Antonio Tonti non dorme mai, ha il viso sottile come un ago, l’ultima volta che lo sento è in Cappadocia, su una mongolfiera, a fare un servizio fotografico. Folgorato dalla bellezza di quei luoghi sacri dove si aggiravano, raspando Dio, Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, il Nazianzeno. Prima, però, Antonio si è cimentato in un vasto progetto inteso a censire la bellezza su Instagram. In sostanza, diverse donne hanno scelto il suo sguardo fotografico dopo aver capito che sui social non basta più il selfie da seminudi, ma la capacità analitica nel ritratto di un Boldini. Da lì, siamo scoscesi in una breve discussione su cosa significhi ‘mettersi in mostra’, o meglio – così il titolo del suo lavoro – “Mostrarsi al mondo”, come se si nasce solo quando siamo fotografati e pubblici. Il discorso si è avviato intorno al perché occorra svelare ciò che è segreto. La mia personale riflessione è tradotta qui.
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Ciò che oggi è mostrato, un tempo era adombrato, roso dalle ombre.
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Junichiro Tanizaki, scrittore dall’erotismo dirompente, in Libro d’ombra insegna che il desiderio c’è perché si vuole travolgere alla luce ciò che è in ombra. La carne lampeggia nell’oscurità: stare in piena luce significa morire al desiderio, bruciarsi.
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Che verità perfino banale: essere sempre ‘sotto le luci’ dei riflettori corrode il viso. Farsi vedere fino all’eccesso – dopo l’ovvietà del riconoscimento pubblico – vuol dire: mostrarsi fino all’odio. Ci vediamo nelle fotografie, nei post, nei video per non sopportarci – perché ogni uomo è al mondo per superare se stesso, per sconfinare dal proprio corpo. Non sopportiamo più la star – politica, da film o da web – che vediamo continuamente. Vogliamo vedere altro, è giusto.
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Nel Giappone medioevale, le donne erano custodite sotto elegantissimi kimono come il gheriglio nella noce, come il cuore del quarzo. Il kimono non mostra le forme, le confonde – sul kimono, di norma, erano raffigurati sontuosi leopardi, micidiali canneti, il volo a trapezio delle gru. Le donne di corte parlavano dietro imponenti paravento riccamente dipinti, dall’oscurità delle parole – spesso allusive, perché anche le parole sono piene di ombre – l’amante intuiva i lineamenti del viso, lo splendore delle labbra. Amare è una scoperta di cui il corpo, in fondo, è lo scarto. Nell’arte di sedurre, respingere è importante quanto accogliere, velare è più importante di spogliarsi.
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Jorge Luis Borges dedica un libro all’Elogio dell’ombra. Varcando echi di memorie, sfibrando l’enigma di eventi passati, il poeta arriva a se stesso.
Posso infine scordare. Giungo al centro,
alla mia chiave, all’algebra,
al mio specchio.
Presto saprò chi sono.
Ci si mostra perché qualcuno ci ustioni, ci riduca in cenere – e noi, fieramente, ora, possiamo inabissarci.
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Come tutti i poeti, Borges gioca con le ombre, solleva l’unghia dell’oscuro. Un libro analogo all’Elogio dell’ombra si intitola Storia della notte. La notte, si sa, è il luogo in cui ci si denuda – perché nessuno ci vede. Di notte siamo il nostro corpo ma anche il corpo del desiderio, il corpo dello scandalo. Borges dedica quel libro notturno “Per quella che Lei sarà; per quella che forse non capirò”. Vedere, in verità, è un’intenzione e una profezia. Io non voglio vedere quello che sei, ma ciò che di te non capirò mai: ecco l’amare.
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La bellezza è inspiegabile: non basta un bel viso, un viso deve essere un’ascia, un’accetta in mezzo allo sguardo. Un viso che è l’ombra di una morte passata, di qualcosa di remoto. Irène Jacob in Film rosso di Kieslowski, ad esempio – un viso non è radioso, non ha redenzione.
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Intendo: mostriamo ciò a cui non crediamo, mostriamo il pasto, ciò che altri mangeranno. La cosa preziosa va nascosta. Oppure: mostriamo tutto ciò che siamo, sfracellandoci.
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Anche Instagram, che sta a metà tra la passerella e lo zoo, tra chi vuole fare la modella e si riduce a carne da macello, macelleria di occhi, di sguardi, voluttuoso vituperio – d’altronde, tra il ‘red carpet’ e il tappeto metallico su cui trotta la bestia destinata a ridursi in barattolo, in quarto, la differenza è minima, quando ti guardo ti faccio a pezzi, un pezzo di te vive nel magazzino della mia immaginazione – cambia, muta fotogenia. Mostrare il quotidiano – la cruenta corrosione dei giorni – non funziona più. Oggi è necessario il professionista, il fotografo. Come nei salotti del tardo Ottocento, nelle aule parigine, la primizia del Novecento, ci si affidava a un Giovanni Boldini per ritrarre ciò che sfugge, così oggi ci si cela alla macchina, agli occhi di un altro: il selfie non serve, è una linguaccia.
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Un altro che ti guarda significa: uno che ti adombra. Uno che sceglie la quantità di ombra, che non può metterti in luce – decide le fasi della rivelazione. Il passaggio è fondamentale: capire che essere messa in luce vuol dire farsi accanire dall’ombra, lasciare all’enigma forza canina.
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In effetti, la sola cosa da mostrare è il mostro che ci agita, per mutare i denti in fiamme. Ma quello, perla della nostra anima, lo teniamo nascosto.
Davide Brullo
*In copertina: una fotografia di Antonio Tonti