“Sono nata il 23 giugno 1889, nei pressi di Odessa…”, scrive Anna Andreevna Achmatova – pseudonimo che, secondo Iosif Brodskij, fedele discepolo, fu “il suo primo verso di successo… con quella successione di A che la ponevano sotto il patrocinio della storia e del sentimento” – in una nota, Di me in breve, scritta di getto, nel 1965, sulla soglia della morte. L’anno prima aveva ricevuto l’Etna-Taorimina, folgorando Mario Luzi – “Anna Achmatova non pronunciò una sola parola, partecipò con il suo silenzio alla sua celebrazione e alla mia. La sua figura matronale vestita di nero era assorta in sé, immobile, ma non assente. Quel mutismo trascendeva la sua persona e arrivava come il grido pietrificato di una storia tragica: la sua e quella del suo popolo e di tutta l’umanità straziata dall’arbitrio e dalla violenza di un’epoca fatale” –; nel giugno di quell’anno, a Oxford, aveva ricevuto una laurea honoris causa, incontrando per l’ultima volta l’ultimo amante, Isaiah Berlin. Si erano visti nel 1945, lei aveva “tratti bellissimi, un po’ severi, un’espressione di infinita tristezza”. A differenza di Boris Pasternak, Anna non eccelleva nell’arte biografica: non le importava. Costantemente ispirata, le mani parevano sonetti, agiva in versi: secondo i ricordi del marito, si circondava di amici per impedirsi di scrivere.
Il padre, Andrej Antonovič Gorenko, “era ingegnere-meccanico della flotta, collocato a riposo”; lo pseudonimo risultò espediente necessario: una figlia di nobili natali avrebbe dato scandalo dandosi alle poesie d’amore. La parentesi ucraina fu un lampo: Anna passa l’infanzia a Carskoe Selo, fuori San Pietroburgo, tra le residenze imperiali, in una “magnificenza verde”. “Nacqui nello stesso anno in cui vennero al mondo Charlie Chaplin e, sembra, Eliot [che nasce, in realtà, nel 1888, ndr], fu pubblicata La sonata a Kreuzer di Tolstoj, fu completata la torre Eiffel… Nella notte della mia nascita, si festeggiava e si festeggia l’antica notte di S. Giovanni”. Era ossessionata dalle betulle: “Ricordarle mi agita. Qualcosa di terribile, di tragico, come l’altare di Pergamo, grandioso e irripetibile. E sembra che debbano esserci i corvi”.
L’Ucraina, nella vita di Anna Achmatova, appare sempre come un colpo d’ascia, una rottura ombelicale, una cesura. Dopo la separazione dei genitori, nel 1905, disfatta l’era magica delle infanzie, Anna si trasferisce in Crimea, a Eupatoria. Da lì, si sposta a Kiev, dove termina gli studi e si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. La sua bellezza, registrata dalla storia dell’arte – gli schizzi di Modigliani, quasi tutti inghiottiti durante la Seconda guerra; il supremo ritratto di Natan Al’tman, del 1914 –, abbagliava; era statuaria, selvatica, dal naso aristocratico, “le furono attribuiti molti amanti… per quei sospetti e per quelle chiacchiere ebbe sempre un fastidio ‘pirandelliano’; non tollerava che il suo personaggio divenisse prigioniero di una leggenda meschina e pettegola” (Sergio Romano). Aleksandr Blok, tra i tanti, le dedicò una poesia che ne esaltava il fascino, fatale, contraddittorio: “Non sono né terribile né semplice;/ Non sono terribile da uccidere/ Semplicemente; né tanto semplice/ Da non sapere che la vita è terribile”.
Giocava con la poesia da quando aveva “undici anni”, dice lei, ma è da Kiev, nel 1907, che acconsente alla pubblicazione dei primi versi, firmati “A.G.”: Nikolaj Gumilëv li stampa sulla sua rivista, “Sirius”, edita a Parigi. Proprio quell’anno, il 2 febbraio, da Kiev, Anna scrive al marito della sorella, il poeta e traduttore Sergej V. von Štejn, per confessargli il grande mutamento: “Sposerò un amico di gioventù, Nikolaj S. Gumilëv. Mi ama da tre anni ormai e credo sia mio destino essere sua moglie. Non so se io lo ami, ma mi sembra di sì”. La civetteria sembra speculare all’assedio che le ha teso il poeta. Gumilëv amava come si preda una fiera – glorificati da molti reportage saranno i suoi safari in Africa –: nel 1905, visto che Anna lo ignorava, s’impegnò a suicidarsi. La storia con Gumilëv coincide con gli anni folgoranti di Anna – la poesia, di inattuale successo (nel 1912 esce la prima raccolta, La sera), l’acmeismo, i viaggi a Parigi e in Italia, il sodalizio con Osip Mandel’štam… – cui seguirà il delirio del dolore. Anna e Gumilëv divorziano nel 1918; il poeta viene fucilato nel 1921 con l’accusa, consueta, di “attività controrivoluzionaria”; il figlio dei due, Lev, viene reiteratamente arrestato dal 1935: il peso del cognome insospettisce, le nobili ascendenze pure; riabilitato dopo la morte di Stalin, sarà etnologo e antropologo: varrebbe la pena leggerlo (le sue posizioni sull’Eurasiatismo sono ribadite e ribaltate da Aleksandr Dugin, per dire).
In una Biografia immaginaria abbozzata nel 1910 – raccolta in Io sono la vostra voce…, Edizioni Studio Tesi, 1990 – la Achmatova marca la sua nascita ucraina, quasi un sigillo: “Carskoe, d’inverno, la Crimea (dacia di Tur) – d’estate, ma non è possibile convincere di questo nessuno, perché tutti mi considerano ucraina. Prima di tutto, in quanto il cognome paterno è Gorenko; in secondo luogo perché sono nata a Odessa e ho terminato il ginnasio Fundukleev; terzo e soprattutto, perché N.S. Gumilëv scrisse:
Dalla città di Kiev,
dall’antro di Zmiev
non una moglie ho preso,
ma una strega…”.
A proposito della poesia della Achmatova, che pure non gli è congeniale, Angelo Maria Ripellino scrive di una “parsimonia espressiva che si riflette nella concisione delle immagini, composte con una grafia delicata che fa pensare ai segni della pittura giapponese”. Per intenderci, questo è un testo della primissima Achmatova, sorto dalla culla ucraina:
Il cuscino è già caldo dai due lati
e già la seconda candela
si spegne; il grido delle cornacchie
si fa sempre più forte.
Non ho dormito questa notte,
ed è tardi pensare al sonno…
Come intollerabilmente bianca
è la tenda sulla bianca finestra.
Buon giorno!
Sarà Arsenij Tarkovskij, il padre di Andrej, il regista, nel marzo del 1966, a tenere un discorso sul corpo morto di Anna Achmatova, presso l’obitorio dell’Ospedale Botkin, a Mosca; scorterà la salma in aereo, fino all’allora Leningrado. Le città, allora, cambiavano nome in virtù di un principio, e i poeti morivano dentro mitologie equivalenti all’oblio. “Era così bella in gioventù! Poi ingrassò molto, ma rimase così intelligente e affascinante!”, scrive, irriguardoso esegeta, Tarkovskij. Anna amava le poesie di Tarkovskij, “un dono inatteso e prezioso al lettore contemporaneo”; Tarkovskij era stato l’ultimo amante di Marina Cvetaeva. Iosif Brodskij, che si riteneva l’erede lirico della Achmatova, non sopportava l’estro di Tarkovskij. Anna, che del poeta custodiva il druidico lignaggio, era al di là di ogni diatriba, la riteneva una miseria.
Lidja Čukovskaja, che ha raccolto le straordinarie memorie dei suoi Incontri con Anna Achmatova (in Italia: Adelphi, 1990), blocca il poeta – come voleva che la si chiamasse – in uno sketch esemplare, è il 1939: “Anna Andreevna ha attraversato la strada reggendosi alla mia manica, sussultando di continuo e gettando sguardi in ogni direzione, benché la strada fosse quasi deserta. È arrivato il suo tram… Con il vecchio impermeabile, il vecchio, ridicolo cappello che somiglia a un berretto da bambino, le scarpe scalcagnate – elegante, il viso splendido, la grigia frangia spettinata. Un tram come tanti. Persone come tante. E nessuno si è accorto che era proprio lei”. Sembra un ritratto tirato lì per lì, sotto l’acquazzone, da Franz Kafka.
Slanciata in un austero pudore – “Non ho mai amato vedere i miei versi stampati… mi sembrava una cosa sconveniente, come se avessi dimenticato sul tavolo una calza o un reggiseno…” – la Achmatova aveva un’indole arcaica, una violenta fermezza. Amava l’epopea di Gilgameš – “Conoscete Gilgameš? No? È straordinario. Ancora più bello dell’Iliade” –, il suo pseudonimo appartiene a un’arcadia di guerrieri. Anna preferì appropriarsi del patronimico della bisnonna, “Achmatov”: risaliva al condottiero mongolo Achmat, khan della Grande Orda dal 1465. Aveva tentato di conquistare il Granducato di Mosca, “un sicario russo uccise una notte nella sua tenda il mio avo, e così ebbe fine nella Rus’ il giogo mongolo”, racconta Anna. Pare che dell’antica eredità del khan fosse rimasta la corona, scomposta e suddivisa in diversi anelli, spartiti tra i parenti diretti. Uno di questi, “con smeraldo”, faceva parte del corredo della nonna della Achmatova e passò alla nipote: “non potei calzarlo, sebbene abbia dita sottili”. Le sue poesie d’amore, infine, sono un veleno, una vendetta miniata.