29 Giugno 2022

A Tozeur non ci sono treni ma miraggi. Gita mistica con Franco Battiato

I treni di Tozeur, chi non lo sa, è una canzone di Franco Battiato: uscì, interpretata con Alice, in un singolo del 1984; nell’altro lato c’era un pezzo che s’intitola Le biciclette di Forlì, molto meno noto. I treni di Tozeur – si sa anche questo – passa per l’Eurovision Song Contest, fermandosi al quinto posto: quell’edizione va agli Herreys con Diggi-Loo Diggi-Ley. Il pezzo viene poi incorporato nell’album Mondi lontanissimi, uscito nel 1985, dove spiccano, per dire, No Time No Space, L’animale, Chan-son egocentrique.

Quella canzone mi è sempre piaciuta molto: mia mamma la metteva su un mangianastri mentre andavamo al lago Maggiore. Amavo quel dedalo nostalgico; non mi sono mai chiesto se esistesse o meno la città di Tozeur, per me faceva parte di una topografia dell’immaginario, come Atlantide, Shangri-La, la giungla del Seeonee dove si aggira Mowgli. Tozeur, invece, esiste: è una città tunisina ai confini del deserto, prossima al lago salato di Chott el Jerid, che corrisponde, per enigmi e sussurri, al lago Tritonide citato da Erodoto, dove si sarebbero arenati gli Argonauti. Tozeur conta circa 33mila abitanti: il luogo, dal fascino sonnolento, meridiano, fa da sfondo ad alcuni episodi di Star Wars e dei Predatori dell’arca perduta. Pare che a Tozeur ci sia una stazione: è desolata, passano pochi treni, non si sono ancora viste “nuove astronavi per viaggi interstellari”. Oltre che per le “distese di sale”, il lago che lambisce Tozeur è noto per l’effetto Morgana: l’inversione termica, i cristalli del sale, la congiura del sole, creano figure angeliche, apparizioni immotivate, che galleggiano sull’acqua bassa.

Soprattutto, a Tozeur ha sede la confraternita sufi Shâdhiliyya-‘Alawiyya-Ismâ’îliyya, da cui dipende la sede di Genova.

“Come accade in tutte le confraternite regolari, anche in questa tarîqa è considerato necessario, da una parte, il rispetto da parte dell’iniziato ‒ il faqîr, letteralmente “povero”, “indigente” nei confronti di Allâh ‒ sia dei riti fondamentali dell’Islam, sia dei principali elementi comportamentali e morali derivanti dall’esempio del profeta Muhammad, mentre dall’altra si opera per il raggiungimento di quella che è definita “realizzazione metafisica” con metodi e riti del tutto caratteristici, molte volte non conosciuti, e talora misconosciuti, dai profani. Si tratta comunque, secondo la confraternita, di metodi e riti derivanti dall’insegnamento profetico e specialmente dalla parte esoterica e non accessibile a tutti di tale insegnamento”.

 Questa particolare ṭarīqa è stata studiata e divulgata da René Guenon: la canzone più nota del disco Mondi lontanissimi, Il re del mondo, riprende il titolo di uno dei libri più noti di Guenon (in Italia, stampa Adelphi). Il ritornello è indimenticabile:

Nei vestiti bianchi a ruota echi delle danze sufi
Nelle metro giapponesi oggi macchine d’ossigeno
Più diventa tutto inutile più credi che sia vero
E il giorno della fine non ti servirà l’inglese
E sulle biciclette verso casa
La vita ci sfiorò
Ma il re del mondo
Ci tiene prigioniero il cuore.

Nell’anno in cui pubblica Mondi lontanissimi, Battiato vara la casa editrice L’Ottava, con l’idea di stampare libri di Gurdjieff e dei suoi discepoli, con alcuni classici del sufismo (tra cui Il segreto dei segreti di Abd al-Qadir al-Gilani). Insomma, tutto si tiene – ma non è questo il punto.

Probabilmente, il lago, acqua che simula il deserto, a cui si abbeverano gli angeli, conforta l’edificazione di una confraternita. Riguarda la chiamata, il riposo, l’enigma. Non troppo lontano da Tozeur, lungo le sponde del lago Maryut – il Mareotide –, presso Alessandria, nasce la comunità dei Terapeuti, raccontata da Filone nel De vita contemplativa. “Educati a servire l’Essere”, i Terapeuti “hanno imparato a vedere”, distinguono miraggio e miracolo,

“tendono con tutte le forze alla visione dell’Essere e oltrepassano il sole sensibile pur non abbandonando mai questo loro posto”.

Per giungere a questa “vita immortale e beata”, fuggono la città, si dirigono sulle rive del lago, desertiche, si spogliano di tutto. Vivono in luoghi inospitali, abitano in celle umili, passano il tempo alternando la preghiera allo studio delle scritture sacre. Preferiscono l’austerità della solitudine: si riuniscono in comunione “il settimo giorno”, vestiti di bianco, in foggia semplice; praticano il digiuno (“alcuni poi si ricordano di mangiare soltanto ogni tre giorni”), mangiano di notte – la luce è dedicata al pensare e al contemplare –, spesso pane inumidito nell’acqua, materia che appena li sostenta. Durante il “banchetto” del settimo giorno, il pasto comune, si danno al coro, voci intrecciate nell’inno. Il canto si annoda alla danza, secondo la tradizione biblica – il ballo del re intorno all’Arca in 2 Sam 6, “Davide danzava con tutte le forze davanti al Potente” – che ha echi nella tradizione sufi.

Alcuni hanno segnalato una continuità, una sequela tra i modi dei Terapeuti e quelli degli Esseni, che si sono sviluppati intorno al Mar Morto, l’ennesimo lago salato. Secondo Eusebio di Alessandria, i Terapeuti sono “in modo chiaro ed ineccepibile i seguaci della nostra religione”, i loro testi santi “i Vangeli, gli scritti degli apostoli e forse alcune spiegazioni degli antichi profeti, come quelle presenti nella Lettera agli Ebrei e in molte altre lettere di Paolo”. Insomma, i Terapeuti sarebbero il primo avamposto dei ‘padri del deserto’: giudei convertiti di Alessandria, audaci nell’ascesi. Presso il lago di Tiberiade – o di Genesaret –, d’altronde, Gesù raduna i primi discepoli (Lc 5, 1 ss.), lì si manifesta dopo la morte (Gv 21, 1). Gesù sembra scaturire dal lago, sbadiglio d’Eden, impronta di Dio, frattura tra i regni. 

A differenza del mare, sconfinato, patria del Leviatano, emblema del caos, il lago è come l’uomo: circoscritto, cauto, in attesa, tra moribonde morgane e il morbo della verità, tra apparenza e consistenza, finzione e fatto. Nel lago ci si rispecchia, la sua pace, obliqua, nasconde un’inquietudine verde, abisso in cui giace il drago – fare apnea nel lago significa sprofondare in stadi di oscurità che disorienta. Il lago è specchio e tana del mistero, Narciso e mostro, alcova di un tempo primordiale, che va disserrato e sconfitto; o a cui vale la pena abbandonarsi.

Addestrato e pericoloso, vulcanico o inerte, il lago non è la controfigura misera dell’oceano, bensì un monito, memoria di quando erano gli dèi della terra, sanguinari, a dominare: è l’esito di una titanomachia, giro d’aiuto tesaurizzato in acqua, immobile pianto. Ibrido e anfibio dominano il lago, creature che varcano i due mondi, solido e liquefatto; le grate del canneto, la ninfea, il silenzio che prepara alla contemplazione o annuncia l’agguato. Il rospo sapiente, l’airone irrevocabile, la libellula, che pare il dito tatuato del vento. Sul lago ogni cosa è in bilico, anche la luce, indecisa, sul declivio di sciogliersi in pasta oscura, eclissi d’argento. Il lago concede fughe palustri, implausibili: l’altra riva è arida di salvezza, quanto questa, evanescente, il lago-cappio costringe, ovunque, a fare i conti con sé, con le proprie forze. Facile, sul lago, peluria di una tartaruga gigante, vedere chi vi cammina sopra: perfino le nuvole, feti d’angelo, hanno una solidità diversa, granitica, da radicarvi castelli, dicasteri nobili.

Al Sacro Monte di Ghiffa, nel bosco, a un belato dal lago, ho visto il Dio a tre volti, gemelli, triplice replica dell’Uno, sacra scissione, emergendone stordito. Un giorno qualcuno risucchierà il lago, espirando. Non è difficile immaginare il cervo sull’altare, una corsa di lupi scavati, scaraventati, d’inverno, tra quei templi. Di tutto si ha fame.   

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