09 Marzo 2024

Contro i vili chierici del nostro tempo, pappagalli governativi, la ribellione della libertà

Correva l’anno 1927 quando, in un’Europa non ancora consegnata al Moloch nazista ma profondamente lacerata dai nazionalismi e dagli odi politici Julien Benda sferrava nella sua Trahison des Clercs un memorabile attacco alla corruzione degli intellettuali, dei “chierici”, appunto. Bersaglio principale del breve ma denso pamphlet di Benda erano Charles Maurras, il principale ideologo dell’Action Française, e Maurice Barrés, diffusori di perniciose teorie nazionaliste e razziste che già nella Francia ottocentesca avevano avuto ben più che in Germania il loro epicentro, culminando nel famigerato Affaire Dreyfus.

Ma l’invettiva di Benda andava ben oltre le persone di questi due scrittori, costituendo invece una messa a nudo di implacabile analiticità di tutte le teste d’uovo che avevano diffuso ideologie anziché idee, degli intellettuali engagés (prima che questo termine divenisse alla moda) che avevano abbandonato la causa dello spirito per abbracciare quella del potere costituito. Quell’intellighentsia aveva rifiutato il pensero disinteressato e i valori atemporali per soggiogarsi invece alla politica militante e abbracciarne le peggiori solleticazioni razziste, xenofobe, nazionaliste, ergendo a culto l’attivismo fine a sé stesso, quell’attivismo così caricaturalmente espresso in Italia da Marinetti e dai Futuristi nella prima incubazione, almeno nelle linee più astrattamente programmatiche dell’ideologia fascista. 

La denuncia di Benda non è qualcosa di ancorato temporalmente al clima di quegli anni, trascende invece qualsiasi dimensione contingente per elevarsi a requisitoria perennemente valida contro qualsiasi intellettuale traditore della propria missione che divenga megafono di un partito o di un governo, prono al potere istituzionale senza criticarlo e senza seminare dubbi. Questo vale per ogni regime e per ogni tempo e il filosofo, l’intellettuale è degno di questo nome solamente se svolge il perenne esercizio della critica del potere, del disvelamento dei meccanismi di interesse o di arbitrio che esso inevitabilmente esercita nelle sue degenerazioni, qualsiasi forma esso assuma, anche quella democratica.

Per certi versi, anzi, criticare il potere “democratico” è intellettualmente più impervio di criticare quello dittatoriale o totalitario, per la stessa opacità di cui si traveste quando assume la maschera di una democrazia formale e non sostanziale, ridotta a mera procedura ma non tesa a salvaguardare gli individui. In uno dei suoi libri capitali, Politica e cultura, Bobbio sviscerò mirabilmente il ruolo dell’intellettuale teso a seminare dubbi anziché mietere certezze, lontano sia dall’astrattezza chi si pone al di sopra della mischia, in una torre d’ avorio intangibile, sia da chi diventa in qualche modo organico al potere.

L’intellettuale ha il dovere di entrare nella mischia, ma preservando sempre la propria libertà di pensiero e non prostituendola ad alcuna forma di potere. Per riprendere il titolo del libro di un politologo tedesco, Ekkehart Krippendorff, “l’arte di non essere governati” dovrebbe essere la stella polare che guida l’intellettuale molto più dell’arte di governare. Qualcuno deve governare, sempre e comunque, ma che lo Stato ubbidisca allora a criteri “minarchici”, del governo minimo, della minima ingerenza sugli individui.

Il potere, pur insopprimibile e in qualche misura necessario, è corruttore per definizione, per autocostituirsi e alimentarsi necessita di meccanismi propagandistici, di un qualche grado di finzione. 

 “Se c’ è una cosa che detesto è proprio la politica in tutti i paesi e sotto tutti i climi. Alla vanità ed improntitudine e vuotezza degli uomini politici io contrappongo i santi e gli eroi, i poeti e gli uomini di scienza” 

scriveva Giuseppe Tucci, una delle più grandi menti dell’Italia del Novecento, contrapponendo i veri rivoluzionari della storia dell’umanità ai falsi maestri cui sempre si preferisce dare credito. 

Oltre qualsiasi considerazione di natura schiettamente sanitaria, che sarebbe qui fuori luogo, il confinamento pandemico degli scorsi anni e l’introduzione della misura liberticida del green pass hanno alimentato come non mai le voci proprio degli “intellettuali” e “filosofi” al soldo del potere istituzionale.

Una perenne vergogna dovrebbe ricoprire i nuovi chierici traditori, da Umberto Galimberti a Michela Marzano, da Maurizio Ferraris a Massimo Recalcati, da Tomaso Montanari a Elena Stancanelli, per citare solo alcuni della foltissima schiera di quanti hanno appoggiato acriticamente un provvedimento discriminatorio e che in barba a ogni considerazione di immediato buon senso e di elementare “democrazia” (termine con cui tali signori sono soliti sciacquarsi troppo spesso la bocca nei loro dubbi gargarismi cerebrali) ha alimentato una distinzione odiosa fra il buon cittadino ligio al potere e che aveva rinunciato del tutto all’ esercizio del pensiero e il cattivo cittadino visto come l’ untore o come il pericolo per la collettività. 

Oltre ogni considerazione sanitaria, i suddetti signori hanno compiuto i paralogismi più contorti, le più incredibili capriole concettuali per imbellettare la squallida realtà che, fingendo di fornire delle disamine critiche, essi sono stati puramente e semplicemente megafoni governativi, prezzolati cagoulards intellettuali volti alla sistematica denigrazione e al pestaggio di chiunque la pensasse diversamente da loro e dai loro padroni. La libertà di pensiero è stata da loro tirata per il collo in quanto qualsiasi dubbio o anche qualsiasi pur labile sfumatura di dissenso veniva in automatico bollata con le facili etichette passepartout di complottismo o di negazionismo.

A un certo punto non era più possibile né dubitare né dissentire, quando solamente chi dubita e chi dissente pensa. Anche nelle guerre (tolte le rarissime eccezioni delle “guerre giuste”, ossia le guerre di liberazione) a pensare solitamente è solo il disertore, quasi mai il soldato: perché il disertore ha chiaro che la quasi totalità dei conflitti non ubbidisce a ragioni ideali, ma a cinici calcoli economici e geopolitici travestiti da idealità.

Nel caso della pandemia da Covid19, tolti i rarissimi filosofi come Giorgio Agamben o Massimo Cacciari che si sono mostrati degni di questo nome così abusato, pressoché la totalità della cultura italiana ha ripetuto a pappagallo i mantra governativi senza farli mai oggetto della minima revisione critica, senza mai scalfirli con la lama del dubbio e facendosi dai loro scranni persecutori dei diversamente senzienti e pensanti. Che cosa avrebbero detto i grandi pensatori liberali e libertari del passato, cui questi signori talora amano richiamarsi per puro vezzo citazionistico, davanti al bavaglio posto sulla bocca di chiunque non fosse allineato e a un provvedimento di lampante odiosità come quello del green pass?

La professoressa Michela Marzano, considerata oggi alla stregua di un “maitre à penser”, ha equiparato i “no vax” a una setta, caldeggiando la necessità dell’obbligo vaccinale. A parte il fatto che la galassia dei cosiddetti “no vax” è costituita in maniera minorissima da veri e propri antivaccinisti, la questione, lo ripetiamo, non è più medico-sanitaria, ma libertaria. Se per la Marzano il rifiuto della tessera verde è una questione ideologica, non si capisce perché mai allora il suo contrario, l’appoggio e la giustificazione del green pass, non sia essa stessa ideologica e illiberale. Nel discorso sgangherato della Marzano è stupido scannarsi evocando la Libertà, che, a suo dire, andrebbe piuttosto sacrificata al ritorno alla “normalità”.

Le rappel à l’ordre, insomma! Ma qual è questa normalità di cui parla la Marzano? 

Ho l’impressione che la “normalità” così feticisticamente sbandierata sia un idolo retorico, una vuota parola per nascondere invece la scomoda realtà della rimozione di ogni ombra di dissenso in omaggio a un potere dispensatore di favori e di prebende per chi voglia ripararsi sotto la sua ombra. Il “filosofo” Maurizio Ferraris, autoproclamatosi “pasdaran del vaccino”, ha a sua volta compiuto la più disonesta e meccanica equiparazione degli oppositori al green pass a dei “complottisti” che attribuirebbero tutto alle entità più numinose e impalpabili. Un Massimo Recalcati ha intessuto il peana del green pass come misura civica e strumento di libertà; un Tomaso Montanari ha invocato anch’egli l’obbligo vaccinale; Elena Stancanelli ha ridotto i “no vax” alla stregua di malati psichiatrici; Umberto Galimberti, a sua volta fautore della vaccinazione coercitiva, ha ritenuto le manifestazioni contro la tessera verde non opinioni ma armi.

Persino un serio e solitamente pacato signore come Corrado Augias, un tempo misuratissimo nei toni, ha compiuto espressamente l’identificazione dei “no vax” e degli anti green pass ai terrapiattisti, come se nell’universo del dissenso non potessero albergare timori, dubbi, argomentazioni umanamente e logicamente fondate e solo il governo e le sue casse di risonanza avessero l’appannaggio della verità e del pensiero. 

Nel suo immortale Saggio sulla Libertà, che sempre sarà caro ai libertari di ogni tempo e paese, John Stuart Mill aveva messo in guardia già a metà dell’Ottocento contro le possibili derive dei sistemi democratici e contro i pericoli della dittatura della maggioranza. La maggioranza, ammoniva Mill, può benissimo avere torto, e la minoranza può benissimo avere ragione e il rischio di un’involuzione tirannica del governo va controllata proprio tramite la libertà dei cittadini. 

In uno Stato sano e con un corretto rapporto tra governanti e governati, aggiungiamo noi, non si parte dalla collettività per giungere all’individuo, ma esattamente nel senso opposto: si parte dall’individuo, dalla persona umana, per giungere poi al collettivo. Il procedimento opposto, attraverso il facile sofisma collettivistico, serve invece a mascherare dietro la parvenza del bene pubblico la denigrazione della libertà individuale.

Il sacrificio dell’individuo in nome dell’astratta collettività è la menzogna di cui sempre il potere si è servito per oliare e preservare i propri meccanismi, sia nelle dittature, che almeno è più semplice identificare e disvelare, che nelle dittature camuffate da democrazie, più opache e impenetrabili. E qui il discorso si riannoda proprio a Mill, che reputava più facile da combattere una tirannide piuttosto che la dittatura della maggioranza. Da parte dei suddetti intellettuali italiani, usurpatori di cattedre e del nome di “filosofi”, non mi pare di avere mai sentito richiamare il nome di un altro dei grandi padri fondatori del pensiero libertario, Thoreau, che, sull’altra sponda dell’Oceano, più o meno negli stessi anni di Mill elaborava la sua dottrina della disubbidienza civile che tanti semi fecondi avrebbe gettato in seguito, soprattutto nella “non-violenza” di Gandhi. Coerentemente con le sue teorie, Thoreau si fece anche imprigionare per un breve periodo per il suo rifiuto di pagare delle imposte che sarebbero servite a finanziare la guerra da lui giudicata iniqua che gli Stati Uniti conducevano allora contro il Messico. 

Thoreau condannava radicalmente l’abbandono del libero giudizio, del pensiero e del senso etico in nome del servilismo verso la macchina statale e il diritto / dovere della disubbidienza civile nasceva dalla coscienza, da una bussola interiore più forte di qualsiasi dettame governativo. Egli aveva già ben chiara la pericolosa confusione dei buoni cittadini con i servili esecutori anche delle leggi e dei provvedimenti più ingiusti; questi presunti buoni cittadini, a suo dire, non meritano più rispetto che se fossero fatti di paglia o di sterco. ll buon cittadino, semmai, è chi ha il coraggio di criticare le leggi ingiuste e di disubbidire ad esse. I lacché del potere che nel nostro paese hanno cercato di affossare proprio l’imperituro richiamo alla disubbidienza civile, più traditori ancora dei “chierici” di Benda, hanno dimenticato che il filosofo per sua natura non è un semplice infilatore di concetti e terminologie altisonanti, il che ridurrebbe il suo ufficio, come nel loro caso, a quello di un retore.

Un filosofo è innanzitutto un custode del sacro fuoco della Libertà, supremo valore dell’essere umano, che si identifica con la legge morale stessa nella sua generalità. La Libertà è una “forma formante”, che da un idealtipo eterno si irraggia poi improntando i singoli individui nelle loro infinite declinazioni e modulando i loro pensieri e le loro forme di convivenza civile, anch’ esse infinite. La Libertà è un’Idea quasi platonica, una stella polare che ci orienta per il raggiungimento di una dimensione individuale e collettiva mai definitivamente stabilita e sempre oggetto di riformulazioni e ripensamenti. Essa non vive nella stabilità, ma nel suo svolgersi storico, nel suo essere perennemente in pericolo e nella sua tensione per dovere essere perpetuamente difesa e riconquistata. Essa è il sommo principio metapolitico che indirizza la storia umana e che a nessuna forma politica o economica definita necessariamente si lega. Oltre le singole individualità, la Libertà trascende gli individui per costituirsi come il serbatoio dell’Universale cui si vanno ad attingere le proprie riserve di pensiero e di coscienza morale. 

In un brano della Storia d’Europa nel secolo decimonono, pubblicata nel 1932 in piena dittatura fascista, Benedetto Croce rammentava come la Libertà sia dono divino, che gli Dei amano talvolta togliere ai mortali proprio perché meglio ne possano assaporare il frutto. Ci auguriamo che proprio la recente e vergognosa soppressione di alcune delle più elementari libertà civili e l’offuscamento che hanno dimostrato molte coscienze sia invece il preludio proprio a un rinnovato amore per la Libertà. 

Alessio Magaddino

*In copertina: Francisco Goya, Capricho No. 62: ¡Quién lo creyera!

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