14 Giugno 2018

I banditi a teatro, ovvero: 7 testi teatrali per salvarci dall’Apocalisse dei comici e dalla finale di “Amici”. Da Genet al brigatista

Un invito celato e smaccatamente puro che scatena l’istinto dell’animale. Sorrido come un gatto del Cheshire (“To grin like a cheshire cat”) lì dove il grin è il sorriso mentale, quello acuto, quello che non emerge nell’immediato ma solamente dopo essersi sedimentato nella mente e aver scandagliato gli angolini più bui. Succede di rado e si è poco allenati: per ricuperare (rigorosamente con la i) il tempo perduto, il consiglio è di farsi un’immersione nel teatro di Alessandro Bergonzoni. Se gli effetti sono nulli, meglio continuare e smessaggiare a manetta sui social e gongolarsi davanti a trasmissioni kitsch della televisione.

Le provocazioni sono il sale della terra. Anche il docufilm che Wim Wenders ha girato su e con Sebastiao Salgado lo è, a larghe mani. Ma stavolta resisto alla tentazione di raccontare Salgado e mi tuffo in Pangea.

L’editoriale – “I banditi: 4 libri per salvarci dall’apocalisse culturale (prima che sia troppo tardi)” – è come una coccinella che si appoggia sulla spalla: te che ti riempi la bocca di drammaturgia (l’accusa è rivolta a me stesso) e che ti ergi a demiurgo e criticone, ‘sto titolo ti lascia indifferente?

Ovviamente no.

Ecco quindi sette testi per salvarci dall’apocalisse dei comici che riempiono i teatri, dalle riunioni condominiali per la finale del “Grande fratello” o di “Amici” di Maria De Filippi. Da leggere, ma non al mare in estate: il rischio serio è che la mente evapori con il caldo e ci si ritrovi dentro una bottiglia di acqua Lete con le sinapsi sudate e inermi e i neuroni che si chiamano da una parte all’altra (i rischi in realtà sono altri: culi e tette. Ma non lo posso scrivere…).

Luigi Pirandello, “Il giuoco delle parti” (1918). Parto con il Nobel di Girgenti per un semplice motivo: il titolo del dramma è soggetto ad abusi e sproloqui che fanno rabbrividire. Agli stronzi che lo nominano: leggiti il testo, vatti a vedere lo spettacolo (ma non quello portato in scena qualche anno fa da Umberto Orsini, oggetto di disfida tra il sottoscritto e il nostro ottimo Davide Brullo), immergiti nel “bianco e nero” della versione della Compagnia dei Giovani. Alla fine, se capisci il gioco, ne esci arricchito e smetti di citarlo a vanvera. È un testo drammaturgico raffinato che nella sua versione scenica non sempre ha la stessa resa. La storia gira più o meno in questo modo: una coppia, Leone Gala e Silia, si lasciano. Lui, filosofo, si è rotto il cazzo. Lei, petulante pettegola e ochetta da quattro soldi, se la fa con l’amico di lui, Guido Venanzi. Leone sa tutto e quando Silia viene oltraggiata da un gruppo di ubriaconi che la scambiano per una mignotta, la signora fa la signora e dice ai giovincelli che il gesto non rimarrà impunito. Suo marito quindi dovrà sfidare a duello chi le ha messo le mani addosso. Leone accetta di sfidare formalmente, appunto come marito pro forma, l’offensore della moglie ma poi chi si dovrà battere realmente sarà Venanzi, poiché è lui in realtà l’effettivo marito di sua moglie. Se capisci la scena finale in cui Leone Gala si mangia l’uovo, meriti di essere caricato sull’arca e salvarti dall’oblio e dalla tempesta dall’apocalisse. Altrimenti non ti resta che affogare.

“La cantatrice calva” (1950) di Eugéne Ionesco non è un refuso. Troviamo due coppie, gli Smith e i Martin. L’azione è inesistente, come nella vita di coppia di oggi. Micidiale l’incipit: La signora Smith: “Già le nove. Abbiamo mangiato minestra, pesce, patate al lardo, insalata inglese. I ragazzi hanno bevuto acqua inglese. Abbiamo mangiato bene questa sera. È perché noi abitiamo nei dintorni di Londra e il nostro nome è Smith”. Lei e lui prorompono in luoghi comuni, esprimono opinioni incoerenti, sono impegnati in ragionamenti bizzarri, passano continuamente da un argomento all’altro. Il signor Smith “continuando a leggere, fa schioccare la lingua”: non ascolta quasi mai sua moglie.

“Emma B. vedova Giocasta” (1949) di Alberto Savinio. Reso celebre dalle interpretazioni straordinarie di Paola Borboni e Valeria Moriconi, è la storia di una madre in attesa del figlio che sta per ritornare a casa dopo una lunga assenza durata quindici anni. La protagonista illustra il suo attacco morboso nei confronti del figlio, nel quale man mano che la vicenda prosegue rivede il marito morto e abusatore. È il rovesciamento totale del mito di Edipo e di Giocasta, che si fa oramai elemento del vivere quotidiano.

Il dio del massacro” (2006) di Yasmina Reza è diventato abbastanza celebre grazie a quel genio di Roman Polanski che ha distillato “Carnage”. La commedia narra dell’incontro di due famiglie, riunitesi per discutere, con la dovuta buona creanza ed educazione, sul fatto che il figlio di una delle due abbia picchiato con un bastone quello dell’altra coppia. Tuttavia, man mano che il tempo passa, la discussione degenera e le buone maniere vengono presto dimenticate da entrambe le famiglie.

“Le serve” (1947) di Jean Genet: un “Aspettando Godot” al femminile con una teoria di amore e odio a sostenere una serie di personaggi dalla dialettica feroce.

“Donna Rosita nubile o il linguaggio dei fiori” (1935) di Federico Garcia Lorca. Ambientato in una Granada calda e sensuale, si svolge in tre tempi: il 1885, l’inizio del Novecento, il 1911. Rosita è una giovane donna fidanzata al cugino, e proprio come dice il suo nome ha la stessa bellezza fresca priva di complicazioni di un fiore in boccio. Il dramma è incentrato sull’amore della ragazza per suo cugino che, lasciata la Spagna per occuparsi degli affari di famiglia in America, non tornerà mai più per prenderla in sposa come aveva promesso.

L’ultimo non è esattamente un testo teatrale ma ha tutti i crismi per esserlo. Si intitola “Princesa” ed è conosciuto da chi ascolta Fabrizio De André. È un romanzo autobiografico di Fernanda Farias De Albuquerque scritto a quattro mani con Maurizio Jannelli (militante delle Brigate Rosse) durante un comune periodo trascorso nel carcere di Rebibbia a Roma, pubblicato inizialmente da “Sensibili alle foglie” nel 1994 e poi nel 1997 da Marco Tropea Editore nella collana “EST”. L’esperienza di un corpo in dissonanza, in transito da un’identità sessuale all’altra, bloccato sul confine dell’ambiguità. Né uomo né donna: una fascinazione antica, uno spavento tra le gambe. Il racconto di Princesa prende avvio da lontano: dal Nord-Est del Brasile, al confine con la caatinga, un tempo deserto di pazzi, santi e banditi. E da un corpo maschile, Fernandinho, che mille José di campagna fanno femmina per il loro piacere. Princesa è anche la narrazione di una metamorfosi e di una fuga. La prima si snoda tra la chimica del silicone e la chirurgia plastica delle bombadeire brasiliane, costruttrici clandestine di corpi “illegali” e transessuali. La seconda, catastrofica, rovina verso un centro vuoto: le grandi città scassate del Brasile e dell’Europa. Fuga paradossale, in ogni caso. Perché lei, l’anomalia, per sottrarsi alla vista si rende più che mai visibile e, nel nascondiglio stereotipato di un corpo quasi femminile, letteralmente costruito come-tu-mi-vuoi, diventa trasparente.

Chi ne legge almeno uno ha il biglietto prioritario per salire sulla zattera di salvataggio e mettersi al riparo dall’apocalisse. E Alessandro Carli? Lui no, è già affogato.

Alessandro Carli

 

 

 

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