanto mimetica, fantasmatica, da risultare come omessa e tornare per via mediata nell’ottica di una ricostruzione di secondo grado. Questo sorprendente regista, insomma, si prende addirittura il lusso di inserire, già nella parte iniziale della pellicola, la soluzione, più esplicita e nascosta nel medesimo tempo, a tutti gli enigmi del film; il disvelamento di cui accennavamo procede comunque per progressivi indizi e scoperte (come nella splendida scena in cui emerge sotto l’intonaco di un muro il macabro disegno raffigurante il primo raptus omicida dell’assassino) ma Argento sembra voler dire che l’evidenza è spesso la cosa più nascosta, proprio come ne La lettera rubata di Poe.

Tornando al trauma, esso è l’eziologia di tutto ciò che si concreta con l’atto dell’assassinio: origine opaca e velata che deve venire in luce poco a poco, quasi per accumulo di dettagli su dettagli, in maniera soverchia; nonostante, poi, sia sempre il principio dell’essenziale a valere puntualmente: come a dire che scartato tutto ciò che è impossibile resta solo il possibile, anzi il necessario e sufficiente… Esattamente come nel thriller Tenebre, in cui viene citato esplicitamente il motto di Conan Doyle che abbiamo parafrasato, e che si svolge quasi per intero alla luce del sole (Argento era rimasto colpito dal film culto di Andrzej Żuławski, Possession, in cui estenuanti crudezze, dissociazione psichica, dialoghi allucinati e assurdo, convivono in pieno giorno a dispetto dei cliché del genere).

In Argento, quella della giostra del sangue appare una sorta di messa in scena catartica da coro greco, un momento rituale del sacrificio in cui il pubblico assiste festante a tutto ciò che viene normalmente sublimato e stornato da un ipertrofico Super Ego sociale e da tutto il suo armamentario etico-morale di prescrizioni, divieti e tabù, nella forma dello spettacolo granguignolesco (nelle pellicole qui non tematizzate, potremmo dire, una sorta di versione pop del Gotico colto di autori come Poe e Hoffmann).

Citando il Nietzsche della Genealogia della morale:

“Ciò che propriamente fa rivoltare non è la sofferenza in sé, bensì l’assurdità del soffrire: ma un tale assurdo soffrire non ci fu in generale né per il cristiano, che ha trasferito all’interno della sofferenza tutto un segreto macchinario di salvazione, né per l’uomo semplice di più antiche età, che sapeva spiegarsi ogni sofferenza in relazione a spettatori e provocatori di sofferenza. Affinché il dolore occulto, non scoperto, privo di testimoni potesse essere tolto dal mondo e onestamente negato, si fu allora quasi costretti a inventare dèi ed esseri intermedi di ogni grandezza e profondità, qualcosa, insomma, che va errando anche di nascosto, che anche nell’oscurità vede e non si lascia facilmente sfuggire un interessante spettacolo doloroso. Grazie a tali invenzioni, infatti, la vita si scaltrì nello stratagemma, in cui è sempre stata scaltra, di giustificare se stessa, di giustificare il male (…) Gli dèi pensati come amici di spettacoli crudeli – oh, fino a che punto questa antichissima concezione emerge ancora all’interno della nostra umanizzazione europea…”

Ora, nella tragedia greca il delitto, la sofferenza e la crudeltà trovavano un senso e un equilibrio come spettacolo per divinità amanti del terreno Agone in cui ciascun personaggio umano era messo alla prova nelle proprie virtù; parimenti, la virtù “senza testimoni” era per quel popolo di attori qualcosa di affatto impensabile, e le divinità, “occhiute” e intransigenti, con la loro attenzione alle umane vicende collocavano la sofferenza su di un piano assiologico che la ricomprendeva come necessaria alla valorizzazione della virtù morale. Ma, se lì gli eventi più sanguinosi ed efferati non venivano rappresentati ma affidati al coro, nella loro valenza dionisiaca, nel cinema di Dario Argento v’è una messa in scena scoperta, esplicita e quasi puntigliosa del fatto di sangue, che fa di esso un elemento quasi estetico e astratto; e la crudeltà, a differenza della tragedia antica e del cristianesimo, è qualcosa di gratuito che esplode senza bisogno di essere giustificata conferendo un senso morale al dolore e alle ferite inferte. Il dolore resta qualcosa di assurdo, insensato, alla cui essenza non immane una direzione, uno scopo, e le vittime sono quasi sempre, qui in senso più cristiano, non colpevoli d’alcunché, apparentemente innocenti, irretite in un meccanismo che le fa tali senza appelli a ragioni specifiche riguardanti la loro condotta.

Non esistono appelli possibili a una dimensione morale, giustificatrice del Male, se non quelli inerenti i caratteri antropologico-psicologici che risiedono in origine nella psiche del maniaco assassino come un enorme sommerso, spesso latenti per lungo tempo e tali da esplodere in circostanze topiche che raccendano nella psiche malata una sorta di oltreumana (o dovremmo dire “disumana”) fame e giustificazione del delitto.

Qui merita di essere precisato che se le compagini politiche al potere serializzano il delitto (reso visibile in maniera sciacallesca da tanta informazione, televisiva e non) in maniera neo-machiavellica, a scopi economici o in relazione a utili non moralmente giustificabili ma ammantati di urgenze etiche, dandone così una giustificazione surrettizia e speciosa che li normalizza, gli assassini presenti nel cinema di Dario Argento sembrano avere un volto più umano: sono essi stessi vittime che ripetono il meccanismo dell’inflizione della pena per una forma di regressione psichica che li riconduce puntualmente all’origine del proprio trauma, il quale viene prima rimosso e poi rivissuto in modo coattivo nell’atto di essere a sua volta inferto.

A livello tematico la paura dell’ignoto, la regressione psichica, il tema del doppio psicologico, l’amore che diventa ossessione e partorisce una macabra serie di disfunzioni e fissazioni alla dimensione delittuosa, sono solo alcuni dei temi che ritroviamo nel cinema di questo regista geniale anche se spesso eccessivo e difettante di rigore logico.

Vale la regola: ciò che è sepolto, nascosto, celato – il termine freudiano che lo designa è Unheimlich – non riaffiora che contro natura, in modo delittuoso, ed è sempre legato alla ricerca esasperata, da parte del soggetto psicolabile, di ripresentare a sé, ricreandola, la scena originaria dello shock e del trauma non altrimenti rielaborabile a livello conscio. Unheimlich è ciò che è sinistro, nascosto, non familiare, alieno a ragioni naturali, e dovrebbe rimanere occultato; che non viene alla luce, infine, che nella forma di qualcosa di innaturale che arreca danno e funesta.

La mente è uno scrigno di tutto il possibile, anche del peggio, e Dario Argento sembra saperlo, portando lo spettatore a provare al contempo disgusto ed empatia per chi pratica serialmente il delitto, facendolo assistere ad un pendolo continuo tra normalità e dimensione morbosa, termini che inevitabilmente trasfigurano l’uno nell’altro fino a confondersi rasentando l’allucinazione.

Massimo Triolo

Gruppo MAGOG