12 Maggio 2020

“Non ci troverete nulla. Non c’è nulla, in Patagonia”. Bruce Chatwin compie 80 anni e noi sfogliamo il suo libro più bello, avventato, indimenticabile

Non ci resta che viaggiare con gli occhi e la fantasia. Non c’è altro modo per evadere, sognare, immergersi in luoghi esotici, lontani e i distanti, e fare finta di prendere un aereo, la macchina, la bicicletta, ed esplorare, dannatamente esplorare, fortemente esplorare. Che sia Italia, Europa o un Altrove, poco importa: nell’estate delle manette alle vacanze, serve pazienza, volontà e capacità di spostarsi con la mente.

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Se l’era presa tutta, quella che poi ha scelto per intitolare un suo libro: “Anatomia dell’irrequietezza”. Irrequietezza che dapprima si manifesta con piccoli accenni, poi cresce, cresce. E il bozzolo sforna una farfalla che ha – come missione – quella di volare.

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E pure un lavoro sicuro, il buon Bruce. A 18 anni inizia a lavorare per la prestigiosa casa d’aste londinese Sotheby’s, una specie di Accademia del settore. Grande osservatore – come del resto poi si dimostrò nella sua seconda vita – in breve tempo venne nominato “esperto impressionista”. Ma non gli bastava: quell’irrequietezza iniziava a bussare, a chiedere udienza. O solo un ascolto. Così a 26 anni lascia la Sotheby’s e si iscrive ad Archeologia all’Università di Edimburgo: una scusa – o forse qualcosa di più – per legittimare i suoi viaggi. Così parte, la farfalla Bruce: Afghanistan e Africa soprattutto. Ma c’era ancora tanto da esplorare. Nel 1973 il Sunday Times intuisce il potenziale e lo chiama: “Senti, Bruce, ti va di fare consulente di arte e di architettura per noi? In cambio puoi viaggiare”. Il suo rapporto di lavoro con la rivista contribuì a sviluppare il suo talento narrativo e gli permise di compiere numerosi viaggi.

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Nella sua carriera da giornalista Bruce intervistò anche la pioniera dell’estetica dell’International Style, l’archistar Eileen Gray. La dama, ai tempi 93enne, gli insegnò la direzione: nel suo studio se ne stava appesa una mappa della Patagonia dipinta da lei stessa. “Ho sempre desiderato andarci” le disse Bruce. “Anch’io” rispose lei. “Ci vada, al posto mio”. Lui partì quasi immediatamente per il Sud America e appena arrivato a destinazione ne diede l’annuncio, insieme alle proprie dimissioni, al giornale, con un telegramma: “Sono andato in Patagonia”.

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Da quel viaggio nacque la Bibbia dei viaggiatori: In Patagonia (Adelphi). È del tutto inutile dire che Bruce di cognome fa Chatwin. Il libro esce nel 1977 e viene premiato con l’Hawthornden Prize, un concorso che valuta la “letteratura d’immaginazione”.

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“Patagonia” dicevano Coleridge e Melville, per significare qualcosa di estremo. “Non c’è più che la Patagonia, la Patagonia, che si addica alla mia immensa tristezza” cantava Cendrars.

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Bruce Chatwin atterra a Lima e compie il viaggio in Patagonia nel 1974, restandoci sei mesi. Più o meno un anno dopo il golpe di Pinochet, di cui il libro non parla. Parla però di tutto il resto del mondo.

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Il viaggio è intrapreso dallo scrittore con poca organizzazione e ancora meno risorse, il che lo costringe a vivere nel pieno i paesaggi, attraversati per lo più a piedi, a stringere rapporti con gli abitanti del posto, rendendogli possibile la raccolta di molte informazioni utili alla sua ricerca e ampliando la sua conoscenza degli avvenimenti che hanno interessato la Patagonia.

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Gli spazi sconfinati della Patagonia lo mettono di fronte alla scoperta dello spazio senza limiti (il “Non-luogo”: come scrisse Borges, “Non ci troverete nulla. Non c’è nulla, in Patagonia”).

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Una terra eccentrica per eccellenza, un perfetto ricettacolo per l’allucinazione, la solitudine e l’esilio. Qui i coloni gallesi versano il tè fra i ninnoli; qui circolano folli, che si trasmettono il titolo di re degli Araucani o coltivano la memoria di Luigi II di Baviera; qui si incontrano ancora elusivi ricordi di Butch Cassidy e Sundance Kid; qui si respira l’aria dei grandi naufragi; qui esuli boeri, lituani, scozzesi, russi, tedeschi vaneggiano sulle loro patrie perdute; qui Darwin incontrò aborigeni dal linguaggio sottile, e li trovò così “abietti” da dubitare che appartenessero alla sua stessa specie; qui si contemplano unicorni dipinti nelle caverne; qui sopravvive qualcuno che vuol far dimenticare un atroce passato.

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Non un capolavoro di prosa, forse, ma certamente un capolavoro di atmosfera.

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“Perché andate a piedi? – chiese il vecchio – Non sapete andare a cavallo? La gente di qui detesta quelli che vanno a piedi. Li credono pazzi”. “So andare a cavallo – dissi – ma preferisco andare a piedi. Mi fido di più delle mie gambe”.

Alessandro Carli

 

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