“Esistono spiriti liberi e coraggiosi a cui piacerebbe non ammettere che hanno un’anima a pezzi, tracotante, incurabile. A volte, impazzire è un travestimento, per chi ha certezze troppo infelicemente sicure”.
L’ultimo libro di Christian Bobin s’intitola Le murmure ed è dedicato a Lydie Dattas, poetessa di cupo talento, compagna dell’ultimo tratto di esistenza, “attraverso le sfere”. Se sommiamo la dedica all’esergo – “Niente è tutto/ ciò che so” – traiamo l’idea di un testo sapienziale, il talamo astronomico dove tutti gli enigmi sono svelati. La via del niente – cioè: del tutto – porta attraverso le sfere celesti. Il libro come mappa stellare, parola ultima per l’inginocchiatoio cielo.
Sapienza che passa, tuttavia, per mormorii, sapere murmure – appena un sussurro, fruscio di lingua. Lingua come fogliame: vale la pretesa dell’ardere – la foglia: virgulto della candela.
Il mormorio: chiede il lettore che sappia riconoscere i suoni, artigliare conchiglie alleate, monili da installare in collana. Insediamento di mormorii: una colonia di suoni pressappoco simili agli alberi che sbracciano, al cigolio della campana, al rumore dell’insetto. Basta un mormorio perché la nave prenda il via.
La sapienza di Bobin, come sempre, è cosa da poco: la vita, a colpi di rasoio. Staccare pezzi di pelle alla vita, pellicine. Mormorio di lame. Metti nel paniere quel poco di vita – il sangue caglierà in latte – il dolore sfumerà in gioia.
L’ultimo libro di Christian Bobin uscirà in febbraio, per Gallimard, qui ne traduciamo alcune schegge. Morto nel novembre del 2022, Bobin ha scritto tantissimo, dal 1977, da Lettre pourpre. I suoi libri sono così brevi che ti si squagliano in mano – ha nobilitato la banalità, ha messo in cima all’umile la corona del re.
Poeta accessibile – che non vuol dire accogliente – Bobin ha una lunga tradizione editoriale in Italia: da quasi quarant’anni lo traducono San Paolo, Qiqajon, Servitium, Gribaudi, dando al suo dire la cronaca di un cristianesimo bianco, a tu-per-tu, che ha il candore del primo giorno. Piuttosto: Bobin accalca il nitore del lebbroso, la sapienza dell’insipiente.
Da qualche anno, è la casa AnimaMundi a custodire i piccoli libri di Bobin, da tenere in tasca sempre, sono libri-acciarini, acciaio che si muta in furetto. Un buon modo per capire Bobin, allora, è leggere il dialogo che il poeta francese ha tenuto con Giuseppe Conoci, ora pubblico come Illumina ciò che ami senza toccarne l’ombra. Tra l’altro, Bobin dice alcune cose che ricalco:
“Quando scrivo libri, mi trovo quasi in uno stato di scrittura sonnambula, cieca. Non so quel che faccio, non so quel che dico, ma sono spinto, sono come abitato da qualcosa. E mi piacerebbe essere sempre così”.
“Per scrivere qualcosa che valga la pena, per creare qualcosa che stia in piedi, per creare qualcosa che sia vivo, devo lottare contro tutto ciò che so e tutto ciò che credo di conoscere”.
“Bisogna solo cercare la vita. Questo è tutto. È come un’ombra chiarissima che cerchi di afferrare con la mano, nell’erba. È un animaletto minuscolo che corre nell’erba: tu cerchi di vederlo e se lo catturi muore nella tua mano. Non bisogna catturarlo, bisogna solo vederlo, vedere di che colore è, vedere come sono i suoi occhi, e poi lasciarlo andare, lasciarlo fuggire via”.
A leggerlo, Bobin si direbbe un estatico – una specie di francescano flâneur. Il rischio è quello di crederlo innocuo. Invece, è la lotta – la caccia – il tema dominante di Bobin. Perché lo scritto accada, qualcosa deve sanguinare – qualche cosa deve essere sottratto dal suo stato di veglia, alla vigilia del sonno. Scrittura: perenne vigilia.
La lotta ritorna con prepotenza nell’ultimo libro: l’emblema si muta in autentico conflitto, cordame del respiro. Così la ‘quarta’:
“‘I poeti muoiono in battaglia anche quando muoiono in un letto. Combattono battaglie per tutta la vita’. Perseguitato dall’idea della morte fin dai suoi primi scritti, Christian Bobin scommette sulla salvezza attraverso la poesia, ponendo la sua vita ‘sotto una pioggia di lettere nere e bianche’… Iniziato a Le Creusot nel luglio del 2022 e proseguito nel letto d’ospedale, nei due mesi che precedono la sua morte, accaduta il 23 novembre del 2022, Le murmure appartiene alle rare opere scritte in condizioni estreme. In questo libro ultimo, il più umano dei poeti si rivela anche il più eroico. In ospedale, l’uomo la cui risata esplosiva aveva lo stigma della sfida, realizza alla lettera le parole di Rimbaud, ‘Io sono della razza di quelli che cantano nel supplizio’”.
Piantare un canto nel dolore – morire e mutare cantando. Anche la casa si apre per ospitare lo sciame di versi; parole con l’elsa e lo scudo, parole giunte dopo la tonsura. La lotta è la fede.
La montagna si inclina per un secondo. Nessuna delle sue pietre ne sorride. Se cerchi una ricompensa per ciò che fai, lavare i piatti o suonare Chopin, allora, piuttosto, non fare nulla: hai fallito in anticipo sull’assoluto capolavoro dei piatti, i polmoni degli angeli. Chopin è respiro per angeli asmatici, gli ipersensibili che si sono incipriati di terra dalla nascita alla morte – perché gli angeli nascono e muoiono come Buddha, come le tartarughe, come noi. Vado vagando. Se cerchi applausi, resta a letto: almeno, spera di tramutare il sonno in un capolavoro sconosciuto.
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La montagna-Sokolov, a fine concerto, si inchina una sola volta, come a dire: non ho merito alcuno. Ho perso un’ora e mezza. È una gloria segreta, che mi ha concesso il vostro silenzio, di cui vi sono grato. Sono il santo gobbo dei pianisti. Santo cielo, non c’è davvero nulla di cui vantarsi. Sparire gettandosi tra le fiamme dei fiori o tra le braccia dei morti è inaudito lusso. Un’ora e mezza fuori dal mondo, i cui bastioni stanno bruciando.
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Intollerabilmente bello ciò che si allontana. Il suono del pianoforte, velluto nero dell’abbandono, che sboccia nell’agonia di ciascuna nota. Qualcuno se ne va, ci lascia, abbellito dalla fuga. Non lo faremo più soffrire con le nostre parole, i nostri progetti, le nostre ultime volontà.
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Avete ragione a torturare i santi perfino nel cortile della scuola. La loro gioia è insopportabile. Lei, poi, supera tutti gli altri.
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Ieri sera ho sentito una voce che mi diceva: “Quest’anno vivrai come un benestante. Converserai con re, regine, dèi”. Ho pensato che un angelo mi annunciasse la morte.
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Scrivo a testa bassa, ascolto me stesso. Nel silenzio di Solokov costruisco una città in riva al mare, in autunno, quando il sole riposa dai suoi ammiratori.
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Una regina di bellezza, eletta ai tempi della Rivoluzione, sepolta nel vecchio cimitero di Vézelay, scuote al vento i suoi capelli divenuti erba selvaggia, le ossa sono braccialetti. La sua polvere sogna.
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Piccola miliardaria brezza delle libellule.
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Le donne sono carovaniere di fascino. Anche il sole seducono. Pazienza se l’ultimo carico di questa carovana ospita la Regina Malinconia, costretta a letto. Ciò non impedisce al cuore e alle mani di ballare.
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Una sonata di Schubert è una piccola bestia selvaggia presa in trappola che tira, tira il collare che gli fa rosso il corpo. Non capisco nulla della sua musica. Quando non la capisco, mi piace. Mi sembra che Schubert abbia inventato una musica più vasta della vita…
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Ho solo questo cuore per varcare la vita, nient’altro che questa valigia da rifugiato in cuoio rosso, serrata dalla nascita.