Alessandro Pertosa, classe 1980, marchigiano, è uno che non le manda a dire. Il suo pensiero si muove tra teorie sovversive e altre più stabilizzanti. Crede nella poesia e nell’utopia più che nella ragione. È eterodosso rispetto a qualsiasi ortodossia. Crede che un uomo sia i suoi sogni e il tempo di cui dispone per realizzarli. Crede in un certo tipo di “decrescita felice” che però confligge con quello degli oltranzisti della decrescita. Si oppone alla dittatura del darwinismo in quanto espressione di scientismo. Ha seri dubbi sul fatto che viviamo in una democrazia e ritiene che i politici dovrebbero prima di tutto chiedersi cosa è giusto, cosa è umano, cosa ci rende felici. Sembra anarchico ma rifiuta di essere etichettato come tale. Teme e ama la morte allo stesso tempo, e ha una vera passione per la montagna, perché rappresenta “un infinito dinamico”. Collabora con l’Huffington Post ed è autore di svariati saggi tra filosofia e sociologia: Contro Darwin e i suoi seguaci (Fede & Cultura, 2006), Scelgo di morire? Eutanasia, accanimento terapeutico, eubiosia (ESD, 2006), Storia dell’aborto (Fede & Cultura, 2008), Dall’economia all’eutéleia. Scintille di decrescita e d’anarchia (Edizioni per la decrescita felice, 2014); Maledetta la repubblica fondata sul lavoro (Gwynplaine, 2015), Solo una decrescita felice (selettiva e governata) può salvarci (Lindau, 2017).
Lo abbiamo intervistato.
Cominciamo da uno dei temi che più ti stanno a cuore: il lavoro. Lavorare è necessario o in una società diversa potremmo farne a meno? E come?
Il lavoro umano va progressivamente contraendosi. Fra un po’ dovremo chiederci non se sia necessario il lavoro, ma se sia necessario tutelare chi un lavoro non ce l’ha e non lo avrà più. Comunque “lavoro” è un termine equivoco. Perché in questa o in altre società di lavoro ci sarà sempre bisogno. Il punto, però, è che ci sarà sempre meno bisogno di lavoro umano, perché la produzione sarà affidata in misura sempre maggiore alle macchine. E allora se un tempo la ricchezza la si redistribuiva attraverso il lavoro (con lo stipendio), in futuro dovremo chiederci come ridistribuire la ricchezza in una società in cui ci sarà sempre meno bisogno di lavoro umano.
Hai spesso tessuto l’elogio dell’ozio? Perché? A che serve?
Quando parlo di ozio lo intendo come il tempo della riflessione, dello spirito. L’ozio è il tempo in cui ognuno di noi esprime le sue vocazioni più profonde. Un uomo non lo si può identificare col lavoro che svolge. Un uomo è il suo tempo. È il colore, il profumo, l’eros, il desiderio che riesce ad esprimere nella sua vita. E per scoprire e dar corpo al desiderio, abbiamo bisogno di oziare. Abbiamo bisogno di perderci in un naufragio di sogni, ad occhi aperti, con lo sguardo rivolto alle stelle.
E il denaro? Che rapporto hai con esso? Quanto pesa nella nostra società e quanto dovrebbe pesare?
Sin da bambino ho un pessimo rapporto col denaro. Dimentico spesso il portafogli in giro, non attribuisco gran valore ai soldi, cerco di lavorare giusto quel poco che mi consente di ricevere uno stipendio minimo per vivere. Le cose che compro non le misuro col denaro, ma col tempo che impiego per guadagnare i soldi necessari ad acquistarle. La nostra è la società del denaro. Tutti i rapporti di forza, se ci pensiamo, non sono rapporti politici, militari eccetera, ma rapporti basati sulla moneta. E abbiamo finito per trasformare un mezzo in un fine. Non si guadagna più per vivere, ma si vive per guadagnare.
Tu sei, come recita un tuo libro, per una “decrescita felice, selettiva e governata”. Puoi spiegarci in cosa consiste e di quali mali sarebbe una soluzione?
Sono un teorico sui generis della decrescita. Nel senso che non la adoro, non la considero la panacea per ogni male, né tanto meno uno scopo. Credo che sia uno dei possibili strumenti per ridurre l’impatto catastrofico dell’uomo sulla natura. Guai però a spacciarla come una nuova fede o un precetto da seguire. Non credo alla società dei buoni. In questo senso ricevo critiche anche dal mondo dei decrescenti, che invece troppo spesso pensano che bastino poche pratiche per salvare il mondo. Non è così. La questione è ben più complessa e per certi versi ha a che fare con la tragedia greca. Il tragico nasce dinanzi all’impossibilità della soluzione. Ecco, senza voler sembrare eccessivamente pessimista, io credo che la razionalità tecno-capitalista non ammetta correttivi. La decrescita non è certo un correttivo. Credo che ci stiamo schiantando. E che sia necessario comprendere a fondo la razionalità tecno-capitalista che subiamo ogni giorno. Non vedo all’orizzonte facili soluzioni. Quello che ognuno di noi può fare è cercare di ridurre il proprio impatto entropico sul mondo. Basterà? Probabilmente no.
Hai assunto un atteggiamento critico verso il darwinismo. Puoi spiegarcene la ragione?
Non ho una posizione critica sul darwinismo in sé. Ho una posizione critica rispetto a qualunque atteggiamento scientista, che pretende di sostituire alla violenza della fede un’altra fede violenta. Non è il contenuto del darwinismo il centro della mia critica, ma il metodo con cui viene proposto. Il darwinismo non è vero. Come non è vero il suo contrario, sostenuto dai creazionisti. Per intenderci, rimanderei alla teoria di Emanuele Severino, relativamente alla pretesa della scienza e della fede di mostrarsi come vere.
Siamo ancora o siamo mai stati in una vera democrazia?
Democrazia significa letteralmente potere al popolo. Il termine è talmente generale che non significa niente. A mio avviso il popolo, la massa, non ha mai contato granché. Oggi conta ancor meno. Anche su questo tema, i greci avevano detto tutto. Andiamoci a rileggere la “Repubblica” di Platone. È già tutto lì.
Cosa ne pensi del governo Renzi-Gentiloni?
L’Occidente non è capace di ragionare sul destino del mondo. Non è capace di mettere in questione il modo di produzione industriale. Renzi e Gentiloni non si sono distinti dai loro colleghi europei e americani. Il problema non è se la socialdemocrazia sia meglio della liberaldemocrazia, se alcune soluzioni più sociali siano preferibili a politiche più liberal; il problema è di capire se sia possibile postulare una crescita infinita in un mondo dalle risorse limitate. E quand’anche fosse possibile, bisognerebbe chiedersi se è giusto, se è umano, se ci rende felici. Nessun capo mondiale si pone minimamente il problema. Direi che, negli ultimi anni, solo Pepe Mujica e Papa Francesco (con la Laudato si’) hanno saputo mettere a fuoco il problema. Certo non hanno dato soluzioni. Ma una soluzione forse c’è?
E del nuovo governo?
Come sopra.
Come vedi il rapporto oggi in Italia tra cittadini e potere?
Il rapporto oggi è come quello di sempre. L’Occidente non è capace di pensare un potere che si svilisce nel porsi, ma pensa sempre un potere che può esercitare una pressione dispotica, un potere in atto. Io proporrei di pensare, invece, un potere potenziale, un potere che invece di costituirsi si destituisce. Ma questo, mi rendo conto, è un passaggio più poetico-esistenziale che politico.
Che idee hai riguardo al fenomeno migratorio e che posizioni dovrebbero assumere l’Italia e l’Europa?
Qual è la causa del fenomeno migratorio? Finché non rispondiamo a questa domanda, ogni discorso risulta inutile. La causa del fenomeno migratorio è il sistema tecno-capitalista. L’Occidente sfrutta risorse e uomini del terzo mondo, affama interi Popoli (che fino alla fine dell’Ottocento erano autosufficienti dal punto di vista alimentare) e pretende allo stesso tempo di non pagare pegno. Ovviamente non è possibile.
I confini nazionali. Tu sei per gli Stati sovrani, per una sempre maggiore coesione europea o guardi al mondo come grande spazio aperto?
Può sembrare paradossale, ma potrei sostenere tutte e tre le posizioni. Nella vita le cose non sono mai bianche o nere. Talvolta sono allo stesso tempo bianche e nere. O meglio: possono essere entrambe vere o entrambe false. Dipende da come si pone la questione. Io sono per il mondo come grande spazio aperto. Perché il mondo è per tutti e di tutti. Però un grande spazio aperto dominato dai potentati economici diventa un immenso campo di concentramento in cui a soccombere sono gli ultimi. Allora è necessario lo stato nazionale. Ovvero il primato della politica locale, che argini il potere globale, fluido, apolide. Anche se però il primato della politica e la sovranità nazionale possono aprire a problematiche di carattere egoistico. Direi quindi – prendendo a prestito la terminologia medievale – che entrambe le pozioni sono vere non simpliciter (in assoluto), ma secundum quid, ovvero relativamente ad alcune condizioni. Capisco che quando si fa un’intervista ci si aspettano delle risposte. Ma io credo che la poesia e la filosofia siano fatte per le domande e non per le risposte. Per le risposte ci sono già le ideologie, le religioni, le fedi. Io invece cammino a tentoni verso l’utopia. Che non mi sta davanti, non è il sol dell’avvenire, ma ce l’ho dietro. In questo senso è un’utopia rivoluzionaria (revolutio significa ritorno), che mi scatena il fuoco amaro per la nostalgia.
Sei per lo ius soli?
Sì. Credo che ognuno di noi sia figlio del luogo in cui nasce.
Se non sbaglio ti professi anarchico. Che cosa significa esserlo oggi?
Definirsi anarchico è già troppo per un anarchico, o almeno è già troppo per me. Sono contro ogni etichetta, anche contro l’etichetta anarchica. Posso dirti questo. Cerco di essere eterodosso rispetto a qualsiasi ortodossia. E cerco di essere eterodosso anche rispetto alla mia eterodossia.
Credi ancora alla divisione del mondo tra destra e sinistra? Se la risposta è no, da cosa è stata superata questa divisione?
Provo a semplificare. Destra e sinistra nascono concettualmente con la rivoluzione francese e fino ad oggi si sono contrapposte sul modo in cui dividere i proventi della produzione. La destra crede che le parti debba farle il mercato, la sinistra crede che le parti debbano essere suddivise nel modo più equo possibile dallo stato. Nel momento in cui, però, il modo di produzione industriale è entrato in crisi (e ciò era ampiamente prevedibile), destra e sinistra hanno finito per avere le stesse ricette. O meglio, la sinistra è diventata destra. Il problema dell’uguaglianza però resta. Ma la pulsione all’uguaglianza preesiste alla sinistra. Se vogliamo, Cristo e San Francesco sono teorici dell’uguaglianza. Dunque la pulsione all’uguaglianza precede la sinistra e sopravvivrà alla sinistra. Oggi la sinistra dà risposte di destra e una sinistra alternativa non è pensabile (qui l’argomento si fa complesso e avrebbe bisogno di una trattazione a parte). Pertanto il mondo non si divide più tra destra e sinistra, ma tra chi crede che si possa continuare a vivere in un mondo a trazione tecno-capitalista e chi invece crede che sia necessario riumanizzare e risemantizzare l’immaginario avendo a cuore l’equità. Io, come puoi ben capire, sto fra questi ultimi.
Quale il futuro dell’Italia nei prossimi cinquant’anni? E quale quello dell’Europa?
L’Italia, l’Europa e l’Occidente avranno lo stesso futuro. O forse non lo avranno, perché non faranno in tempo ad averlo. Noi tutti stiamo camminando sull’orlo di un baratro e dobbiamo prenderne atto. Ma non mi sembra che questo atteggiamento sia così diffuso. Per questo dico che l’unica speranza che ci resta è la disperazione.
E gli Stati Uniti? Cosa prevedi per loro? E che ne pensi del presidente Trump? Perché secondo te ha vinto le elezioni?
Trump ha vinto le elezioni perché ha fornito risposte semplici – anche se sbagliate – a problemi complessi. È stato percepito come l’anti-casta, come l’imprenditore che si è fatto da solo e non vive di politica. Da questo punto di vista, con Berlusconi, l’Italia è stata capofila.
Veniamo a una domanda più personale. Temi la morte? Ci pensai: mai? poco? spesso? E che cos’è la morte veramente? Se la scienza riuscisse a vincerla cosa cambierebbe nel nostro modo di vivere e di guardare al mondo?
La morte è il limite che non si lascia respingere. Per questo una società come la nostra, che si fonda sul superamento di ogni limite, l’ha bandita. La morte non si nomina. I manifesti funerari riportano diciture fumose: se ne è andato, ha terminato i suoi giorni, si è spento, è tornato alla casa del Padre. Nessuno che scriva: è morto. Personalmente amo stare al cimitero, ma mal sopporto la vista del morto. Il funerale. La camera mortuaria. La quiete dei cimiteri, invece, mi rasserena. Così come pensare la morte. Ogni istante dovremmo pensare la morte. Perché il pensarla è ciò che ci tiene in vita. Quando arriverà, verrà tolta ogni condizione – le condizioni si hanno finché si è vivi – ma il toglimento di ogni condizione è anche toglimento dell’esistenza. La morte ha a che fare con la vita sempre, da sempre. Ma arriverà un momento in cui ci sarà solo morte, un momento in cui la vita sarà morte. E quel momento, che temo, spero arrivi più tardi possibile.
So che ti piace la montagna. Che cosa rappresenta per te?
La montagna è un infinito dinamico. Dal crinale scorgi il cielo, il declivio dei monti, le colline, e il degradare del terreno fino al mare. La montagna è l’affermazione del limite. È educazione alla consapevolezza, perché è sapere che dal vertice puoi solo scendere. Non si sale per sempre. La montagna infine è il luogo della solitudine e del silenzio. Aspetti esistenziali, questi, di cui non posso fare a meno.
Un’ultima domanda: cosa stai scrivendo ora? E di cosa ti occuperai sempre di più in futuro?
Sto terminando due lavori. Il primo è una raccolta di poesie che ha per centro il villaggio e la fragilità dei paesi dell’entroterra. Sono poesie disperate, nel senso che disperano rispetto a una speranza di vederli rivivere, quei luoghi. Il secondo è un Breviario del viandante. Una via di mezzo fra il saggio e la poesia. Per ciò che concerne il futuro, sto cominciando a buttare giù degli appunti sul rapporto tra la legge e Cristo. L’idea è di mostrare in che senso Cristo può essere presentato come uno dei più grandi anarchici della storia.
Gianluca Barbera