La prendo larga. Angelo Borgese è di Catania, si è perfezionato a Urbino, abita in un piccolo paese, sopra Riccione. Da lì si vede il mare, ma la sua casa, donata all’Ovest, è inondata di piante. Angelo è un artista straordinario, con le mani sa fare ogni cosa: ha inciso un remo traendone un drago, ha scavato una lastra inventando un volto di donna, bellissimo, con la biro, su quaderni saturi di enigmi, disegna, ossessivamente, corpi che si intrecciano. La palma, il serpente, la donna e l’uomo sono alcuni elementi che ricorrono nella sua opera. Soprattutto, Angelo è uno scultore: dal legno al marmo al ferro, in ogni cosa questo uomo dalla barba arcaica scopre la levità, la levigatezza, la verticale. Ora una sua mostra è a Rimini, allo spazio Augeo; io lo ammiro perché con le mani non so fare niente. Forse il mio compito è conservarle vergini, le mani, restituirle al fattore, che le mozzerà e le darà a qualcun altro, con altri meriti, in un’altra vita. Ma non è questo, ora, il punto.
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Un giorno vado a trovare Angelo Borgese nella sua casa-studio. Mette un disco. Lo conosco. È un disco del 2013, registrato all’Arena di Verona. S’intitola Del suo veloce volo, cantano, intrecciandosi, Franco Battiato e Antony and the Johnsons. La voce di Antony Hegarty, che da cinque anni si chiama Anohni, arriva all’improvviso, fuori di me e dentro di me, come una piaga, una invasione di cavallette di cristallo. Quella voce mi toglie ogni voce. In particolare, per giorni, in diverse registrazioni – dal vivo, in studio – ascolto Hope There’s Someone, una delle canzoni più note di Antony/Anohni. La canzone è pubblica in un disco del 2005, I Am a Bird Now, e più o meno dice questo: “Spero che qualcuno/ si prenderà cura di me/ quando sarò morto/ spero che qualcuno/ renderà libero il mio cuore”. Un passo della canzone – “ho paura della zona di mezzo/ tra luce e nulla/ non voglio essere lasciato lì” – mi ricorda diverse tradizioni religiose: quando il cuore non è libero – da soli non si è liberi –, il morto, incatenato a ricordi e rancori, resta nella zona a metà tra il mondo dei vivi e quello degli andati. Mendica volti, vuole la vita, arde nel ghiaccio: è una specie di iena e di vampiro. Non esiste maledizione peggiore. La preghiera, in fondo, che ci esime dal pensare, ci benda, serve a scavare un tunnel felice tra questo mondo e l’altro: dobbiamo diventare fiume, vento. La canzone di Antony mi relega in questa zona: luce e nulla. Squarcia di gioia e aggioga a una nostalgia primaria, imprevista.
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Quando non capisci cosa accade, ti riempi di informazioni. Di Antony/Anohni leggo e consulto ogni cosa: ma ogni informazione non fa che esaltare l’inafferrabile, è in fondo inutile. Antony lo vorrei qui, seduto in sala, a cantare di continuo quella canzone che mi pone in un altro regno, che mi domina. Ci sono forme – scultoree, letterarie, artistiche – che non interpretano il mondo, lo rivelano. Dimostrano che l’asse terrestre coinvolge la nostra spina dorsale, che il tempo ha una geologia privata, che il sole può sorgere da una tazza. Ascolto altre canzoni, di Antony e di Anohni, percorro tutta la cenere dei nomi, ma tutto è secondario: non conta il testo, la composizione, l’armonia e l’arpa. Quella voce mi pare che esista da quando il cielo si è isolato dal mare, l’ho ascoltata quando Alessandro Magno implorava il Gange di affacciarsi alle sue ginocchia, quando l’aquila dona una dottrina ubiqua alla neve, l’ho ascoltata nei monasteri armeni, simili a carta, nei labirinti di una giungla indonesiana.
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Paradise, l’ultimo ep di Anohni, è del 2017. Dovrei telefonargli, o scrivergli, fare qualcosa insieme, non so. Una voce, una volta versata nelle orecchie, dà vita a una vegetazione, dentro, inestricabile. Forse è questo esercizio d’impossibile potatura, l’anima. Ho mani inutili – anche la lingua lo è, batte verbi in ottone, a vuoto. Riporto al fattore tutto, intatto, usurato dal disuso: ne sopporterò la colpa e la sua filiazione. Ma come dire ciò che tormenta? (d.b.)