Nel settembre del 1938, alcune settimane prima della morte di Lev Šestov, suo maestro e amico, Benjamin Fondane gli confida di essere diventato filosofo per compiacerlo. «Credevo di essere solo un poeta, un critico e scrivevo i miei studi filosofici solo per compiacerlo, poiché sentivo che lui sarebbe stato più contento di avere per allievo un filosofo piuttosto che un poeta». Benjamin Fondane credeva di essere solo un poeta e un critico. In Romania scriveva unicamente poesia e saggi di critica letteraria. Ma dal momento in cui si trasferisce in Francia, nel 1923, attraverserà una profonda crisi. Fin dall’adolescenza aveva creduto nella poesia, e solo in lei. Inebriandosi con l’idea di «una giustificazione estetica dell’universo», credeva che la poesia potesse riuscire là dove la metafisica e la morale avevano fallito; che questa fosse «l’autentica conoscenza», «la ragione per l’essere di perseverare nell’essere». Poi, all’improvviso, il brusco risveglio da questo «sogno idealista». La poesia, come egli l’aveva vissuta fino ad allora, appariva ora una menzogna, un’arte che rivestiva con la sua maschera di bellezza realtà terribili, che insegnava ad arrendersi al dolore. È la fine dell’inganno della bellezza serena.
Fondane rimette in causa quella poesia che si rivela impotente nel mutare la realtà. Per quattro anni non scriverà più, non sarà più in grado: «nella notte ho iniziato a gridare e mancavano le parole». Fondane, in ogni caso, non raggiunge mai alcuna certezza: «ho capito che la poesia è qualcosa… Cosa? Non ne sono sicuro… Ancora non capisco… Qualcosa che trasforma la realtà? No… Qualcosa che mi cambia… Me? Ma chi? E chi sono io?». Fondane non attende risposte dalla ragione razionale. Da molto tempo ormai non accorda alcun credito ai sistemi che riposano sulle promesse della ragione. Le preferisce l’ozio, la dissennatezza, l’assurdità, più adatte a manifestare le forze occulte che si annidano nel profondo di ogni individuo. Solo di una cosa Fondane è certo: la poesia non deve sottomettersi agli imperativi dell’estetica, della morale o della politica. Nell’estetica, nella morale e nella politica si nasconde sempre la ragione che pretende di dettare legge al poeta. Così, se il pensiero razionale, più spesso, poteva ridurre al silenzio l’espressione poetica, perché mai Fondane non dovrebbe cercare di attaccare la ragione sul suo stesso terreno, quello della filosofia? Ma può qualcuno improvvisarsi filosofo, quando non si è letto che alcuni testi di Nietzsche, di Jules de Gaultier… e di Šestov?
Fondane aveva letto La révélations de la mort di Lev Šestov, in Romania, senza sapere se il suo autore fosse vivo o morto. Appena un anno dopo il suo arrivo a Parigi, nella primavera del 1924, egli incontra «questo magro, esile e venerabile vecchio», a casa di Jules de Gaultier. Saranno necessari, tuttavia, tre anni affinché un contatto concreto si stabilisca tra i due uomini, e si riconoscano ingaggiati, ognuno a proprio modo, nella lotta contro la dittatura della ragione. Šestov incoraggerà Fondane a leggere Husserl e Heidegger, a dedicar loro degli studi. Fondane attingerà così, a favore delle sue convinzioni, un fondamento teorico, e allo stesso tempo diverrà il più convinto sostenitore del pensiero di Šestov. Al pari di Šestov, Fondane farà suoi autori quali Pascal, Nietzsche, Dostoevskij o Kierkegaard, coloro che conobbero in vita l’esperienza dell’abisso, del sottosuolo, dell’impossibilità, il terreno franare da sotto i loro piedi, e che osarono credere contro la necessità, contro l’ordine del mondo.
Proprio come Šestov, egli si riconosceva nella voce dei profeti dell’Antico Testamento, nella preghiera di Abramo che sacrifica i suoi figli, nelle imprecazioni di Giobbe seduto sul suo letamaio. Come il suo Maestro, era convinto che il male, la colpa, è la ragione e che solo la Bibbia, dal punto di vista del pensiero, possa offrire una possibile libertà. Alla fine degli anni ’30 Fondane è diventato uno dei rappresentanti più influenti della filosofia esistenziale, colui che stabilisce più nettamente la filiazione tra la Bibbia e la corrente di pensiero che afferma con fermezza: «a Dio tutto è possibile», per contraddire tutte le filosofie ereditate dai Greci e permettere così all’individuo, all’esistente, di fare appello a Dio contro la necessità. Šestov incoraggia Fondane a diventare filosofo. Ha forse risvegliato nel suo discepolo anche un interesse per il pensiero indiano? Nella corrente degli anni ’20 molti scrittori sono stati sensibili ai richiami dell’Oriente. Alcune personalità, come quelle di René Guénon, Jean Grenier e René Grousset, sostennero allora che aprirsi alle influenze orientali sarebbe stato il rimedio al «male del secolo» nato dalla crisi dei valori occidentali. Non troviamo alcuna eco di questi dibattiti negli scritti di Fondane prima della Guerra, e i suoi riferimenti al pensiero indiano si fermano a Gandhi. Ora, nel Rencontres avec Léon Chestov, dove Fondane annota di giorno in giorno le sue conversazioni con il suo venerabile maestro, a partire dal 1938, constatiamo un deciso interesse di Šestov per il pensiero indiano. «Sono ancora immerso nel pensiero indù», sostiene il 26 febbraio. «Straordinario. Gli Europei lo spiegano sempre come si sono spiegati la Bibbia: si mette da parte ciò che disturba e si tiene il resto. E se il lato essoterico del loro pensiero corrisponde al pensiero greco, quello esoterico no. Gli indù hanno intravisto le difficoltà, in loro troviamo una straordinaria tensione, una grande volontà di libertà».
Il 24 ottobre Fondane nota che: «Šestov è sempre immerso nel pensiero indù». Ma le sue forze sono in declino e confida al suo discepolo: «so che non sarò mai in grado di scrivere sugli Indù. Così sarà qualcun altro a scrivere, magari lei…». È l’ultima conversazione di Fondane con Šestov, che sarebbe morto il 20 novembre, lasciando un libro aperto sulla sua scrivania, Il sistema del Vedanta, alla pagina in cui aveva sottolineato le seguenti parole: «Non è una penosa ascesi quella che colpisce colui che ottiene la conoscenza di Brahma, ma la felice coscienza dell’unità con Dio».
Due anni dopo Fondane pubblicherà Au seuil de l’Inde [In Message actuel de l’Inde, un numero speciale dei «Cahiers du Sud», diretto da Jacques Masui con l’aiuto di René Daumal e Jean Herbert, Marseille, 1941], un testo in cui dimostrerà una notevole familiarità con il pensiero indiano. Meglio di molti orientalisti, arriva a stabilire un legame tra questo pensiero e il pensiero occidentale, che non si limita «al criticismo kantiano, positivista e pragmatico». E tuttavia egli ricava una irriducibilità tra l’India e l’Occidente, giacché quest’ultimo si fonda sull’apporto giudaico-cristiano, «una sorta di rivelazione» – un irriducibile che illustra nel cuore stesso della filosofia occidentale il conflitto che oppone Schopenhauer, che sacrifica la volontà all’etica, e Nietzsche, che si pone quale avvocato della vita per ritrovare un dio «al di sopra e oltre tutte le religioni speculative». La lettura fondaniana del pensiero indiano s’iscrive nella continuità di questa impresa – fatta sua dopo essere stata quella di Šestov – intenta a denunciare ogni filosofia che privilegia la conoscenza a danno dell’esistenza. Come lascia intendere la nota in chiusura del suo studio, Fondane avrebbe avuto da dire ancora molto sul pensiero indiano. Ma nel 1940 era già preso dalla volontà di portare a termine ciò che più contava, per lui. Durante gli anni dell’Occupazione volle portare a termine la pubblicazione delle sue opere su Baudelaire, Šestov, Lupasco, e riprendere in mano tutte le poesie che aveva composto, per conferire loro una forma definitiva. Negli appunti-dossier che lascerà dopo l’arresto che lo condurrà a Drancy, e infine ad Auschwitz, non verranno trovati altri testi dedicati all’India.