14 Dicembre 2021

"Titane" non è un film rassicurante. Inclassificabile, estremo, come la sessualità

Non ho ancora capito a mesi dalla sua uscita quanto effettivamente mi sia piaciuto Titane di Julia Ducournau (vincitrice della Palma d’Oro al Festival di Cannes, seconda regista donna a riuscirci dopo Jane Campion con Lezioni di piano), ma quel che so è che un’opera che non può lasciare indifferenti: la possiamo respingere, accogliere o restare spiazzati, ma qualcosa ci lascia dentro.

Come dentro di sé ha qualcosa Alexia (Agathe Rousselle) una ragazza che fa la ballerina-performer nelle fiere d’auto e che ha fin da bambina nel cranio una placca di titanio impiantatale in seguito a un incidente. Vive con i genitori anaffettivi, è incerta su quale via imboccare dal punto di vista del sesso e soprattutto ha impulsi omicidi che non riesce a controllare e che si scatenano quando proprio ha relazioni sessuali: lo vediamo subito allorché pianta un lungo fermacapelli nell’orecchio di un fan troppo ardimentoso, uccidendolo. Quando prova ad approcciare una collega, è un attimo dal succhiarle un capezzolo a cercare di strapparle il piercing, nello stesso, a morsi e di lì a massacrare la ragazza e un’altra persona in un appartamento. Ecco che allora l’unica forma possibile e appagante della sessualità per Alexia è quella dell’auto con cui si esibisce, una Cadillac, con cui ha, per davvero, un rapporto sessuale che la fa rimanere incinta.

Non riuscendo in un tentativo di auto-aborto, Alexia scatena ancora la sua furia omicida, ma, dato una ragazza riesce a sfuggirle e la denuncia alla polizia, deve scappare e per non farsi beccare decide di “trasformarsi” in un ragazzo scomparso anni prima: si taglia i capelli, nasconde il seno e la pancia (che cresce molto velocemente e che secerne per via vaginale un liquido nero che pare essere olio motore) con una fascia elastica, e si spacca il naso su un lavello di un bagno pubblico. La trasformazione è completa e con essa comincia un “altro film”, dove tutto quello che abbiamo visto prima è come se scomparisse gradualmente per concentrarsi sul rapporto tra Alexia e Vincent (Vincent Lindon), quest’ultimo capo di una squadra di pompieri che lo venerano e padre del ragazzo scomparso di cui Alexia ha preso l’identità e che appena la/lo vede riconosce come il figlio perduto.

Quello che dunque era partito come un thriller-horror psicologico si trasforma quasi in un dramma familiare, un tentativo di ricostruire un rapporto tra padre e figlio, quel rapporto che Alexia non ha mai avuto e che Vincent vuole recuperare. Dalla sfera della carne e sessualità ci si trasferisce ad una sempre più sentimentale. Vincent è qui una figura salvifica, ma se in un classico horror si cerca di salvare la fanciulla dal mostro, qui il mostro è proprio la fanciulla che va salvata da se stessa come già era accaduto nel film precedente della Ducournau Grave (in italiano Raw – Una cruda verità) dove è la protagonista che cerca di controllarsi e riaffermarsi una volta appresa la sua natura cannibale.

Titane però è un film più ambizioso e complesso e sfugge a qualsiasi tipo di etichetta, non è un’opera che si possa classificare in un genere preciso, è un film “fluido”, come fluida è la sessualità della sua protagonista e il suo corpo, che è oggetto di una continua mutazione, a cui si contrappone il fisico scultoreo, ma ormai sulla via della decadenza (come vediamo in una scena dove prova a fare un esercizio alla sbarra senza riuscirci), di Vincent che per mantenersi tonico ricorre a iniezioni di steroidi. Anche il suo corpo dunque muta, ma in una forma tramontante, è il corpo di un vecchio dio (o meglio Titano) colpito dal tempo, ma forse è proprio nel grembo di Alexia che si cela la “nuova carne” di cronenberghiana memoria, la nuova era, il nuovo Titano…

Questa fluidità la ritroviamo anche nella struttura del film: non abbiamo davanti qualcosa di armonico, di compatto, di ben strutturato, sentiamo di non afferrare bene il tutto, non ci sentiamo rassicurati, tuttavia qualcosa ci coinvolge, ci prende e questo può essere solo un merito.

Paolo Utili

Gruppo MAGOG