Al momento del parto egli nacque tenendo in mano un grumo di sangue rappreso che assomigliava a un osso con cui i ragazzi giocano la sorte
Il bambino non aveva nome perché i bambini hanno la natura dell’erba – il nome, invece, come un chiodo di pietra, ti include in un destino, in un mondo, ti incardina nel tempo. Di lui, più tardi, scrissero che era nato con i pugni chiusi, che la madre, Höelün-üǰin, si era sgravata senza dolore, che nei pugni il bambino stringeva grumi di sangue uguali alle piccole ossa d’agnello che si usano per costruire i dadi, con cui si dirada la scelta e si gioca al futuro. Per quanto sterminate, anche le pianure sembrano una scacchiera, e anche lì, dove il vento erige labirinti, induce le donne alla pazzia e gli uomini a rubare le donne degli altri, il fato non fallisce, ha l’odore di un fanciullo.
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È nato mentre veniva catturato Temüǰin-Üge dei Tatari – e fu così che lo chiamarono, Temüǰin
La madre, Höelün-üǰin, era sulle rive dell’Onon, i pesci scintillavano nel fiume come ricordi, e lei era stata rapita da Yesügai-Bagatur, due anni prima. Yesügai-Bagatur discendeva da una importante stirpe di condottieri, aveva rivestito il cavallo con il mantello del nonno, Qabul Khan, su cui era dipinta la tigre bianca, e Höelün-üǰin, nonostante fosse sposata da poco, era felice che qualcuno la ritenesse così bella da sfidare la morte, da architettare la superba trama di un rapimento. Per tradizione, mentre Yesügai-Bagatur stringeva i suoi capelli al polso sinistro e i polsi di lei alla criniera del cavallo, la donna disse parole d’amore al marito sconfitto – in verità, era felice che il destino, che aveva i tanti nomi di troppi dèi che lei, per audacia, ripudiava, le avesse concesso l’avventura, la grazia del pericolo.
Yesügai-Bagatur era in guerra mentre lei era seduta presso l’Onon, dove due anni prima, più a valle, era stata rapita. Dicono fosse bellissima – che tra i Mongoli significa, capace di discernere l’avvenire dei figli e restaurare il marito alla sua virtù. Prima vide il sangue, e le bestie indietreggiavano, gli insetti a mezz’aria come un liquido, le capre, i tre cavalli – poi arrivò il bambino, che uscì da lei, zitta, e non voleva piangere e nessuna forma di tenerezza né di sincerità adombrava il momento. Altre donne, più tardi, castigate nell’invidia, sarebbero andate a raccogliere il sangue di Höelün-üǰin, carbonizzato sulle pietre: alcune, disincagliando le scaglie, le succhiavano, sperando di diventare ventre di re; altre leggevano congiure e sciagure, scongiuravano il vento – onnipossente divinità – di essere rapite o di morire, rapidamente.
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Ogni vita deve essere pareggiata da una morte, disse – denti di tigre ornavano i capelli sporchi, sul petto era tatuata la carta dell’al di là e copulava con gli spettri, dicevano. Un figlio senza nome non ha madre né famiglia né giustizia, gli rispose, lei, Höelün-üǰin, e più dura e durevole, dopo il dolore, era la sua bellezza. Da quando tuo figlio è nato, non muore nessuno, disse l’uomo, e il bambino acquista il nome di colui che muore, se è un lupo sarà un lupo, se è un albero sarà un albero. Dagli uno dei tuoi nomi, perché possa passare facilmente tra i morti, disse la donna – ed era una richiesta per cui uno sciamano ha facoltà di uccidere.
Mostrò di capire la forma taurina delle nuvole e a quale futuro alludessero e da chi erano spinte, l’uomo. Gli sciamani, lì, hanno un nome comune e almeno altri sette, ciascuno dei quali porta a un livello più profondo dell’al di là. “Spargere il nome tra i morti”, è detto. Lo sciamano, sulla soglia di un regno, dice il nome, e i morti, che hanno natura innocente, sbavano, si avventano su quel suono, lo mangiano, come fosse sangue.
L’uomo ripeté la formula contraria, toccando la lastra d’avorio con cui, molti anni prima, aveva comprato la moglie, e che rivedeva, ancora, nei suoi viaggi tra i morti, con una tenerezza più indomita – fu lo sfrecciare di una serpe, il colpo, a ucciderla. Donando la vita ottieni il permesso alla morte, disse. Höelün-üǰin sapeva anche quello – da due settimane nessuno moriva, i cacciatori avevano dimenticato l’abilità, il neonato non piangeva, fissava e ipnotizzava quel mondo. Così lei si slacciò e l’uomo di fronte al corpo nudo, di colpo, capì che l’avvenire è preferibile agli avi, che il giorno va sgrommato degli infimi grumi di nostalgia lasciati dai morti. Non la toccò, rivelandole il nome. Con questo potrà portarsi nell’al di là?, chiese lei, eretta, tutta. Con questo nome saprà passeggiare tra i morti quando tutti lo vorranno morto?
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Quando Yesügai-Bagatur, al ritorno, disse che il bambino era nato nello stesso giorno in cui aveva ucciso Temüǰin-Üge dei Tatari, gli fu dato quel nome, Temüǰin. Così il cuore di Temüǰin-Üge risorgerà nel cuore di mio figlio, vorrà vendicarsi, ti ucciderà, disse lei, Höelün-üǰin. Capirò se mio figlio saprà rispondere alla vendetta con l’obbedienza, disse Yesügai-Bagatur, poi portò il cavallo, che chiamava Radioso, al fiume. Il cavallo insieme all’acqua sembrava bere la luce e brucare, nei suoi occhi dilatati, le imprese a venire. Si dice che i cavalli, prima di vivere, abbiano già vissuto la loro vita, che sappiano ogni calamità e ogni vittoria. Yesügai-Bagatur non osava avvicinarsi al figlio, così avvolse la sua donna, Höelün-üǰin, la bella, con il mantello che apparteneva a Temüǰin-Üge, poi la prese, la dominò, ed era come se facesse l’amore con il nemico, ucciso da poco, e si riconciliasse con lui.
Il bambino nacque senza nome, sulla riva del fiume Onon e in dono ricevette un nome dallo sciamano e un nome dal padre: il primo nome era noto soltanto alla madre, il secondo divenne noto al mondo. Quando lo chiamarono Temüǰin, il bambino cominciò a piangere e il mondo tornò come era, dopo due settimane di sonno, di smarrimento.
Davide Brullo