“È tempo di cambiare le parole, di spegnere la lanterna”. Marina Cvetaeva contro il regime sovietico
Cultura generale
Ezio Mauro
21 agosto 1857. La poesia è processata, dissezionata, messa al bando. Baudelaire e il suo editore, Auguste Poulet-Malassis, sono condannati per oltraggio al pubblico decoro: 300 franchi la multa comminata all’autore, 100 a chi gli ha dato fiducia di stampa. Soprattutto, gli occhi dei censori sono attratti da sei poesie, che saranno soppresse: una di queste si intitola Les Bijoux. La condanna dura fino al 1949, settant’anni fa, quando la Corte di Cassazione francese ammette che quelle poesie possano essere reintegrate nel libro, il demoniaco, fatale, fatato I fiori del male.
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Les bijoux, “I gioielli”, non canta altro che la nudità: la nudità adorna di gioielli (“Nuda, la mia diletta: conoscendo il mio cuore/ non aveva tenuto che i gioielli”). Il contrasto tra la pietra e la carne, tra lo splendore dei preziosi e la preziosità del corpo eccita il poeta: la donna “somiglia/ alle schiave dei Mori nei giorni di splendore”, è “Tigre addomesticata”, dal “ventre e i seni… più vezzosi degli Angeli del male”. Il luogo notevole è il verso che definisce questa donna, attorcigliata di gioielli per infiammare il desiderio, “un misto di lascivia e candore”. Questo è il contrasto fenomenale: candeur e lubricité. Ebbrezza di ciò che è lubrico, il viscido che si attaglia al virtuoso, il candore – cioè ciò che è candido, ciò che precede l’innocenza, che per esistere ha bisogno della colpa, del male – sguarnito nella lascivia. D’altronde è lì, nel proibito, nel seviziare il vigore vergine, la rapina alla vita, la grandezza.
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Di quella poesia, ora, m’importa che sia stata trovata una strofa supplementare. Non solo il modo, m’importa, ma il gesto. I fatti son questi. Baudelaire regala una copia dei Fiori del male all’allora neanche trentenne Gaston de Saint-Valry (1828-1881), critico letterario che aveva sempre aiutato il poeta, amico del suo futuro editore. La copia personale di Gaston porta una firma del poeta – à Gaston de Saint-Valry, témoignage d’amitié –, ma soprattutto alcuni versi, vergati a matita, finora sconosciuti. Proprio così, Baudelaire piglia la pagina dove è stampata la poesia I gioielli e aggiunge quattro versi di suo pugno. Eredi e proprietari di quella edizione non hanno voluto svelare l’arcano dei versi ignoti, come contenessero una formula genealogica. Fino ad oggi. Cioè, fino a che la casa d’aste Drouot non ha messo in vendita la copia fatidica dei Fiori del male – l’evento accadrà il 22 novembre – a un prezzo stimato di 60/80mila euro.
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Myrtille Dumonteil, responsabile d’asta, ha detto: “La scrittura è autenticamente di Baudelaire, viene dalle sue mani. Questo è il tipico oggetto bibliografico che si desidera trovare quando si fanno ricerche del genere”. L’esistenza di una quartina ulteriore a I gioielli, non era ignota a Yves Le Dantec, grande studioso di Baudelaire, che nel 1920 scriveva al proprietario del libro, “Non devo insistere con lei nel ricordarle cosa significhi questa scoperta, senza precedenti… ritengo che non debba esserci nota inedita, parola, lettera di un uomo come Baudelaire che debba restare sconosciuta: tutto quello che riguarda il poeta è d’interesse”. Per decenni, tuttavia, la quartina fatidica restò velata, in una casa privata, a nutrimento di disattenti e amanti.
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Come si sa, Rimbaud riteneva Baudelaire, pur ancorato a forme poetiche arcaiche, “Il primo veggente, il re dei poeti, un vero Dio”; Thomas S. Eliot, che schifava il “satanismo di maniera”, esaltò il poeta francese discernendo il loglio (“le sue prostitute, i suoi mulatti, ebrei, serpenti, gatti, cadaveri, un congegno che per più di un aspetto non ha resistito all’usura del tempo”) dal grano, a parer suo (“il suo linguaggio poetico è la realtà più vicina a un completo rinnovamento che ci sia dato di sperimentare”). Il più lucido e vertiginoso esegeta di Baudelaire fu Benjamin Fondane, riconoscendone non solo la grandezza letteraria (“Pochi scrittori hanno avuto la coscienza chiara e penetrante dei mezzi, dei fini e del senso della loro arte quanto Baudelaire”) ma la spaventosa potenza di un uomo che disintegrando il mondo lo ricapitola (“Baudelaire pensa che alla grande poesia sia essenziale la dissennatezza – bêtise – poiché il poeta è una creatura che crede”; in: Benjamin Fondane, Baudelaire e l’esperienza dell’abisso, Aragno 2013).
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La quartina che chiude I gioielli è questa:
E allora fui pieno di questa Verità:
Che il miglior tesoro che Dio concede al Genio
È conoscere a fondo la Bellezza terrestre
Per far sgorgare il Ritmo e l’armonia.
La verità è la bellezza terrena, il corpo: è il corpo l’origine del ritmo. C’è come una forza biologica nella poesia, una vitalità d’eccesso. Armonia non è speculazione mentale, ma sapienza carnale.
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C’è poi altro. Il poeta che ritiene infinita l’opera, degna di aggiunte continue. Il poeta che spreca – cioè, dona – il talento agli amici. È lì il gesto autenticamente poetico, nell’ispirazione istantanea, sporca, relegata al regalo, senz’altro pubblico che una intimidita intimità. (d.b.)
*In copertina: Charles Baudelaire nel 1855, in un ritratto fotografico di Nadar