Non partecipo più al gioco del mondo. Discorso intorno a “Perfect Days”
Cinema
Dejanira Bada
Così, senza desiderarlo, divenne un mito, l’arcangelo della poesia. Tutelò a lungo, nel pudore, lavorava nella redazione di Panorama e chi ha lavorato con lui – lo scrittore Roberto Barbolini, ad esempio – ne descrive l’aurea aerea gentilezza, l’opera, rosolata nel silenzio, fino allo stato di perfezione. E’ solitèri, così s’intitolava la prima raccolta di poesie in lingua romagnola, stampa Galeati di Imola, il poeta, ‘Lello’, è il 1976, ha 52 anni. Lo presero per un’apparizione, il roseto infuocato della lirica ritrovata: nel 1982 è Dante Isella a mettere la testa ne La nàiva, stampa Einaudi; nel 1988 è Franco Brevini a introdurre Furistír, che vince un contestato Viareggio; nel 1995 Pier Vincenzo Mengaldo, in vena di classifiche, dall’alto di Ad nòta (stampa Mondadori), scrisse, “se non restasse ancora vivo il pregiudizio pigro per il quale un poeta in dialetto è un ‘minore’, anche quando è maggiore, Raffaello Baldini sarebbe considerato da tutti quello che è, uno dei tre o quattro poeti più importanti d’Italia”. Il poeta che non diceva a nessuno – tranne che ai rari, beati amici di Santarcangelo di Romagna, dove il papà gestiva il Caffè Trieste, quelli di ‘E’ circal de’ giudéizi’, Tonino Guerra, Gianni Fucci, Flavio Nicolini, Rina Macrelli, insomma – che scriveva poesie, diventò il poeta più importante d’Italia. Ben più di Tonino Guerra – di cui è recente la sistemazione dell’opera per Bompani – ‘Lello’ Baldini è quello che ha dato al dialetto una statura di lingua alta, altra, dell’alterità, qualcosa che mescola – in impasto d’incanto – il motto popolare a Finnegans Wake, uno che ha portato gli sbandati esistenziali di Samuel Beckett nella provincia italiani, fatalista e grotesca. Diventò mito, Baldini – non c’è poeta serio che non l’abbia letto – e regionalissimo fenomeno pop – a teatro, mentre recitava i suoi sbilenchi, bianchi monologhi, La fondazione su tutti, il popolo sbraitava e godeva, frignava e ghignava. Fa in tempo a pubblicare un libro memorabile, Baldini, nel 2003, Intercity, con quelle domande voraci in mezzo alla cagnara consueta, “mo pu i è e’ paradéis?”, ma poi c’è il paradiso? Ora, Baldini è un mito giusto, retto: Ivano Marescotti ne interpreta da tempo i testi teatrali, Silvio Castiglioni, con genio filologico, ha tirato fuori dalla soffitta il primo libro di Baldini, Autotem (1967), pubblicato con insuccesso da Bompiani, uno scherzo intorno al feticcio dell’automobile; gli storici della letteratura hanno riesumato parte del repertorio giornalistico (Prima del dialetto, Raffaelli, 2016), un numero speciale de “Il parlar franco” gli è dedicato, convegni fioriscono. Eppure, quella di Baldini resta lirica discreta, per appassionati. Il tentativo della vulcanica Martina Biondi – che sul corpo poetico di Baldini lavora da un tot – e di un regista lirico e potente come Silvio Soldini – autore, tra gli altri, di Pane e tulipani, Brucio nel vento, Il comandante e la cicogna, Il colore nascosto delle cose – è quello, però, di fare di Baldini un ‘personaggio’, un emblema, forse un amuleto. Il film che gli è dedicato, Treno di parole, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, è un piccolo capolavoro di delicatezza. Un poeta, raccontato dagli amici – tra gli altri: Ermanno Cavazzoni, Daniele Benati, Vivian Lamarque, Franco Loi, Clelia Martignoni, Franco Loi… – e da azzeccati materiali d’archivio, che diventa film. Lo straordinario si gemella allo stralunato. Il lavoro di Soldini, così, assolve due compiti: riconciliare il cinema con la poesia e la grande scrittura (vale la pena sfiatare i nomi? Eccone alcuni: Pasolini, Zanzotto, Caproni, Guerra, Flaiano, Bertolucci… tutti a trafficare direttamente o meno con il grande schermo, con il grande show); rinnovare i rapporti tra l’editoria e i grandi poeti. Dopo la visione del film, in effetti, vale la pena snasare in ogni libreria del rione a cercare il poeta, magari leggere il tomo ‘nuovo di pacca’ edito da Quodlibet, Piccola antologia in lingua italiana, dove sono allineate alcune traduzioni in italiano – opera di Baldini – delle poesie romagnole di “uno dei migliori e più autentici poeti del Novecento” (così la dida esplicativa). Quando il fotografo e amico dei poeti Simone Casetta avrà realizzato il lavoro, immenso, di ‘compattare’ le moltissime registrazioni in cui ‘Lello’ legge le sue poesie, potremo parlare di Baldini renaissance. Esiste un Paradiso per i poeti, che per loro natura trafficano negli inferi di questa terra? Se c’è, Baldini fa San Pietro. (Davide Brullo)
Perché un film su un poeta, su un poeta anomalo come Baldini, poi, dialettale? Che forza ‘filmica’ ha il poeta?
Silvio Soldini: Baldini, di certo ne ha moltissima. È una sorta di Beckett in romagnolo, che coltivava in privato e senza sosta una poesia monologante, infinita, nella lingua dei nonni, ma piena delle angosce degli uomini di oggi: per il silenzio, per la morte. Ma anche piena di ironia, un mix esplosivo che lascia sempre il pubblico a bocca aperta. Un intellettuale timido, ma prorompente, con una verve irresistibile.
Martina Biondi: Quando l’ho letto per la prima volta, ho pensato subito che bisognasse portarlo oltre i confini della Romagna, dove è amatissimo. Per questo ho proposto a Soldini di dedicargli un film. Lui aveva già praticato il tema della poesia e dei poeti. A mio parere il suo linguaggio è perfetto per raccontare di Baldini: sono entrambi schivi, misurati. La forza evocativa del cinema spero faccia il resto.
Ritorno sulla estraneità sovrana del poeta al cinema. Che poi è falsa. Penso al sodalizio di Guerra e di Zanzotto con Fellini, a quello di Caproni con Pasolini, alla discendenza poetica di Bertolucci… Il poeta, in fondo, con un verso, ‘fotografa’ una scena in formidabili forme. È così, Soldini, o vado per margherite?
Soldini: Al di là del fatto che andare per margherite ha una sua bellezza e che se in generale la gente andasse di più “per margherite” staremmo forse tutti meglio, per quanto mi riguarda temo sia stata proprio la traccia lasciata del poeta nel cinema e nei film che ho visto da giovane ad attrarmi più di tutto. Spesso poeta è anche il regista dei film che mi hanno così affascinato allora. Fatto sta che senza la poesia di quelle immagini non so se avrei tentato la mia strada nel cinema. Come un verso è capace di far rivivere una scena di vita, così un’immagine, un’inquadratura, in un certo cinema può diventare lei stessa poesia. E quando questo avviene, per me è sempre una grande emozione.
Come mai “Treno di parole” e che obbiettivo ha il film? Insomma, faccio l’avvocato del diavolo, un poeta non dovrebbe essere… letto?
Biondi: Il film gira intorno alla parola, alla forza delle parole. Ci sono tanti testimoni che parlano e che restituiscono la figura del poeta secondo il proprio punto di vista. Poi, soprattutto, ci sono i monologhi infiniti: i ‘treni di parole’ della poesia di Baldini, come li ha definiti Luca Cesari proprio in una scena del documentario. Oggi purtroppo non si legge molto e la poesia si legge ancor meno. Questo film su Baldini, si spera, può far nascere la voglia di andare a cercare le sue poesie anche sulla carta stampata. È questa la grande scommessa!
Soldini: Per me l’obiettivo primo di questo film è sempre stato quello di far rivivere sullo schermo un poeta noto a pochissime persone – e farlo conoscere al resto del mondo. Destare grande curiosità, così grande da spingere la gente a entrare in una libreria e comprare le poesie di un grande poeta di cui non conosceva l’esistenza! Chissà se ci siamo riusciti…
Qual è la ‘lettura’ di Baldini, tra i tanti interlocutori che avete stanato, che più vi ha affascinato, perché?
Biondi: Ho conosciuto personalmente Baldini, ma abbiamo avuto modo di incontraci solo un paio di volte. Parlavamo soprattutto al telefono, quando cercava mio marito Simone Casetta, con cui ha fatto un grande lavoro di registrazione delle poesie lette da lui stesso. Ogni volta, al telefono, era come entrare in una sua poesia. Intervistare dopo molti anni, insieme a Silvio, tutte le persone che lo hanno conosciuto da vicino, mi ha dato modo di approfondire l’amicizia al punto tale che da un certo momento in poi mi è venuto spontaneo chiamarlo “Lello”, come facevano gli amici di vecchia data. Ogni testimone ha aggiunto qualcosa e molti di loro mi hanno emozionato perché ne hanno evocato la presenza viva. Mi colpisce sempre l’approccio di Ivano Marescotti, distante da Baldini per il modo di porsi: molto più sicuro, più diretto, con una comicità non sussurrata ma esplosiva (quando interpreta lui Baldini, il pubblico ride a crepapelle) eppure così capace di comprenderne l’opera, tanto da capire che era perfetta per essere portata sulla scena. Se non avesse avuto questa intuizione e non avesse stimolato Baldini a scrivere i pezzi teatrali, oggi non potremmo contare sui quattro meravigliosi monologhi. Una visione affascinate è quella di Lucia Vasini che, da ragazza, ha scambiato Baldini per un angelo. Anche quella di Ermanna Montanari, quando dice che i sui personaggi sono “battiti di farfalle”.
Qual è il testo di Baldini che vi ha segnato di più, che in qualche modo ha istruito e orientato la direzione del film?
Biondi: Non c’è un lavoro in particolare che ne abbia orientato la direzione. Ci siamo concentrati sulle testimonianze, sul materiale di archivio, le fotografie, i filmini 8 mm girati dallo stesso Baldini. Volevamo ricostruire la figura del poeta attraverso tanti sguardi. Il suo, trasmesso con grande precisione dalla sua stessa opera, è stato accolto nella sua totalità. Le poesie, i monologhi, gli stralci di spettacoli e di interviste al poeta emergono a tratti ispirando quel pot-pourri che Soldini ha composto con rara sensibilità.
Soldini: Non c’è un testo preciso, ma credo sia l’insieme del suo lavoro – pieno di musica, leggerezza e profondità – ad aver orientato lo stile del film. È un film che cerca la poesia ma senza rinunciare al ritmo, che si ferma ad ascoltare o che si lascia trascinare da un pezzo di Mozart, che osserva i paesaggi e i volti.