– dunque, nascere, è proprio necessario –
paurosamente. E sentiva ruotare
la bolla d’acquanera. E da una luce
sconosciuta, oltre il dedalo, richiami.
Come se fosse già tempo di andare,
lasciando lo zigote, il tepidario.
Questi i primi versi di Pietro Cimatti che mi hanno lasciata senza respiro in una giornata di pioggia a Bologna, immobile alla bancarella dei libri usati. A lettura già iniziata vado a scorrere la breve nota biografica e scopro che è nato a Forlì nel 1929, mia stessa città, “ma subito dopo la guerra è sbarcato fortunosamente a Roma, dove si è cimentato in molti mestieri e ha cambiato molti indirizzi prima di stabilirsi, provvisoriamente, in via della Polveriera”.
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Avvicinarsi a un poeta è sempre un rischio, è sempre pericoloso, bisogna stare davanti ai versi completamente nudi, bisogna essere capaci di farci segnare il corpo dalle parole. Aprirsi ai versi di Pietro Cimatti equivale a entrare in una foresta, non importa quanto ci impegniamo a scansare i rovi, ci sarà sempre qualche ramo a renderci lo schiaffo dopo il nostro passaggio. Sono versi questi di Cimatti che non possono lasciarci indifferenti, illesi. La poesia, se è tale, ti cambia la vita, ti ribalta la visione, ti fa girare la testa. “Raccontami qualcosa che dia chiaro/ nella sera che già cade e mi oscura.”, “Un silenzio di sibili serali,/ un odore di fumo: viene l’uomo/che non sono, non sono chi lo chiama.”, “Forse c’è una ferita che mi butta/ sotto la giacca, forse la mia vita/ è tutta in questo inchiostro che si secca”.
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Cimatti è ferocemente umano, le sue poesie non hanno pietà per nessuno e il ritmo è intenso, non ti lascia scampo, non puoi permetterti di scappare. Questo è un poeta che si deve leggere fino in fondo, non si possono fare pause nella lettura. I testi sono tagli continui, veloci come il trottare di un cervo spaventato nel bosco. In questo “Stanze sulla polveriera” trovate sangue e uomo, dei e fango, rabbia e dolore, dolcezza e perdono. La poesia di Pietro Cimatti è capace di passare da un tono tipico dell’invettiva al lamento disperato, all’ultima richiesta di aiuto di un uomo che sa che deve morire. Nascita e morte per Pietro sono due atti uniti, sono movimenti di creazione, riguardano la carne e il sangue, l’ossigeno che entra e poi ci abbandona.
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“Nel camminare e sciogliersi degli anni/ sono stato abitato dagli dei/ – se posso dirlo, se non posso dirlo./ Mi fermeranno quando sarò pieno/ di voci come il Colosseo di polvere:/ uscirà da cento occhi il loro sole/ – abiterò, per poco, nel sereno”. Scrivere non è un atto che proviene dall’io, dall’ego, scrivere è un dono perché chi scrive è abitato dagli dei. La poesia quindi è un fatto sacro, riguarda l’accoglienza: si scrive perché si accolgono nelle nostre corde vocali tante voci, si cerca di dargli un unico suono per trovare una pace, anche se poco, abitare il sereno. Pietro Cimatti è pieno di voci, è un’abitazione antica che ha accolto tutti i suoni che lì sono accaduti, li porta alla luce, cerca di dargli forma di parola.
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I testi di Cimatti hanno anche il carattere della sentenza: nascosta da un’accurata musicalità, da un lavoro altissimo sulla parola e sul suono, ci sono versi che sono ghigliottine, tagliano il tuo asse portante e ci metti qualche secondo per capire come è successo, torni indietro e rileggi tutto da capo. Cimatti non ha pietà per nessuno, non ha pietà per sé stesso e nemmeno per il lettore: “Mi dico addio, a te non potrò dirlo./ Sei forte come chi tradisce. Il golgota/ conosco, calda camera d’albergo./ Ma questo ho seminato e ora raccolgo.” (…) “Sei forte come chi non ama, il golgota/ puoi offrirmi in una camera d’albergo./ Ma questo ho seminato, che raccolgo./ Perché ti ho amato come chi si dona,/ ti ho chiesto eternità come chi muore,/ mi hai dato verità come chi uccide”.
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Pietro Cimatti scrive quello che pensa in una verità assoluta, verticale e che acceca. Queste poesie sono un ottimo strumento di analisi, o rispondi o ammutolisci. Cimatti ti chiede che cosa sai fare, quanto sai essere uomo e umano insieme, quanto riesci a vivere nella verità. Non sono poesie per deboli, se quindi volete poesie da leggere la sera per farvi cullare lasciate stare questo libro di Cimatti, lui è un uomo che domanda e che vuole risposta. Dopo la lettura di questo libro sarete disorientati, passerete da una stanza all’altra chiedendovi chi siete e che senso ha ciò che fate, dove sta il vostro sangue. Nel testo “In poeti riuniti a Scanno” Cimatti riporta la domanda che ci esaurisce “Quali prospettive per la poesia contemporanea?” e risponde senza sottrarsi al censimento “Dunque, non siamo utili, più che mai necessari,/ né cancellati né iscritti nell’albo dei mestieri/ e dei doveri, del bene e del male,/ siamo assolutamente superflui e totalmente/ ridicoli e magnificamente irrisorii,/ invendibili, incomprabili, fuoriusciti, fuori”.
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Il titolo della seconda sezione, “Antologia del quotidiano ingiallito”, mantiene la sua promessa: Pietro Cimatti ci porta nel quotidiano, in un quotidiano però stirato dal presente. L’autore è aderente alle cose e allo stesso tempo tenta di porre una distanza, prova a rendere obliqua la verità usando ad esempio la mitologia come scudo, come mezzo. Cimatti però non ce la fa, a questo tentativo fallisce, si dice la verità, dirla obliqua non è una soluzione. E allora “Prometeo non mi è strano – / e la rupe è domestica. Dell’aquila/ so il battito, l’accosto rituale./ Dopo i primi anni è un passero –/ e Prometeo non grida più, la rupe/ è il lavoro sicuro. A questa roccia/ di vimini in giardino viene l’aquila/ ma non è poi temibile: il telefono,/ la scheda perforata, lo scadere” (…) “Prometeo è qui, dopo il coito interrotto,/ antichi calendari gli rinnovano/ l’aquila cieca, squilla nel telefono/ un debito di lebbra: pagherò/ a dio la colpa di avere creduto/ (e, guarda, siamo neri come preti)”.
Clery Celeste
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L’USCITA DAL TEPIDARIO
– dunque, nascere, è proprio necessario –
paurosamente. E sentiva ruotare
la bolla d’acquanera. E da una luce
sconosciuta, oltre il dedalo, richiami.
Come se fosse già tempo di andare,
lasciando lo zigote, il tepidario.
– da questa sfera mai dissigillata,
carico d’ombra, a farti vita, vai,
è fuori chi ti aiuta e chi ti stritola.
Qui è come dopo. –
– dove? – già staccato,
nell’utero succhiante, giù la testa.
– tu sei già nato. Io resto, – lo zigote.
e si contrasse, come addormentato.
– pesce abissale, ti fulminerà
la luce appena esplosa. Sarà vita
quel più cieco terrore, o cuore vuoto, o
bocca nell’acqua, sarà una ferita
senza memoria. Perché sei già nato,
addio. –
E non seppe – prima che a un bagliore
di suoni lacerati, o mani vuote,
scoppiassero gli orecchi, e già un oblio
l’anneriva – perché senza zigote
nasceva. E fu scuoiato del calore,
costretto, solo, come è necessario.
E l’altro era lontano, il tepidario,
oltre la nascita. Urlò come era atteso,
giù la testa, col cuore spaccato,
e la memoria lo dimenticò,
annegò nell’ossigeno spietato.
– pesce abissale, ti fulminerà
la luce appena accesa. Sarà vita
questo cieco terrore, o cuore atteso, o
bocca senz’acqua. Perché sei già nato.
Sei libero. Zigote. Sono libero
Pietro Cimatti