Quando si sono incontrati, in una libreria di Milano, la prima cosa che Andrea gli ha chiesto è stata la lista delle sue canzoni preferite. E Daniel, l’ex bullo protagonista di Ero un bullo di Andrea Franzoso (DeAgostini), gli ha passato una sfilza di brani rap. Da Mondo Marcio a Guè Pequeno, Marracash, Jake la Furia e i Club Dogo… È a partire dalla musica che Andrea si è messo in ascolto di Daniel per scriverne la storia, entrando in punta di piedi nella sua vita.
Daniel Zaccaro vive a Quarto Oggiaro, periferia nord di Milano, un’infanzia nei cortili delle case popolari. In casa pochi soldi, e i genitori che non fanno che litigare. Ama il calcio e in campo è il più forte, tanto che a dieci anni gioca coi pulcini dell’Inter. Suo padre nutre aspettative esagerate su di lui, e quando il figlio viene scartato, lo umilia pesantemente: “Non vali niente”. A scuola diventa un bullo temuto da tutti e inizia a collezionare piccoli furti, biciclette e motorini, poi passa, con un amico, a rapinare le banche. Il bullo di Quarto Oggiaro sogna di diventare come Renato Vallanzasca, il boss della mala milanese degli anni Settanta, o come Totò Riina, uno che “si è fatto da sé”. Due giorni prima dei suoi diciotto anni Daniel finisce al Beccaria, il carcere minorile di Milano.
È considerato un ragazzo perduto, irrecuperabile. E subisce diversi trasferimenti in altri istituti penitenziari a causa della sua cattiva condotta. Poi, all’improvviso, la svolta. Avviene quando Daniel, per la prima volta, incontra degli adulti credibili, “che hanno meritato il mio rispetto”: un brigadiere della penitenziaria, Antonino Stara; una professoressa di lettere in pensione che faceva la volontaria in carcere, Fiorella; e, soprattutto, don Claudio Burgio, il cappellano del Beccaria e fondatore della comunità Kayrós, che accoglie i “ragazzi difficili”. Ma nel libro c’è un’intera comunità educante che ha saputo andare oltre l’etichetta, al “personaggio” che Daniel si era cucito addosso fino a diventarne prigioniero. Educatrici e psicologhe che gli hanno dato fiducia e a cui Daniel si affida, accettando addirittura di rinunciare alla liberazione anticipata per poter proseguire il progetto rieducativo. Supportato anche dal suo avvocato, che lo incoraggia a raccontare tutta la verità ai giudici. “Perché è la verità che ti renderà libero. Non mi importa di farti uscire dal carcere, oggi, col rischio che domani tu ci finisca di nuovo. Io voglio portarti fuori dal circuito criminale una volta per tutte”. Oggi Daniel si è laureato e fa l’educatore.
Ero un bullo è un romanzo biografico, di formazione. Che lezione possono ricavarne, gli adolescenti? chiedo all’autore. «Se proprio vogliamo trarne una lezione, questa è soprattutto per gli adulti», risponde Andrea Franzoso. «Non è un caso che Daniel abbia deciso di cambiare strada quando ha incontrato degli adulti coerenti e autorevoli. Purtroppo, oggi i ragazzi faticano a trovare dei modelli positivi nel mondo adulto, percepito come ipocrita e distante. Gli adulti sono perlopiù fragili, assenti e inadeguati. E la scuola, per molte famiglie, è un parcheggio per i figli. Molti genitori sono interessati soltanto al pezzo di carta, al diploma. Nonostante ci siano ancora tanti bravi maestri e professori, eroici resistenti, la figura dell’insegnante è svilita. La scuola è soffocata dalle scartoffie, da una burocrazia assurda che serve soltanto a scaricare la responsabilità, da circolari, troppi progettini inutili, programmazioni e riunioni a gogo. Infestata da acronimi che sembrano usciti da un romanzo distopico – Dad, Ddi, Pon, Dsga… – e da una odiosa distorsione della lingua mutuata dal burocratese. Già chiamare la scuola media “scuola secondaria di secondo grado”, o il cortile “area cortilizia”, come ho letto su un cartello piazzato in un istituto, lo trovo ridicolo almeno quanto l’espressione “collaboratori scolastici” al posto di bidelli. Una parola, quest’ultima, che taluni erroneamente ritengono umiliante, ignorandone l’origine etimologica, dal franco bidal, “messaggero”. Insomma, la scuola può andare a rotoli, ma le carte devono essere a posto. Anche soltanto per evitare un ricorso al TAR. Certo, talvolta li comprendo pure, i presidi – ops, i “dirigenti scolastici” –, che rischiano di ritrovarsi inquisiti persino se un alunno si schiaccia il dito in una porta. Più che alla conoscenza, oggi si punta alla “competenza”. Ma così i ragazzi perdono il sapere, il gusto, la meraviglia, e resta l’insipida istruzione, la tecnica. Per non parlare dell’alternanza scuola-lavoro: un inutile spreco di tempo. A scuola, piuttosto, si dovrebbero leggere i classici, la grande letteratura, mettere in scena le tragedie greche, fare teatro: occorre formare l’uomo prima che il lavoratore-consumatore funzionale all’economia di mercato».
Che caratteristiche hanno, per contro, gli adulti credibili incontrati da Daniel?
«Il brigadiere Stara è uno che si assume le proprie responsabilità, che educa i ragazzi al lavoro ben fatto. Fiorella, la volontaria, ha un’autentica passione per l’insegnamento. Mi ha colpito una scena che mi ha descritto raccontandomi di Daniel. In carcere Fiorella organizzava un cineforum, a cui Daniel partecipava assiduamente. Finché non fu trasferito in un altro raggio. Fiorella andò a trovarlo. “Cosa avete visto oggi? – le chiese lui – Uno dei tuoi soliti film lenti e noiosi che ti piacciono tanto?”. Lei ci rimase di sasso: “Se li trovavi così noiosi, perché allora venivi sempre a guardarli?”. La risposta di Daniel fu spiazzante: “Mi piaceva osservare te mentre li seguivi: eri così concentrata che alla fine mi facevo prendere anch’io. Si vedeva che ti appassionavano, e allora mi sforzavo di trovare un senso…”. È grazie a Fiorella che Daniel riprende gli studi. “Daniel, arriverà un momento nella tua vita in cui sarai così in difficoltà da non poterne uscire. Non saranno i soldi a salvarti, ma il sapere”».
E oggi, di che cosa soffrono gli adolescenti, quelli delle baby gang e delle risse finite sui giornali?
«Il male che li corrode si chiama insignificanza, non sanno trovare un senso all’esistenza, un orizzonte, una prospettiva. Questa società dell’apparenza, del successo a ogni costo, che ha demolito ogni valore, lascia un vuoto incolmabile. L’individualismo e la competizione hanno reso l’uomo più solo, sciogliendo i vincoli di solidarietà e rendendo precari non solo i lavori, ma anche gli affetti. I ragazzi non trovano punti d’appoggio solidi, i loro bisogni e i loro desideri restano inascoltati, il futuro è incerto, e allora, schiacciati sul presente, cercano accettazione e riconoscimento attraverso gli oggetti, i brand, i like. La rabbia e la frustrazione aumentano, e gli adolescenti non trovano nemmeno le parole esprimere il proprio disagio e la sofferenza. Senza le parole, e dunque senza le idee, quello che rimane è la violenza, perché dalle pulsioni passano direttamente alle azioni: non c’è pensiero, riflessione, creatività. La povertà lessicale dei nostri ragazzi – aggravata dal dilagare dei social – è un problema serio, anche di ordine sociale».
In Ero un bullo c’è un capitolo intitolato “La parole che non ho”, in cui Franzoso racconta le difficoltà di Daniel a dare voce al proprio vissuto interiore. “Ogni tanto il suo discorso sembrava incepparsi: gli mancavano le parole. Daniel si rese conto che il suo linguaggio non riusciva a descrivere appieno ciò che sentiva. E allora procedeva per continue approssimazioni, oppure ricorreva a qualche esempio, mai del tutto congruo, o ai versi delle canzoni che amava”. In carcere Daniel ha trovato salvezza nei libri. Divorava soprattutto le biografie: attraverso le vite degli altri cercava di decifrare la propria. “In ogni libro ritrovava qualcosa di sé: magari nella descrizione di una scena simile a qualcosa che aveva vissuto o in un aspetto del carattere di un personaggio. Ancora una volta per dare un nome a ciò che sentiva dentro di sé aveva bisogno delle parole degli altri. E così leggeva per orientarsi, per trovare l’uscita dal labirinto in cui si sentiva imprigionato”. Mentre leggeva, e imparava nuove parole, riuscendo a dare un nome ai propri demoni, sentiva la rabbia defluire.
Era un bullo con la sua storia forte, spietata, autentica, può essere un libro salvifico. «Daniel avrebbe potuto dichiararsi vittima della propria storia, di quel suo passato cha stava per distruggerlo, e in tal modo autoassolversi dei propri errori e reati. E invece se ne è assunto sino in fondo la responsabilità, trasformando la sua storia in uno strumento potentissimo a servizio degli altri. Mostrando che non esiste un copione già scritto. Fino all’ultimo possiamo decidere di cambiarne il finale».
Linda Terziroli