28 Dicembre 2020

“Bisogna non smettere l’amore”. Su una lettera di Marina Cvetaeva

Quando s’iniziano a leggere (non a scrivere!) delle lettere, ci si inoltra in un paesaggio straniero e per nulla innocuo. Dunque, affascinante. Ci si trova, voglio dire, davanti a un giardino esotico che non è prossimo, eppure adiacente a talune emozioni che ‒ per indole, per raffinata suggestione, o per stretta intimità ‒ possono tramutare il nostro sguardo nel bagliore della rugiada che tremula al chiar di luna; altrimenti, in quell’incendio che solo il sacro alimenta e conosce in quell’intima compiacenza col vero, in quell’intimità incendiaria col tutto. Perciò, quando Marina Cvetaeva risponde il 21 agosto 1936 da St-Pierre-de-Rumilly, Hte Savoie, Chȃteau des Arcines, all’ultimatum di Anatolij Steiger, il mio animo ‒ seppur per pochi istanti ‒ placa la sua inquietudine e ritrova, nelle parole della poetessa russa, un segno ‒ meglio, un luogo ‒ di speranza rinnovata. In particolare quando Marina scrive: “Amate finché dura l’amore, restate amico finché dura l’amicizia: sciocchezze!, bisogna non smettere l’amore. Quello che per Voi provo non ha bisogno di prove e provocazioni: è”.

Dunque non occorre affermare (scrivendo) altro, per una donna, per una poetessa, che fu anche madre, devota al proprio figlio, prima che ad altri. Eppure. Eppure l’amore è visto, vissuto e sentito proprio per quel che è, senza infingimento alcuno. Non è un amore «per sempre», come appunto quello di una madre. Piuttosto, è l’amore di una libertà conquistata, per dare spazio alla poesia, alla donna che abita secoli passati, per far rivivere quel che si è per davvero: ovvero quell’essere una donna all’antica. La libertà della Cvetaeva è interiore ‒ infinita. Ed è lì che lei irrompe, compone, scrive. Soltanto lì vuole essere e vivere insieme all’amato. Aggiungendo, però, che “Il nostro comune regno non è di questo mondo”.

Se io trovassi una consonanza del genere con una tale donna, probabilmente sarei il poeta più felice della terra. Ma parole del genere son soltanto sue, e rivendicano per l’appunto l’infinito incanto di chi le ha scritte. Marina dunque ama, confida tutta se stessa, arrivando al punto di dire: ionon esisto. È in quella libertà conquistata, nella libertà del sogno che ella può amare Anatolij, come chiunque altro. E lei demanda il suo luogo all’amato, lo dice Suo (di lui) e sacro.

Per non smettere mai l’amore bisogna essere estremi, intimi col fuoco; rinnegare persino un credo, per riacciuffarlo prima di addormentarsi, la notte. Per non smettere mai l’amore, occorre vivere le parole dentro di sé, prima che l’abitudine soppianti il sogno. Così la Cvetaeva confida che sa amare, piuttosto che saper vivere. Ci si deve allora amare fino a “togliere all’altro anche l’ombra della preoccupazione!”, fino al più minuto dettaglio. Marina gioca tutta se stessa, rende vive ‒ cioè, sacre ‒ le parole: lei si gioca fino all’immortalità dell’anima.

Ad incontrarla, ci sarebbe da prenderla sotto braccio, e portarla via in nuovi giardini, sussurrandole tutta la stima dovuta e necessaria. D’altronde, non si può amare diversamente. È questo l’amore vero, l’amore che il poeta cerca. L’amore del quale «avere paura».

Chi si confida in tal maniera, chi vuole amare al di sopra di ogni distanza, seppur per il tramite di una lettera, prorompe irrimediabilmente il proprio cuore, rovesciando all’altro, travolgendolo con una potenza che ‒ davvero ‒ non è, non può essere di questo mondo. Amarsi con tal profondità, denota lo spessore dell’essere poeta. Fa fuoriuscire dall’anima quell’immortalità che noi non sappiamo. Per ciò non bisognerebbe mai «smettere» l’amore. Perché di più non sappiamo. E quel che rimane, se vi rinunciamo, non è nient’altro che una ferita. Quella vigliaccheria nel ritrarre la mano prima del tempo. Poiché si è in tutto e per tutto: sempre. Altrimenti non si è degni. Per ciò stesso ‒ come accade anche a me ‒ Marina perdeva: “Sappiate allora che la posta di ogni mio gioco sono sempre stata io stessa: fino all’immortalità della mia anima”. Come a significare che per l’altro siamo troppo. Si può quindi veramente avere paura del poeta…?

Giorgio Anelli

*In copertina: Józef Chełmoński, “Corsa nella neve”, 1879

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