13 Settembre 2019

Suonare Beethoven dove non c’è speranza. “Alcuni pazienti non riescono ad alzarsi dai letti, la musica spacca letteralmente le porte. Arriva comunque”

Un piano per un ospedale forte è il progetto che Francesca Cesaretti come donatrice di musica porta avanti da oltre due anni nell’ospedale Infermi di Rimini, sezione Hospice, terapia antalgica. Non ha scelto la degenza oncologica, non ha scelto la rianimazione, Francesca suona e porta musicisti da tutta Italia a suonare in Hospice. In questo padiglione sostano quelli che non hanno speranza, vengono qui a morire o a essere accompagnati, cercano una qualche terapia del dolore, quando il dolore è l’unica cosa che si può alleviare, sopprimere, mettergli il bavaglio.

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Giovedì 12 settembre ore 16: primo appuntamento dei tre della rassegna. Francesca Cesaretti suona insieme a Davide Tura nel loro duo consolidato, la pastorale di Beethoven.

Sono seduta in mezzo al “pubblico” e penso che è vero che senza camice ci si toglie lo scudo. Divento una di loro. Non sono dall’altra parte, non ho nessuna barriera di cotone bianco a proteggermi. Capisco che c’è un motivo per scegliere la musica qui in questo padiglione: soprattutto perché il suono può essere subìto, è una forma di comunicazione prorompente e prepotente. Arriva anche se sei in degenza, se sei incosciente.

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Francesca il giorno prima del concerto mi confessa una forte agitazione, dice che la emoziona di più suonare in Hospice piuttosto che sui palchi dei concerti. Non se lo sa spiegare. Mentre suona non percepisce il feedback dal pubblico, nessuno infatti ha scelto di essere in questo reparto, ma l’energia arriva, le viene la pelle d’oca, si rompono le barriere. Davide Tura mi dice anche lui che è difficile in generale suonare in questi posti, perché non si ha un contatto diretto col pubblico, alcuni pazienti infatti non riescono ad alzarsi dai letti, la musica spacca letteralmente le porte. Arriva comunque. Ma al musicista cosa rimane? Il dono. Perché fare arte è donarsi fino a bruciarsi, fino a far spezzare le corde. Ecco perché si chiamano donatori di musica, che parole meravigliose, penso.

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Alcuni sono arrivati in carrozzina e c’è chi ha voluto far portare il letto direttamente in sala. La musica su di me ha fatto un effetto strano: io che sono abituata per lavoro a tutto questo, a sentire odori particolari, tra urina e disinfettante, improvvisamente mi sono percepita parte di qualcosa di unico, di profondamente umano. Le barriere sono tolte. Ecco perché credo nel progetto di Francesca. Perché bisogna credere nei progetti di donatori di musica, o in tutti i progetti d’arte che entrano negli ospedali. Aiutiamo chi attraversa gli ospedali a sentirsi parte di un tutto, medici e malati.  Tutti prima o poi saltiamo dall’altra parte del vetro.

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Per questa prima data Francesca e Davide hanno scelto la pastorale, sembra quasi strano sentire delle note forti e felici, alte, luminose dentro un Hospice. Hanno scelto proprio questa sinfonia perché la musica potesse arrivare in tutte le stanze senza chiedere permesso. Non voglio dire le solite cose banali, che la pastorale è un brano di vita, di gioia e che si sceglie questo solo perché stiamo in mezzo ai malati, a chi ha giorni davvero contati, pure le ore. Ma la sinfonia n. 6 è Beethoven che riesce a tradurre la natura in musica. E la natura comprende tutto, ogni cosa, anche gli esseri umani, anche l’inizio come la fine, la primavera come il temporale. Possiamo chiudere gli occhi e ritrovarci mentalmente fuori da qui. Basta così poco. A chi sta qui dentro serve poco, niente parole o pietismi, la sola possibilità di chiudere gli occhi e uscire dalla stanza mentalmente.

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L’anno scorso con Francesca sono stata qui per questo progetto, io leggevo dei testi di Agostino Venanzio Reali. Ero emozionata, ma la parola ha una forza diversa. Necessità della comprensione, della presenza mentale. La musica in questo vince, la si può subire. Uno studio scientifico dimostra che anche le piante sono sensibili alla musica, crescono di più e fanno migliore il vino. La pastorale nel quarto movimento si evolve nella scena del temporale che irrompe nella festa paesana. L’acqua estiva arriva all’improvviso e se ne va così altrettanto velocemente. L’ultimo movimento invece è la formula di ringraziamento per lo scampato pericolo. Ed è esattamente così che capita a chi lavora nei reparti oncologici: ha il temporale davanti e allo stesso tempo ringrazia lo scampato pericolo. Tu e non io. Questo concerto in ospedale toglie anche questo. Siamo tutti un noi, io siamo. Siamo nella tempesta e ne siamo fuori, comunque fluiamo.

E allora suonare è come imporsi, stare dove altri non vogliono stare, comunque resistere.  Auguro che in ogni ospedale possa esistere un progetto come questo, un progetto che possa farci sentire “io siamo”. Fuori e dentro i camici.

Clery Celeste

 

Gruppo MAGOG