14 Febbraio 2020

“Il diritto protegge il criminale più che la vittima”: il saggio maledetto di C.S. Lewis (che giocava a fare Clint Eastwood)

Il tema è affascinante, fondamentale, totale. Dove termina la legge e inizia l’arbitrio? Quali sono i confini che limitano il bene proprio per il bene di tutti? Fino a che punto il benessere coincide con una rinuncia? Soprattutto: cosa intendiamo per colpa, che senso diamo alla pena, quale dovrebbe essere la conseguenza di una punizione? Sulla legge – reale e metafisica, astratta e coercitiva – si gioca il legame tra l’uomo – uno – e i suoi simili – molti. Se la legge è uguale per tutti, ad esempio, il perdono è diverso per ognuno. La legge è degli uomini – la dimostrazione, in pratica, in codici, dell’incapacità di gestirsi da sé, di assumersi il merito della vita, di assolversi – il bene è di Dio, o del santo. In sintesi: da libero cittadino posso propendere per il perdono, ma un giudice non può perdonare, deve stare nei limiti della legge, che gli è superiore, e ad essa sottoposto, servo. Il perdono si sceglie, la legge si applica. Ma sto farfugliando.

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Vengo al punto. Su “The American Conservative” un articolo attrae la mia attenzione. Lo firma Grayson Quay, che tra l’altro insegna a Georgetown University. Quay scrive un articolo su C.S. Lewis, scrittore di genio – al di là delle “Cronache di Narnia” – e saggista strepitoso. Di Lewis si estrae un testo giudicato “stranamente reazionario contro i giovani”. Il testo s’intitola Delinquents in the Snow, è stato scritto nel 1957 e poi raccolto in un libro di “Essays on Theology and Ethics” intitolato God in the dock e pubblicato nel 1970, qualche anno dopo la morte dell’autore. Questo per dire – visto che di legge si tratta – che Lewis non ha organizzato quel testo in libro, di sua volontà. Il saggio è tradotto qui sotto. Lewis racconta un incidente. Alcuni ragazzi – recidivi – sono entrati nel suo giardino, hanno rubato degli oggetti, rivendendoli. Il giudice ha pensato di infliggere una pena irrisoria, una multa, ai genitori dei ragazzi. Considerazione di Lewis: se lo Stato è incapace di proteggere la nostra proprietà privata, meglio fare da sé. Naturalmente, l’articolista dà del reazionario a Lewis – il quale, dell’evento che narra è la vittima, non il furfante. “Spero che un testo del genere ci insegni alcune cose: non mettere i maestri su un piedistallo; non diventare crudeli invecchiando; non esprimere opinioni feroci su ciò che non si sa”. Affari suoi.

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In un articolo di qualche anno fa, che ricama sullo stesso saggio, è stata scelta una illustrazione significativa: C.S. Lewis è associato al Clint Eastwood di Gran Torino, il vecchio che difende il proprio con il fucile. L’articolo – parere mio – mi pare amaro, ma concreto, all’inglese. Non inneggia alla pena capitale ma sonda un problema sociale: se lo Stato non sa contenere la delinquenza essa esplode. E con essa esplode la pazienza del popolo dei vessati, in forme che possono essere pericolose. C.S. Lewis non è andato fuori pista: qualche anno dopo il saggio ‘maledetto’, nel 1962, Anthony Burgess pubblica Arancia meccanica, dieci anni dopo Stanley Kubrick realizza la traduzione cinematografica del libro dando al problema una dimensione planetaria. Che è quella di oggi, di sempre.

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Nel saggio del 1952, Mere Christianity – in italiano come “Il cristianesimo così com’è” – Lewis dedica un capitolo al Perdono. “Possiamo uccidere, se è necessario, ma non dobbiamo odiare o compiacerci di odiare. Possiamo punire, se è necessario, ma non dobbiamo rallegrarcene. In altre parole, qualcosa dentro di noi – il sentimento del rancore, il sentimento del rendere la pariglia – deve essere annientato”. Il fatto di “desiderare il bene” del prossimo, anche di chi per qualche ragione ci è nemico, non significa “provare affetto per lui, né dire che è una brava persona quando non lo è”. “Ammetto che ciò significa amare persone che non hanno in sé nulla di amabile. Ma il nostro io ha qualcosa di amabile?… In noi, in effetti, non c’è davvero niente da amare: creature quali siamo, capaci di trovare nell’odio tanto piacere che rinunciarvi è come rinunciare alla birra o al tabacco…”. Eppure, predica Lewis, Dio ci ama, nonostante tutto – e così dobbiamo amare, nonostante l’uomo.

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La legge porta con sé le imperfezioni di chi la ha forgiata: per evitare che spadroneggi il più forte si forgia una forza ulteriore, a volte più feroce. Certamente, è colpevole chi uccide a sangue freddo mio figlio come me, che ho consapevolmente rincorso quell’uomo, lo ho atteso e ucciso, anche se i piani della morte sono assai diversi. Tra la Giustizia e il Giusto la distanza è insanabile e sarebbe sbagliato pretendere perfezione da ciò che per natura si corrompe. (d.b.)

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Delinquenti sulla neve

Voci fuori dalla porta, ogni anno, ci ricordano – di solito, nel momento meno adatto – che la stagione dei canti è tornata. Alla mia porta di casa, una volta all’anno, le voci del coro locale; nelle altre 45 occasioni le voci di ragazzi o bambini che non si sono sforzati neppure di imparare a cantare o di memorizzare le parole del brano che stanno assassinando. Gli strumenti che suonano con convinzione maggiore sono il campanello o il battente della porta; il denaro è ciò che segue.

Sono abbastanza certo che alcuni di loro siano gli stessi teppisti che sconfinano nel mio guardino, rubano dal mio frutteto, abbattono gli alberi, gridano fuori dalle finestre, nonostante tutti nel vicinato sappiano che c’è una malattia grave nella mia famiglia. Temo di affrontarli nel modo peggiore. Non perdono come un cristiano e non slaccio il cane come un padrone di casa arrabbiato. Pago il ricatto. Dò, ma dò senza grazia e rendo peggiori entrambi i mondi.

Sarebbe stupido raccontare questo fatto (più appropriato tra i padiglioni auricolari del confessore) se non ragionassi sul risentimento fumante, contro cui vinco molte battaglie ma mai la guerra, condiviso da parecchie persone che rispettano la legge. Il Cielo sa, per altro, che molti di loro hanno cause ben più importanti della mia. Non sono stato spinto al suicidio, non sono in lutto per il rapimento e l’omicidio di un figlio il cui assassino sarà tenuto (in parte, a mie spese) in un ospedale psichiatrico fino a quando non uscirà, magari catturando qualche altro bambino. La mia lamentela è banale, ma poiché solleva un problema generale la racconterò.

Non molto tempo fa alcuni dei miei giovani vicini hanno fatto irruzione nel bungalow che si trova nel mio giardino, rubando diversi oggetti – armi particolari e uno strumento ottico. La polizia li ha scoperti. Dato che uno di loro era già stato condannato per reati simili, nutrivo una certa speranza in una sentenza adeguata, dissuasiva. Mi avvertirono: “Non ti andrà bene se presiede la Vecchia”. Andai al tribunale dei minori: presiedeva una signora piuttosto anziana. Fu ampiamente dimostrato che il crimine era stato pianificato e realizzato per guadagnare: alcune mie cose erano già state vendute. La Vecchia Signora optò per una piccola multa. Cioè: preferì punire non i colpevoli, ma i loro genitori. La cosa che mi allarmò più di tutte fu il suo discorso. La signora disse ai colpevoli che avrebbero dovuto smetterla con quegli “stupidi scherzi”. Ovviamente, non mi permetto di accusare la Vecchia Signora di ingiustizia. La giustizia ha così tante definizioni. Se significa, come pensava Trasimaco, “l’interesse del più forte”, la signora ha agito bene; ha fatto rispettare la propria volontà e quella dei criminali, entrambe incomparabilmente più forti della mia. Ma se la sua intenzione era quella di impedire a quei ragazzi di diventare criminali conclamati, non credo che il suo metodo sia stato quello giusto. Se l’avessero ascoltata bene – ma possiamo sperare di no – essi si sarebbero convinti che una rapina pianificata per guadagnare qualcosa in fondo può essere classificata come uno ‘scherzo’ – una vicenda, infine, infantile. Un modo migliore per guidarli, senza alcuna percezione dei confini, dal semplice, sconsiderato disprezzo al saccheggio dei frutteti al furto con scasso fino allo stupro e all’omicidio, non credo sia immaginabile.

Questo misero incidente mi pare caratteristico della nostra epoca. Il diritto penale protegge il criminale più che la vittima. Potremmo temere che ci stiamo avvicinando a una Dittatura dei Criminali o verso – in fondo, la stessa cosa – la mera anarchia. Ma questa non è la mia paura, la mia paura è l’opposto.

Secondo la teoria politica classica di questo paese, abbiamo ceduto il nostro diritto all’autoprotezione, all’autodifesa a condizione che lo Stato ci protegga. Insomma: ho promesso di non pugnalare l’assassino di mia figlia nella certezza che lo Stato si occupi di lui, catturandolo o impiccandolo. Ovviamente, questo non è il racconto esatto di come si forma uno Stato. Il potere del gruppo sull’individuo è per sua natura illimitato e un individuo si sottomette perché deve. Lo Stato, in condizioni favorevoli (ora cessate), definendo quel potere, lo limita concedendo all’individuo un po’ di libertà. Tuttavia, la teoria classica fonda moralmente il nostro obbligo all’obbedienza civile; spiega perché sia giusto (e in fondo inevitabile) pagare le tasse e perché sia sbagliato (oltre che pericoloso) pugnalare l’assassino di nostra figlia. Al momento, la questione assai poco confortevole è questa: lo Stato ci protegge di meno perché non è disposto a tutelarci da criminali che penetrano nella nostra proprietà e manifestamente è in grado sempre meno di proteggerci contro nemici stranieri. Eppure, ci chiede sempre di più. Raramente ci siamo trovati ad avere così pochi diritti e tanti oneri: in cambio, otteniamo meno sicurezza. Mentre i nostri obblighi aumentano, il territorio morale che li giustifica si è consumato.

La mia domanda è: fino a quanto riusciremo a sopportare questa situazione? La stessa domanda è stata imbracciata qualche tempo fa. Spero che nessuno consideri Samuel Johnson, il Dottor Johnson, un barbaro. Eppure, egli sosteneva che se, a causa di una particolarità della legge scozzese, l’assassino del padre di un uomo fosse scappato, quell’uomo avrebbe potuto ragionevolmente affermare: “Sono tra i barbari perché questi rifiutano di dare giustizia… Sono quindi in uno stato di natura… pugnalerò l’assassino di mio padre” (così ricorda Boswell nel diario che racconta il viaggio alle Ebridi, il 22 agosto 1773). Secondo questi principi, poiché lo Stato rifiuta di proteggermi da quei ragazzi, potrei ragionevolmente catturarli e fargliela pagare io stesso. Quando lo Stato non può o non vuole proteggere, la ‘natura’ ritorna in campo e con essa il diritto di autoprotezione proprio dell’individuo. Tuttavia, se mi comportassi in questo modo, dovrei essere perseguito dalla legge. La Vecchia Signora e la sua schiera, così compassionevoli verso i ladri, non avrebbero pietà di me; sarei messo alla gogna dalla stampa e giudicato ‘sadico’ da giornalisti che non si preoccupano del senso delle parole che usano. Ciò che temo, tuttavia, non sono gli sporadici scoppi di vendetta individuali. La mia paura è che nella nostra situazione, così simile a quella del Sud degli Stati Uniti durante la Guerra civile, sorga una specie di Ku Klux Klan. Penso a quelli che soffrono, agli uomini risoluti, che vogliono lavorare, che hanno costruito, nonostante lo scoraggiamento, una specie di vita che vale la pena desiderare e preservare. Che la maggior parte di costoro appartenga alla cosiddetta ‘classe media’ non è rilevante. Non si ottiene qualità appartenendo a una classe: si appartiene a una classe grazie alle proprie qualità. In una società come la nostra chi pratica la rettitudine, la dedizione o il talento, congiunti all’abnegazione, è destinato e restare proletario per più di una generazione. In effetti, i proletari sono i portatori di quel poco di vitalità morale, intellettuale ed economica che ancora resta. Essi non sono un niente. Ci sarà un momento in cui la loro pazienza si spezzerà.

La Vecchia Signora, leggendo questo articolo, potrebbe pensare che io la stia ‘minacciando’ – la sofisticatezza linguistica non era nelle sue corde. Se per minaccia intende la previsione congetturale di un evento altamente indesiderabile, beh, sì, sto minacciando. Ma se con minaccia s’intende che io desideri che questa previsione si realizzi, no, ti stai sbagliando. Le rivoluzioni non curano il male per cui sono scaturite; fanno proliferare molti altri mali, imprevisti. E spesso perpetuano lo stesso male sotto un altro nome. Sarei certo, ad esempio, che se sorgesse un nuovo Ku Klux Klan i suoi ranghi sarebbero presto riempiti dai teppisti che ne hanno provocato la creazione. Una rivoluzione di destra o di centro sarebbe ipocrita, sporca e feroce come ogni altra rivoluzione. Il mio pensiero è che dovremmo renderla improbabile.

Questo può essere giudicato un articolo inadatto per la stagione della pace e della buona volontà. Eppure, c’è una connessione. Non tutti i tipi di pace sono compatibili con tutti i generi di buona volontà, né tutti quelli che dicono “Pace, pace” erediteranno la benedizione promessa ai portatori di pace. Il vero pacifico è chi promuove la pace, non chi blatera di essa.  Pace, pace… non saremo severi con te… era soltanto una bravata da ragazzo… prometti di non farlo di nuovo… da questo non credo che a lungo termine deriveranno pace e buona volontà. Piantare nuove primule sul sentiero delle primule non è segno di benevolenza.

C.S. Lewis

*In copertina: Clint Eastwood in “Gran Torino”, film del 2008

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