12 Luglio 2024

“Dante è un Big Bang e il suo libro è beato e indemoniato”. Antonio Moresco ci parla della “Vita nova”

È ancora possibile leggere Dante, incontrare Dante, come fosse una prima volta, nello slancio avventato e generoso, sfacciato e spudorato di un primo amore? Antonio Moresco in La Vita nova di Dante, per il Saggiatore, racconta la sua storia d’amore con l’opera del giovane Dante, un ‘sanguinoso diamante’ che nel corpo a corpo con la sua scrittura Moresco fa sanguinare ancora. Come ci si pone di fronte a Dante? Come ci si pone di fronte allo statuarizzato padre della letteratura italiana? Ridandogli il cuore inedito e palpitante di un figlio? Restituendogli l’ardimento e lo squilibrio e di un simile, di un fratello? E come ci si pone di fronte al cuore oscuro e desiderante della letteratura, di fronte al suo incubo d’amore, al suo sogno smisurato? L’avidità con cui le domande sono state poste è stata massima. Con smisurata generosità Moresco ha scritto le sue risposte. (a.c)   

Il ‘libro patologico’ di un esordiente “arrogante e timido” e il “libro-invenzione” del “più grande poeta italiano”: come riesce la Vita Nova di Dante a essere entrambe le cose?

Spogliato dei paramenti che gli sono stati messi addosso dopo, ridotto all’osso esistenziale e poetico e alla sua “scena primaria”, La vita nova è a mio parere quella cosa lì: è il libro patologico di un esordiente di genio arrogante e timido ed è un libro-invenzione dove il giovane autore inventa tutto (una controspinta culturale, un’attitudine esistenziale e spirituale, una lingua…) e inventa persino se stesso. Perché Dante, è un primitivo, ha la radicalità e la libertà del primitivo, è nello stesso tempo il più raffinato dei primitivi e il più primitivo dei raffinati. In questo drammatico e magico libro il giovane Dante ci racconta e ci mostra con una lingua mai vista prima il suo drammatico cozzo col mondo e con l’amore e ne esce sconfitto e vittorioso, assassinato e assassino. Come fa questo ragazzo medievale a essere entrambe le cose? Come fa questo libro a essere entrambe le cose? L’alchimia è proprio questa. Senza la patologia non ci sarebbe stata l’invenzione, senza l’invenzione la patologia non avrebbe generato nulla, senza la ferita non ci sarebbe stata la perla.

Moresco canta Dante, e gliele canta. Dante geniale, Dante lussurioso, Dante capace di “esorbitare e a traboccare al di fuori del calco culturale”, Dante ossesso fino al crimine. Un Dante liberato dalle pratiche di “raffreddamento e mineralizzazione culturale della vita e del mondo” con cui si tenta di neutralizzarlo, di neutralizzare anche lui?

Mi sembra evidente che, per maneggiare Dante, per maneggiare un simile materiale radioattivo, abbiano dovuto raffreddarlo e ingabbiarlo. A volte il modo culturale svolge proprio questa triste mansione, compie il lavoro degli artificieri che disinnescano gli ordigni piuttosto che quello di coloro che in segreto ne preparano di nuovi. Ma poi… non so se ho capito la parte finale della tua domanda… Comunque sia, come posso negare di avere vissuto, in qualche piega della mia mente, momenti di identificazione personale con Dante? Perché anch’io ho sostenuto il cozzo, ho vissuto lo scarto con il mondo culturale del mio tempo, e lo sto vivendo ancora. Ne ho un esempio fresco con il mio ultimo romanzo (Canto del buio e della luce), che è stato accolto da un quasi totale e assordante silenzio (rotto solo da poche coraggiose voci che si contano sulle dita di una mano), come se non fosse successo niente, come se non ponesse delle questioni esplosive e non lo facesse con una diversità lancinante sia nella forma che nel contenuto. Ma si può dire questo? Un autore può ancora dire una cosa simile, o ci si aspetta da lui che esibisca un contegno civilizzato, rassegnato e obbediente nei confronti della dittatura culturale soft che ci circonda, che assegna ormai alla letteratura solo un ruolo di intrattenimento mortuario?

Il giovane Dante raccontato e incontrato in La vita nova di Dante non ha ancora detto tutto. Durante uno degli sfioramenti al di là del tempo e dello spazio che avvengono all’interno del libro tramite il portale della letteratura, Dante dice: “La vostra sapienza è ben poca cosa se serve solo a impoverire le vostre vite”. Così giovane e già così Minosse?

Ma sì, a che cosa serve la sapienza della letteratura, se non porta perturbamento, lacerazione, passaggio?

La Vita nova di Dante è un libro doppio: c’è Moresco che racconta di Dante che scrive la Vita Nova, poi subito a seguire c’è la Vita nova, il testo originale. Ed è anche un libro del doppio, però. Formalmente, poiché è scritto in prosa e poesia, perché è il racconto di un racconto, e tematicamente, poiché si compone di amore e morte, corpo e anima, “trauma e trascendenza”. È un libro coabitato dai vivi e dai morti. È un libro impossessato? Più beato o più indemoniato?

Tutte e due le cose, è nello stesso tempo beato e indemoniato e frutto di una possessione, ha dentro di sé il demonio e l’angelo, che si combattono a vista. E un libro doppio, nello stesso tempo reticente e sincero fino allo spasimo, ingenuo e sapiente, disarmato e armato, raffinato e brutale, primitivo e ultimativo, è un libro che fonda e che sfonda, che sfonda e che fonda, perché la fondazione è una lacerazione, uno strappo… ma potrei andare avanti per molto a elencare i suoi drammatici e fervidi contrasti interni, che ne fanno un’opera così rivoluzionaria e così fondativa. 

I personaggi all’interno del libro si sdoppiano, secondo la lezione di Dante che è stato il primo ad aver dato questo movimento alla sua inventiva. Dante diventa un doppio di Antonio Moresco o forse è più corretto dire che è Antonio Moresco a diventare un doppio di Dante, un riverbero dell’esplosione creativa dantesca che ha attraversato i secoli. La letteratura inventata da Dante non è ancora separata, è “il big bang” della letteratura, luce e tenebre in Dante sono un tutt’uno. Quanto di questo Dante Antonio Moresco ha fatto il suo Virgilio.

Sì, Dante è un big bang, e il big bang possiamo interpretarlo in due modi. Come una cosa che è avvenuta una volta per tutte e che non potrà mai più avvenire, oppure come una cosa che può ripetersi, così come l’universo si contrae e si espande, come i movimenti di sistole e diastole del nostro cuore. Non esiste un percorso prevedibile e lineare degli avvenimenti umani, ci sono anche gli strappi, i crepacci, i salti, il contrarsi, il caricarsi e poi l’esplodere… Così anche nella letteratura, come in qualsiasi altra attività umana. Qualcuno ogni tanto rompe, riapre i giochi, poi si procede su quella strada, si impara, si arriva a poco a poco a un affinamento sempre maggiore, che poi porta a una corruzione, come dice Leopardi, e allora bisogna che qualcuno riapra di nuovo i giochi, riporti lacerazione. Io non lo so chi sono, non sta a me dire chi sono e chi è il mio Virgilio. Certo, dentro di me la lezione di Dante è ancora viva e perenne, come quella di Cervantes, di Melville, di Dostoevskij, di Kafka…

Questo libro doppio è anche triplo: contiene una prefazione. Nella prefazione Moresco ragiona su una lettera scritta da Van Gogh a suo fratello Theo, a proposito del ritratto di Dante per mano di Giotto. Van Gogh gli riconosce nell’espressione “qualcosa di infinitamente buono e tenero.” Insorge Moresco: “Dante era buono?”. A uso postfazione, rilancio la domanda: Dante, questo “bambino di Dostoevskij che piange nella notte” sottoposto alla dischernevole vista della donna che lo ossessiona e lo snobba, che scrive la sua mirabile visione sfidandone il tremuoto, che ci conduce nella sua ‘selva mentale oscura’, nella città dolente diggià, era buono? E Moresco, che nel Canto del buio e della luce non si vuole né consolatore né disperatore, è buono lui?

C’è da dire che Giotto, a differenza di altri pittori (Botticelli, Raffaello…) che ne hanno fatto celebri ritratti mentali, molto tempo dopo la sua morte e senza averlo conosciuto, l’ha probabilmente conosciuto di persona e visto da vicino, e quindi il suo ritratto ha un enorme valore conoscitivo, è prezioso, fa venire i brividi.  In quel ritratto Dante ha i lineamenti che Boccaccio gli attribuisce nel Trattatello in laude di Dante (naso aquilino, labbro inferiore che sporge, prognatismo…) ma, secondo Van Gogh, dietro la sua espressione malinconica e assorta aleggerebbe sul suo volto qualcosa di buono e tenero. Io, che non riesco a cogliere questi aspetti nel ritratto di Giotto, non posso che rimanere colpito e turbato da questa intuizione, visto che proviene da un osservatore radicale come Van Gogh. Certo, nei volti di Giotto c’è una componente di stilizzazione, ma pur in questa stilizzazione il volto di Dante conserva una sua diversa e particolare fisionomia, e io cerco di immaginare come dovesse essere, spogliato di questa stilizzazione, e colgo invece in questo ritratto qualcosa di perturbante: l’espressione è altera e addirittura sprezzante, lo sguardo è tagliente, in tralice, sembra addirittura un po’ strabico. Io non so se Dante era veramente buono e neppure cosa vuol dire essere buoni, buoni e basta. Qualcuno ha affermato (credo che fosse addirittura – sorprendentemente – Nietzsche) che la bontà è la forma suprema dell’intelligenza. E questa affermazione spiazza il modo che noi abbiamo di intendere la bontà, confondendola con la facile postura pietistica e buonista. Quanto a me, accidenti che domanda difficile! Ma cercherò di rispondere. Sì, credo di essere buono, terribilmente buono e terribilmente delicato, però devo avere dentro di me una ferita, un dolore e un trauma così profondi che si possono trasformare in ferocia, in furore. Me ne sono accorto mentre scrivevo Canti del caos e non capivo come mai uscisse da me una simile violenza dell’immaginazione. Tutto questo succede proprio perché sono buono, se no avrei il pelo sullo stomaco, sarei cinico e protetto, e questo dolore non mi tornerebbe indietro in modo così lancinante sulla pagina, con tutta quella disperazione, quella furia, travolgendo e sconvolgendo ogni cosa e, prima che ogni altro, me stesso.

*L’intervista è a cura di antonio coda

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