«Chi non si aspetta la poesia, neanche la riconosce».
Paul Celan, 1959, Microliti
Di tutti i poeti il cui nome è inscritto negli elementi, soltanto uno ha osato portare alle estreme conseguenze la grammatica dell’acqua, seguendo l’aureo esempio di Keats e della sua fragile lapide romana. Paul Celan, questo vedovo della materia, che distilla a gocce le sue poesie, di rado fa riferimento a sostanze materiali: le sue poesie sembrano architetture del vento, in cui il lettore è al tempo stesso colui che le cattura e le distrugge; quando affiorano elementi materici, si sente preso alla gola, come da chi conosca a fondo la terra. Per ironia della sorte, il poeta araldo del lenticolare, del frangibile, nel 1942 si ritrova arruolato in un battaglione di ebrei, costretto a costruire un lager a quattrocento chilometri di distanza dal luogo natale, Czernowitz. Agli amici che chiedono notizie del lavoro, risponde con una sola parola: scavare. Così l’angelo dell’etereo è immerso nella terra, fagocitato da un elemento che forse faceva pagare al poeta lo scotto di una ingiustificata trascuratezza: un episodio ambiguo che ricorda il quasi involontario coinvolgimento di Kafka nella gestione di una fabbrica d’amianto guidata dal padre e dal cognato.
I genitori di Paul, Leo e Fritzi, che alle insistenze del figlio avevano risposto in modo lapidario («non si può sfuggire al proprio destino»), vengono deportati in un campo di lavoro. Moriranno entrambi pochi mesi dopo: il padre stroncato dal tifo, la madre con un colpo alla nuca perché “inabile al lavoro” (e questo estremo rantolo, questo colpo alla nuca, pare stirarsi come una piega in quasi tutte le poesie di Paul: come un tonfo che non si è ancora appuntato al muro del silenzio).
Per fissare la sensibilità di questo genio in un sudario di luce, è utile ascoltare le testimonianze degli amici romeni, delle muse amanti:
«bastava una frase inopportuna o stupida, detta da qualcuno nella cerchia degli amici, per farlo restare muto tutta la sera, o addirittura per vederlo scomparire senza una parola».
È un atteggiamento che ricorre spesso, nella vita di Celan: il silenzio, in lui, è come un’ombra che scurisce le giornate, un fantasma variopinto capace di assumere le tinte del suo umore e mimetizzarsi sottopelle. D’altronde, non ci ha forse detto che la poesia è «una forte inclinazione ad ammutolire»? O ancora meglio, in una lettera alla sempre amata Ingeborg Bachmann:
«ma talvolta mi dico che il mio silenzio è, in qualche modo, più comprensibile del tuo, perché il buio che mi impone è più antico».
Il filosofo incontra il poeta: dall’antichità ad oggi, tutta la partita a carte della cultura sembra restringersi all’osservazione di questa battuta, da seguire col fiato sospeso e con un filo di amarezza per l’ineluttabilità dello scontro. Ma l’incontro, già di per sé tragico, si fa ancora più fatale se concorre a scurire le carte del gioco anche l’inchiostro della storia: in questo caso l’avvento del nazionalsocialismo e la Seconda guerra mondiale. Alla domanda più naturale: «perché?», il poeta risponde con un ghigno: il verso.
Così, il 24 luglio 1967, l’occasione bussa puntuale alla porta: si tiene una lettura a Friburgo (proprio il luogo in cui Heidegger aveva pronunciato il famigerato discorso nel 1933) ed entrambi, il poeta e il filosofo, sono invitati. Entrambi, da tempo, desiderano conoscersi: la stima è reciproca, anche se l’orgoglio e la paura scalfiscono il desiderio. Il giorno dopo, Paul finisce nella tana del lupo: Heidegger lo invita ad una lunga passeggiata nella Foresta Nera; i due camminano molto e qui, fra piante innominabili e una luce che sembra proiettata da una qualsiasi poesia di Hölderlin, si compie il miracolo: passando fra gli alberi, e osservando la ricchezza della natura, Paul snocciola notazioni naturalistiche e padroneggia i nomi di alberi e piante. Heidegger ammutolisce. Per l’occasione Paul scrive una poesia, Todtnauberg, in cui i versi sembrano foglie staccate e prese a morsi, il ritmo la dolce litania di un qualche poeta laureato:
Arnica, eufrasia, il
sorso della fonte con sopra
il dado stellato,
nella malga,
la riga nel libro
– quali nomi accolse
prima del mio? –,
la riga, in quel libro
inscritta,
d’una speranza, oggi,
dentro il cuore,
per la parola
ventura
di un uomo di pensiero.
Più tardi, Heidegger confiderà a Gadamer di essere rimasto impressionato dalle conoscenze botaniche del poeta. Questo incontro ha tutto il sapore dell’ammonimento: sul poeta che padroneggia la natura e sul filosofo che spesso specula su di essa senza soffrire la pena della creazione. Basta leggere una poesia di Jerzy Hordynski, poeta polacco di claustrale nitore, per scavare questa convinzione e fare pellegrinaggio in quello stesso luogo d’elezione citato da Paul, quel luogo della “speranza / dentro il cuore”:
“Ai poeti bisogna perdonare molto,
ancora più dimenticare.
Vivono nella spietata notte del cuore
e fanno penitenza coi versi”.
Ad ogni modo, come risponderebbe Paul (che aveva usato questa espressione di fronte a un gruppo di dimostranti sessantottini preda di facili slogan): «non è tutto così semplice». In una lettera del ’59 a Ingeborg Bachmann, interrogato sul suo contributo a una miscellanea in onore di Heidegger, Paul risponde con la veggenza di chi sa:
«Sono, e tu lo sai, certamente l’ultimo che possa chiudere un occhio sul discorso per il rettorato di Friburgo e su altro ancora, ma dico anche, soprattutto oggi che ho conosciuto molto da vicino antinazisti dichiarati come Böll oppure Andersch, che chi lotta sino a soffocare sotto il peso dei suoi errori e non si comporta come se non avesse mai sbagliato e non nasconde la macchia che gli sta attaccata addosso, è migliore di chi nella integrità sua e dei suoi tempi (era, così devo chiedere, e ho tutti i motivi per farlo, era davvero e sotto tutti i punti di vista probità?) si è sistemato nel modo più comodo e vantaggioso, così comodamente che qui e ora – naturalmente soltanto in “privato” e non in pubblico – perché questo, come si sa, nuoce al prestigio – può permettersi le più clamorose bassezze».
Il cerchio si chiude: il poeta patteggia con la storia e scagiona il filosofo – in fondo, nelle sue motivazioni più essenziali, un pensatore riceve un vero riscatto solo nei versi di un poeta. Lo sapeva bene Celan, che in una lettera ammoniva:
«solo mani vere scrivono poesie vere. Io non vedo alcuna differenza di principio tra una poesia e una stretta di mano. Viviamo sotto cieli cupi – e ci sono pochi esseri umani. Per questo anche le poesie sono poche».
Al fondo delle esperienze, un atto estremo è anche un invito a immaginare: ogni poeta ti costringe a catturare visivamente l’attimo della sua morte. Quello di Paul, lanciatosi dal Pont Mirabeau in un freddo 20 aprile del 1970, lo immagino così:
reso alato dalle ferite, cercai ristoro nella scia di quelle acque tranquille in cui tanto a lungo il mio cuore aveva desiderato discendere per fissarsi come un’ancora. Così, con le spalle finalmente voltate al buio e tutta la caverna della mia carne protesa a strapiombo sulle acque, io, Paul Celan, tradii la terra e sposai l’acqua: il mio corpo un veliero in partenza verso le rotte dello spirito.
Andrea Muratore