L’esilio come dannazione e, nel mentre, grazia sublime. Lo “stare fuori”, lontano dalla propria terra come atto volontario, decisione radicale, postura estrema. Una scelta che non richiede necessariamente movimento fisico, esteriore, potendosi compiere in foro interno, come metanoia, “cambiamento di cuore”. Questa è l’immagine evocata dal filosofo francese Alain de Benoist nel suo volume più intimo, vero e proprio testamento spirituale, L’esilio interiore, di recente pubblicazione, in Italia, per i tipi dell’editore Bietti, nella raffinata traduzione di Andrea Scarabelli.
I pensieri raccolti da de Benoist, perle lucenti e ingombranti, radunate attorno a un filo sottile ma ben riconoscibile, lumeggiano da numerosi, quasi infiniti, punti di vista l’ossessione che funge da motore immobile alla sua elegante e lucida prosa, fulgore di un paradossale cartesianesimo anti-illuminista, aristocraticamente francese: l’esilio al contempo subito e perseguito nella propria interiorità.
Come non pensare, evocando l’immaginario di due fra gli autori più amati dal nostro, allo jüngeriano “passaggio al bosco” e all’“apolitia metafisica” evoliana?
La durezza germanica cesellata nel Waldgänger e la stoica, olimpica, tragica affermazione di Cavalcare la tigre suggeriscono tuttavia paesaggi emotivi non del tutto coincidenti con l’immaginario a tratti nostalgico, lirico e romantico lumeggiato da de Benoist. La condizione di esiliato è da lui sperimentata, infatti, in una permanente conflittuale tensione: da un lato la ribellione eticamente e politicamente belligerante contro lo status quo – il Moloch della “Forma-Capitale”, da cui è bene “esiliarsi” interiormente ma non esteriormente, proseguendo la lotta politica ma rimanendo eticamente integerrimi –; dall’altro lato, la sensibilità spirituale attratta dal “ritorno a casa”, a quella sola, autentica Heimat incorrotta che non pare darsi nelle tempeste della storia ma ardere soltanto nella bellezza dell’eterno, sottratta all’inclemenza del tempo.
“La nostalgia, stato d’animo permanente. A sedici anni, ero nostalgico di epoche che non avevo conosciuto. Più tardi, sono stato nostalgico di quelle che ho conosciuto ma che non esistono più. Oggi, sono nostalgico del futuro che mai conoscerò”.
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L’esilio – nota Giuseppe Del Ninno nell’introduzione al volume – è uno dei temi privilegiati nella letteratura di ogni tempo: si pensi all’Ovidio protagonista di Dio è nato in esilio, romanzo di Vintilă Horia, a sua volta esule dalla Romania di Ceaușescu. Come spiegare questa ricorsività? Forse, con un’altra tensione dialettica che abita il cuore di tanti scrittori, artisti, intellettuali: quella fra il legame identitario con la propria patria (politica o ideale che sia) e la spinta esistenziale verso la verità (comunque essa sia intesa). Così, animi sensibili sono stati esuli politici (fedeli alla propria verità e, pertanto, allontanati dalla loro patria) o, al contrario, esuli “filosofici” (rimasti in patria ma tormentati dalla verità, impraticabile nella sua semplice durezza). Un’altra forma, forse, dell’atavico dissidio fra teoria e prassi.
In de Benoist il “Nuovo Inizio” auspicato sulla scia del magistero di Martin Heidegger appare pertanto, in chiave personale, come l’auspicio esistenziale di una rifondazione di senso in cui l’esilio, e politico e filosofico, possa ricomporsi in una rinnovata concordanza fra verità e appartenenza politico-comunitaria. Ma quando l’auspicio è formulato, ecco che il deus adveniens appena mostratosi da lontano muove tragicamente i suoi passi alati verso una meta ulteriore. Le sue tracce tornano a perdersi. Il suo profilo luminoso si occulta, di nuovo, nell’ombra.
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Tempi di riflessione sull’esilio, quelli che stiamo vivendo. Il volume di de Benoist esce in Italia alla fine del 2024. Annus horribilis. Né più né meno degli ultimi, in verità, ma all’orrore ci stiamo abituando – e questo, davvero, è orribile.
Nel novembre 2024 Giorgio Agamben dedica una riflessione della sua celebre e discussa rubrica “Una voce” al tema L’esule e il cittadino. L’argomentazione, nel suo stile, è acuminata e paradossale (in senso quasi evangelico): esilio significa, da un punto di vista giuridico tradizionale (romano e medioevale), esclusione dalla comunità politica.
“Se lo si volesse configurare come un diritto, cosa che in realtà non è, l’esilio verrebbe a definirsi come un paradossale diritto di porsi fuori dal diritto. In questa prospettiva, l’esule entra in una zona di indistinzione rispetto al sovrano, che, decidendo dello stato di eccezione, può sospendere la legge, è, come l’esule, insieme dentro e fuori l’ordinamento”.
Ecco che questa dannazione, che ha i tratti della pena ma anche della via di fuga, può diventare un’arma per il cittadino: quando, come accade oggi, il potere politico cede il passo a quello economico e tecnocratico, l’“esilio interno” può essere rivendicato – da dannazione assurge a scelta attiva, decisione propositiva.
“È solo in questa comunità degli esuli, sparsa nella massa informe dei cittadini, che qualcosa come una nuova esperienza politica può qui ed ora diventare possibile”.
L’esilio interiore di de Benoist e l’esilio interno di Agamben. Apolitici, impolitici, metapolitici? Due solitudini che si incontrano nel vigore di quel “symphilosopheîn” che, ci rammenta il pessimista Manlio Sgalambro, è capace di favorire il distacco dalla brama di vita, creando comunità “altre” – una sorta di “comunismo metafisico”.
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Nelle riflessioni, de Benoist tratta di filosofia, letteratura, politica, religione, storia, società – persino di amore. L’autore cesella punti di vista, teorie, dottrine, posizionamenti, riflessioni critiche, esperienze. Idee perlopiù accorte, argute e ingegnose, in cui lo stile aforistico riempie di pathos alcune delle più celebri argomentazioni del filosofo, estesamente approfondite in altri fra i numerosi libri della sua immensa produzione. Ma tutte queste idee, inesorabilmente, diventano carne viva proprio nel tragico contrasto con la condizione esistenziale da cui, fin dal titolo e dall’esergo di Edgar Quinet, la riflessione si muove.
Ecco che i pensieri ruminati e la cultura sfoggiata assumono una franchezza diversa. E la lotta, nonostante tutto, prosegue.
“L’uomo è un erede, ma ciò che eredita non è un passato, quanto la capacità di plasmare l’avvenire”.
E quindi, anche l’esule, che è pure un po’ gnostico (“Tenuto conto della nostra estraneità al mondo così com’è diventato, oggi siamo tutti condannati a diventare gnostici”) si rimette caparbio in cerca del deus adveniens.
“Essere capaci di volere l’itinerario goethiano, dall’impegno alla presa di distanza. Senza agitarsi. (…) Convincersi che il rifiuto della potenza conferisca un altro tipo di potenza. Sapere che è la distanza a permettere di tornare, a un altro livello, a ciò da cui ci si era distaccati. Convincersi, infine, che si domina il tempo solo ponendosi al di sopra di esso”.
Ecco il breviario per l’esule del nuovo millennio. Incompleto, tuttavia, finché non giunga la lapidaria, conclusiva formulazione:
“L’impero interiore cresce man mano che crollano gli imperi esteriori”.
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Nicolás Gómez Dávila, il “Nietzsche di Bogotà”, sommo aforista conservatore, ebbe a notare che “la verità è nella storia, ma la storia non è la verità” (Tra poche parole). Da questa osservazione, riflesso di uno scarto ontologico radicale, emerge una condizione di esilio non politica ma metafisica: siamo tutti, ex necessitate, esiliati nella storia e in cerca di una verità che la trascenda. Ma, letta in senso opposto e complementare, questa consapevolezza valorizza la storia e nega qualsivoglia opzione anticosmista e manichea: è solo nella storia che, a noi uomini, è dato di accostarci alla verità. “L’essere – aggiunge a tal proposito Dávila – trasuda da tutti i pori del mondo” (In margine a un testo implicito).
Forse questa intuizione, colta da colui il quale, da cattolico, si definì “più che cristiano, un pagano che crede in Cristo”, non dispiacerebbe a de Benoist.
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Rileva il filosofo francese:
“Avere delle idee, o aderirvi, non è troppo complicato. Basta un po’ di fortuna e qualche lettura decisiva. Ma riuscire a pensare e vivere secondo le idee che si ha è più raro”.
Ancora una volta, una lacerazione. Un conflitto intimo. Polemos infinito che alimenta una metafisica dell’esilio per nulla incapacitante, idonea piuttosto a mettere in moto, sempre e di nuovo, il pensiero. Ecco che il “da pensare” della realtà promana dall’eternità inscritta nei misteri cifrati del tempo. L’esule interiore ne scorge le tracce, orme di una bellezza inaudita.
“Il filosofo non è altro che la fiamma che lo brucia”
N.G. Dávila, In margine a un testo implicito
Luca Siniscalco
*In copertina: Károly Ferenczy, Triplo ritratto, 1911