11 Giugno 2023

Esercizi di ammirazione: René Char, Julien Gracq, Saint-John Perse

Pluriottantenne, guerrigliero, seguace di Che Guevara – o traditore del ‘Che’ –, amico di Salvador Allende e di Pablo Neruda, terzomondista, legato a François Mitterrand, Régis Debray ha esercitato il ‘ruolo’ dell’intellettuale francese in tutte le accezioni: mettendoci la faccia, impugnando la pistola, di solito esagerando, con la voluttà del vivace contrabbandiere di idee. Come è ovvio, alternando ideologia e idolatria, civettuolo cinismo e buonismo. Romanziere modesto, Debray riesce come saggista: arguto, dalla scrittura sagace. Il ‘vecchio arnese’ del Novecento è ascoltato, in Francia, ancora come un guru. Ciò che gli restava da fare, per così dire, era denunciare le fonti, omaggiare i maestri. Che sono – guarda un po’ – per lo più poeti e scrittori, che – alla francese – hanno cercato di fare la Storia o di starne ai margini, spazzolandone l’irsuto pelo, a distanza, per scalognate ripe. Questi ‘esercizi di ammirazione’ – o, dice lui, “debiti d’onore da saldare… biglietti del ballo da conservare” – sono pubblicati da Gallimard come Où de vivants piliers. Il guru guerrigliero, anni dopo, si dice “cadetto nell’arte della scrittura”. Cioè: uno senza diritti, senza successione. Un allievo.

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René Char

Non dimentichiamo che dal suo olimpo il “Capitaine Alexandre” aveva uno sguardo penetrante ogni volta che si degnava di abbassarlo alle nostre vicissitudini. Una volta disse, di sfuggita, “Il capitalismo è marcio, il comunismo è una perversione. Dunque, va tutto bene!”. Ha detto tutto, in poche parole. Sotto lo sdegno, alligna il saggio.

Non si giudica un poeta dai suoi diari, non si entra in un’opera dalle quinte. Dobbiamo attenerci a ciò che accade sul palco. Una citazione di Char nell’epigrafe di un libro è una specie di esorcismo: obbliga alla vertigine. Ascoltate i consigli di un vecchio: evitate Prévert, troppo populista, evitate Cocteau, troppo popolare, evitate René Guy Cadou, troppo provinciale, evitate Saint-John Perse, troppo pomposo. Oggi Char ha il ruolo che fu un tempo di Valéry: è il sacerdote del linguaggio perfetto, il monito che ci mostra con quale legno esotico o pregiato ci stiamo scaldando. Il poeta di Le marteau sans maître ha occupato tutte le caselle: è eremita ed eroe, oracolo e ordalia, è lui, ora, a dover sopportare l’alloro e l’intonaco, al posto dell’autore del Cimitero marino, un poeta ricco di pensieri buoni per un album, ma che non ha mai impugnato una pistola. Il collare e la spada sono simboli troppo gentili. Invano l’accademico ha vellutato il cogito: esteta dell’esattezza, pioniere della precisione, non fa volteggiare abissi d’ombra sulle colline. Figlio dei Lumi, intelligibile, traslucido, i suoi enigmi sono decifrati. Il poeta di Fogli d’Ipnos, al contrario, conserva un numero sufficientemente vasto di chiaroscuri per alimentare lunghe e indecidibili esegesi.

Proust lo aveva previsto. Rimbaud pure. Je est un autre. Non occorre aver navigato per mettere in mare Il battello ebbro. Si fluttua ancora bene a Charleville. E cominciamo a capire che un po’ di scaltrezza si addice al volo, come la cautela alla folgore; qualcosa di mormorato e di modesto, la disinvoltura del ritmo, il soffio e il lamento, il respiro in sordina, “senza nulla che sia di peso o di riposo”. Il sofisticato appesantisce le gambe, il cantore di strada ci mette le ali.

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Julien Gracq

Gli avrebbero conferito l’ordine nazionale del Merito. Una coccarda da “piccolo maestro”, a lui adatta, lì, con la cartella in mano. In effetti, era il piantagrane della nostra tribù e sono ancora sorpreso che la polizia non abbia afferrato per il collo il silente sedizioso. Trascorrere una giornata a Saint-Florent-le-Vieil, arrivando da Parigi, insieme a questo ironico “incantatore reticente”, a questo placido recalcitrante, era come mutare d’epoca e di fuso orario: ti ci volevano due o tre giorni, rientrato a casa, per ritornare a un senso di concreta convenienza.

Quest’uomo così ordinato poteva disturbare, deragliare l’ordine a piccoli tocchi, con il ticchettio di un sorriso. È stato saggio da parte sua non sprecare il tempo a rompere i piatti. Una ribellione regge finché non si mette in mostra.

Julien Gracq era fratello e complice del pudico André Breton, fanatico dei buoni costumi, per il quale l’omosessualità era motivo di esclusione dal gruppo. I veri dissidenti non si riempiono la bocca di ingiurie. Per Gracq, troppo cinicamente distante per entrare nelle battaglie “moderno contro antimoderno”, la a privativa pareva la più appropriata: non era tipo da pugni sui fianchi, bava alle labbra, occhi che ruotano. Seguace del voto in bianco, di un latteo stoicismo che non forza mai i toni. Quando l’epoca è irsuta, il ribelle resta abbottonato. Non è errato coniugare l’intima stravaganza con l’anonimato sociale – professore di storia e geografia in un liceo, ad esempio. La seconda professione gli impedì di partorire best-seller. La certezza del funzionario e la sedizione del solitario si coniugano molto meglio di quanto si possa pensare.

Ci sono persone che, se le avessimo incontrare prima, ci avrebbero cambiato la vita. Nel mio caso, avrei compreso per tempo il pericolo di voler “fare la storia” senza sapere nulla di geografia, senza preoccuparmi troppo delle mappe della regione perduta dove insidiai una guerriglia (la Bolivia, ad esempio). L’universale senza il locale, il grande progetto alieno dalla topografia… “Rinnovare le nozze infrante con la Terra”: la nostra bella missione d’oggigiorno, equivalente alla “Rivoluzione nei tre continenti” di ieri, che esige di cambiare scala e di lavorare sul soggetto. Non con le lettere maiuscole (Diritti dell’Uomo o Uomo nuovo) ma con una mappa militare 1/80.000. Senza dimenticare la parlata locale o la natura del sottosuolo. Prima, indagare il terreno. Il calcare è anticlericale, il massiccio armoricano è conservatore: giace un destino nel geologico. Il plurale è intrattabile sul mappamondo. “La verità è una, l’errore molteplice: non c’è da stupirsi se il giusto professi il pluralismo”. La massima di Simone de Beauvoir è metafisicamente difendibile e praticamente catastrofica. È vero che la geografia come bandiera porta alla destra, al regionalismo, ma la storia come Provvidenza conduce dritti contro un muro, politico e letterario. Lo spirito del sistema non vede la differenza tra qui e là: siamo tutti bipedi, tutti sfruttati, tutti soggetti al diritto.

Il genio di Louis Poirier, cioè Julien Gracq, è quello di aver cercato il punto comune tra abitante ed erede. Ha creato il “paesaggio-storia”. D’altronde, non aveva forse progettato, nel 1937, una tesi in geografia sulla Crimea e il Dombass, arenatasi per il mancato ottenimento del visto? Chiamiamola preveggenza: nelle zone di confine accadono le cose cruciali. Terre desolate e confini. La riva delle Sirti, dove l’eccitazione dell’ignoto e il presentimento dell’inesorabile si fondono nel dolce crollo di un vecchio impero. Se due cose minacciano una corretta visione delle cose, storia e geografia, sinistra e destra – l’una senza l’altra – solo una terza può salvarle: il meticciato. Il gracchio si nutre su due rastrelliere. Lo yin e lo yang. Il maschile e il femminile. Fecondazione, ibridazione. Esercizio arduo. La storia in disastro esige un vocabolario povero, la geografia pretende grande attenzione ai dettagli. Gracq è scrittore difficile perché acuto. Non si faceva illusioni: consapevole che il suo vocabolario sarebbe presto diventato pari all’antico avestico, si concesse un minuscolo secolo di sopravvivenza, senza che ciò abbia intaccato il suo buon umore. Consapevole dell’analfabetismo dilagante e del fatto che il francese – il suo, in particolare – non sarebbe durato a lungo, si accontentò di lavorare, senza strapparsi i capelli. Le battaglie più onorevoli da combattere non sono forse quelle perse in partenza?

Non è riuscito a farmi amare il suo dio Wagner, non ero così dotato. Ci ha donato l’ultima parola: “Quando smetti di sentire, devi tacere”.

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Saint-John Perse

Come l’amore, l’ammirazione ha le sue intermittenze: chiedere lumi sul rapporto che hai con quel particolare sachem, significa confessare la propria età. Con Saint-John Perse, il pregiudizio oscilla a seconda che tu abbia venti, cinquanta o ottant’anni. Di qui, le incongruenze.

Al principio, 1960. Una boccata d’aria fresca. Vents, Exil, Anabase. “C’erano venti forti su tutte le facce della terra/ Venti forti e in giubilo per il mondo senza riparo né riposo”. Abbiamo sussurrato questi maestosi canti sulle spiagge ancora deserte di Mykonos. Ammaliante, tellurico, pagano. Nessun buon Dio sotto il tappeto o nella serratura. Niente da rifilare di nascosto, come in Claudel. Orfico, intimidatorio, spalancato. Incantesimo, celebrazione, sacrificio. Parole rare ed erudite. Il Nobel alla giovinezza.

Anni più tardi, il disastro. Precipitiamo da quelle altezze. Una biografia dettagliata di Alexis Saint-Leger (di Mireille Sacotte). Ci siamo sentiti in colpa. Non aver supposto, sotto lo pseudonimo, il segretario generale del Quai d’Orsay, lo scaltro, il leccapiedi, arrendevole su tutti i tavoli dell’epoca (sicurezza collettiva, Monaco, non intervento in Spagna). Non abbiamo scavato sotto lo pseudonimo: Saint ci pareva vertiginoso, John suonava americano, Perse esotico. Abbiamo evitato la sua auto-agiografia, quaranta pagine di fronzoli, scritti di suo pugno come introduzione al tomo delle opere complete edite nella Pléiade – con lettere riviste, rielaborate, e contesto evaso. La penna del pavone aveva buon gioco, vista l’antichità degli antenati, la lontananza dalle isole natie. Egli ha commercio soltanto con il giubileo e il consacrato, ovviamente redatto su nobile carta.

Profugo a Washington durante la guerra, questo principe di alto lignaggio ebbe un’idea grandiosa durante la Liberazione: il ritorno della Francia alla legge Tréveneuc del 1872, che faceva dei consiglieri generali gli unici depositari della sovranità nazionale, dunque di Édouard Herriot il Presidente della Repubblica in vece di Charles de Gaulle, un usurpatore senza qualifica. Un consigliere generale, anzi, municipale come “il poeta più importante del XX secolo”? Un manipolatore opportunista sotto la coperta dei miti assiro-babilonesi? Il quale, ovviamente, ostentava un disprezzo per le patrie lettere proprio di chi scrive qualcosa che non ha “niente in comune” con il resto.

Tuttavia: giudicherò Orfeo per via dei calzini sporchi? In un tempo in cui regna un nuovo analfabetismo, l’astratto, il digitale, potremmo dire: non importa se si è stati scaltri al principio, purché si sia olimpici almeno alla fine. Forse ha ragione Bernanos quando diceva che “soltanto la menzogna sfugge alla putrefazione, a poco a poco prende la lucentezza della pietra”. Dunque, sia lode agli incantatori imbroglioni! Rue Gît-le-Cœur… Rue Gît-le-Cœur… Mentre i poeti, di solito, si congedano rientrando nell’ombra da cui sono sorti, non sarebbe male per questo arcicoronato che aveva sognato di essere “la cattiva coscienza del suo tempo”, cadere. Che domani possa essere assente dalle antologie per un frainteso, sarebbe un colpo d’orgoglio delle nostre Lettere, un qualche sentore di grandezza.

Régis Debray

Gruppo MAGOG