Nel 1962 Stanley Kubrick esce con Lolita, l’indimenticabile, e la BBC rincorre Vladimir Nabokov “a Zermatt, dove mi trovavo quell’estate per dedicarmi alle farfalle”. La prima domanda dei baldi intervistatori – Peter Duval-Smith e Christopher Burstall – è di spiazzante ingenuità: Tornerebbe in Russia? Nabokov, al solito, è violento: “Non ci tornerò mai, per il semplice motivo che tutta la Russia di cui ho bisogno è sempre qui con me: la letteratura, la lingua, la mia infanzia russa. Non ci tornerò mai. Non mi arrenderò mai. D’altronde, l’ombra grottesca di uno Stato di polizia non sarà cancellata entro l’arco della mia vita”.
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Nella mia torbida immaginazione, Vladimir Nabokov è un insondabile immortale, uno che non è mai stato minimamente toccato dai problemi che toccano noi miseri mortali. Che idiota. “Stiamo morendo lentamente di fame e nessuno se ne cura”, scrive Nabokov a un cugino di Parigi, nel 1937. Tre anni prima, a Berlino, era nato il figlio Dmitri. Il mercato editoriale americano – che pagava bene – lo snobbava: “decisamente abbagliante”, lo giudicavano, chiedendogli qualcosa di più simile a Sinclair Lewis e a Upton Sinclair, di più ‘realista’, “e non c’è nulla che mi abbatta di più dei romanzi politici e della letteratura ‘sociale’”, rispondeva lui, povero in canna.
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Rewind. Esattamente un secolo fa Vladimir Nabokov, era la prima primavera del 1919, lascia per sempre la madre Russia. Aveva vent’anni. La vicenda è rievocata in una articolessa di Stacy Schiff, Vladimir Nabokov, Literary Refugee, pubblicata sul New York Times. Giornalista, aristocratico, parlamentare e già Ministro della giustizia per lo zar, il papà di Nabokov, Vladimir Dmitrievich, era in cima alla lista dei funzionari che avrebbero dovuto essere eliminati dai bolscevichi. Per questo, la famiglia Nabokov emigra in Crimea, nel dominio dei Bianchi. Anche da lì, tuttavia, dovettero partire, sotto la pressione del terrore ‘rosso’. “I Nabokov si affollano su una nave da carico greca, lorda. Invasa dai profughi, Costantinopoli li respinge. Per giorni si trascinano su un mare agitato, mangiano biscotti per cani, dormono per terra. Quando compie 20 anni, Nabokov sbarca ad Atene”.
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Dalla Grecia, si parte per l’Inghilterra. Nabokov, “perfettamente trilingue”, si iscrive a Cambridge, mentre i genitori, a cui si unirà dopo la laurea, proseguono per Berlino, terra promessa dei russi in fuga. A Berlino, come si sa, Nabokov incontra Vera Slonim, che sposa nel 1925, russa di ceppo ebraico, sfollata lì dall’Ucraina. Oltre all’amore, a Berlino Nabokov sperimenta la morte: il padre, mentre tiene un convegno su “L’America e la restaurazione della Russia”, viene assassinato da un sicario di estrema destra. È il 28 marzo del 1922. In una scena da romanzo torbido, quindici anni dopo, Nabokov deve passare dall’assassino di suo padre, Vasilij Biskupskij, uno dei finanziatori e simpatizzanti di Hitler, ora a capo del Dipartimento per l’emigrazione, per avere il permesso di lasciare la Germania per la Francia.
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In questa nube di anni – in cui, per altro, in russo, Nabokov scrive romanzi miliari e bellissimi come La difesa di Luzin, Il dono, Invito a una decapitazione – Vladimir traduce in russo Alice nel Paese delle meraviglie, offre lezioni di inglese, di tennis e di pugilato – come se fosse una trinità consustanziale, questa – e fatica a vivere. Apolidi, orfani di identità, i Nabokov, Vera, Vladimir e Dmitri, pensano di trasferirsi in UK, in India, in Sud Africa, mentre l’orizzonte partorisce guerra. L’opzione americana è del tutto casuale: “un’organizzazione americana per i rifugiati gli propone una serie di letture su argomenti del tutto ‘metafisici’. Nabokov accetta. L’organizzazione provvede a predisporre i visti. Ma i Nabokov non possono permettersi il viaggio. Per quello, intervengono altre due associazioni di carità. ‘Credo di poter fare bene in questo paese’, assicura così Nabokov i mecenati dell’American Committee for Christian Refugees”.
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Negli Stati Uniti, Nabokov cominciò a scrivere libri impeccabili in lingua inglese, pur continuando a ripetere che “la mia tragedia privata è stata dover abbandonare il mio idioma naturale, la mia lingua russa, ricca, fieramente docile e senza fronzoli per un gergo inglese di seconda mano”. Restò alieno dalla vita politica, detestava ogni forma di coercizione – “di destra o di sinistra, terrestre o celeste, bianca, grigia, nera, rosa, rossa o viola” – certo, per altro, che le ideologie abbiano valore di vento. “Mi sono sempre meravigliato della lineare eleganza di certe soluzioni: ardenti stalinisti che si trasformano in innocui socialisti, socialisti che trovano nel conservatorismo un porto sicuro per il loro tramonto, e così via. Deve essere, presumo, un fenomeno abbastanza simile alla conversione religiosa, della quale so ben poco. Riesco a spiegarmi la popolarità di Dio solo con il terrore di un ateo”. Nel 1962, in effetti, quando Lolita diventa un fenomeno ‘popolare’ e Nabokov pubblica il suo romanzo più complesso, Fuoco pallido, è già altrove, lontano dagli Stati Uniti, in Svizzera, a Montreaux, ostinatamente inafferrabile, decisamente russo. (d.b.)
*In copertina: la Immigrant Identification Card di Vladimir Nabokov, datata 22 ottobre 1940