
“Cadere fuori dal tempo”. Per Piero Buscaroli, un maestro
Cultura generale
Gennaro Malgieri
Gabriele Oriali è il mediano “nato senza i piedi buoni”, per dirla, anzi cantarla, con Luciano Ligabue, e perciò costretto “a lavorare sui polmoni”.
Che Oriali fosse un operaio del pallone si era sempre saputo: la sua principale virtù era correre qua e là per il campo come una pallina di acciaio di quei flipper da bar che andavano di moda quando aveva debuttato, giovanissimo, nella stagione dello scudetto interista 1970-71. Due sole partite, quell’anno, ma bastarono per garantirgli la conferma e diventare un punto di riferimento della squadra nerazzurra fino al 1982, quando, da campione del mondo, si trasferì alla Fiorentina e continuò a inseguire avversari ormai più giovani di lui, cercando sempre di supplire con l’agonismo a una tecnica non certo sopraffina.
Luciano Ligabue è un tifoso interista, e cercando un esempio calcistico di sacrificio e altruismo, ha identificato in Oriali il soggetto perfetto. Ma c’è un verso che proprio non riesco ad amare, anche sforzandomi, ed è quando il cantautore di Correggio, dopo avere evocato una carriera “di fatica e botte” (e ci può stare), se ne esce con un quasi offensivo “e vinci casomai i mondiali”. Ma come “casomai”?
Questa parola, comunque la si provi a leggere, ha il sapore di una conquista avvenuta per caso e non per merito, come se un giorno qualcuno avesse detto al giovane Lele: “Intanto spaccati i polmoni, poi casomai (eventualità poco probabile) potrebbe capitarti di vincere i mondiali”.
Ma i mondiali li ha vinti pure Materazzi, forse il giocatore più urticante di sempre per la sua capacità di friggere il cervello degli avversari fino a provocarne reazioni inconsulte (vedi la testata di Zidane nella finale mondiale del 2006, quando la Francia stava prendendo il sopravvento su un’Italia allo stremo delle forze). E pensare che suo padre Giuseppe, allenatore della Lazio, non riconoscendo nel figlio la stoffa del campione, provò a convincerlo a scegliere il basket. A volte viene spontaneo pensare che i consigli di chi molto ci ama sono i peggiori consigli.
Gabriele Oriali è il mediano più famoso, ma la storia dell’Inter è ricca di giocatori di grinta e corsa. Alcuni, come Bedin, Marini, Simeone o Cambiasso sono ancora idoli dei tifosi. Ma il più cagnesco, il più mediano di tutti, è stato forse Carlo Tagnin, che giocò in maglia nerazzurra dal 1963 al 1965. Il suo nome è oggi praticamente ignorato, ma nella finale di Coppa Campioni del 1964 contro il Real Madrid, Tagnin non fece toccare palla ad Alfredo Di Stefano, due volte Ballon d’Or e detentore di un record imbattibile: segnare almeno un gol in cinque consecutive finali vittoriose nel più prestigioso torneo europeo per squadre di club.
Un importante trattato di Platone, il Timeo, si apre con le parole: “Uno, due e tre. Ma dov’è il quarto, caro Timeo?”. Il 4 lavora nell’ombra, saremmo tentati di rispondere. Versa sudore e prende meno applausi di tutti, ma alla fine è più importante degli altri e più degli altri serve al trequartista, perché 1+2+3 non supera neppure la linea di centrocampo, ma se aggiungiamo il 4 otteniamo un 10, il numero dei fantasisti, e l’Inter ne ha avuti tanti: Suarez, Mazzola, Beccalossi, Bergkamp, Baggio, Sneijder. Per ognuno di loro, c’era un mediano che gli copriva le spalle.
Il 4 è il numero della stabilità. Un tavolo ha quattro gambe, con tre non starebbe in piedi. È il 4 a garantire fissità e trasmettere l’idea che non esiste debolezza. Finché non c’è un 4, conosciamo soltanto l’intenzione: traiettorie immaginarie, melodie su un pentagramma d’erba verde, gol fantastici da realizzare. Arriva il 4 e tutto cambia: c’è l’azione, il potere di fare, di esprimerci. Con il 4 ogni debolezza svanisce. La difesa è protetta, il centrocampo ha il suo fulcro, l’attacco può pensare solo al gol. Nella numerologia spirituale del calcio, la frase chiave del numero 4 è “mantenere l’equilibrio e sviluppare l’altruismo”, in quanto l’equilibrio di una squadra si conquista cancellando, nei fatti e nella testa, la parola egoismo.
Cambiamo casacca: sempre a strisce, ma bianconera. Una volta, durante l’intervallo di una partita, l’Avvocato Agnelli, sceso in spogliatoio, scorse Platini con una sigaretta accesa tra le labbra e lo rimproverò: “Michel, che cosa vedo? Un atleta come lei che fuma?”
E Platini rispose: “Avvocato, l’importante è che non fumi Bonini. È lui che deve correre per me”.
Questo per dire l’importanza che un numero 10, se provvisto di acutezza e intelligenza, attribuisce al suo personale scudiero nell’ombra, il 4, quello che il pallone deve prima sradicarlo dai piedi degli avversari per poi darlo in tutta fretta a chi finalizza il gioco. Questione di gerarchie, di numeri, ma anche di saggezza popolare e di modi di dire che svelano tanto. Il compito di Oriali era quello di “farsi in quattro” per i compagni. E se vedeva qualcuno che non s’impegnava a dovere, era pronto a ricordargli che in una squadra vincente non può esserci posto per chi passeggia svogliato per il campo. Insomma: lo affrontava a muso duro e gliene diceva quattro.
È anche così che si diventa campioni del mondo.
Francesco Consiglio