Che rettitudine è implicita nella tutela del proprio sguardo? Come si fa a essere nel mondo senza essere del mondo? Qual è l’istante in cui il tempo ci preda, ci ha presi e perduti, s’infila come un piccolo moscerino nell’iride, fino a corromperci? Davvero, è possibile, è vero, il poeta può restare innocente mentre tutto crolla?
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Che patti si stringono tra arte e potere?, ecco la domanda. Come può un uomo restare autentico nell’agone del potere? Come puoi poetare all’interno del potere? Mi accorgo di questo, ad esempio. Le oscillazioni di fronte a un complimento. Da una parte hai bisogno della conferma – rischi la pazzia, altrimenti, perché il potere del linguaggio è la distorsione – ma quando accade, ne sei sedotto e sconfitto. Credi di essere bravo – credi che quella parola sia davvero tua – credi di saper creare qualcosa di autonomo, di autentico, di proprio. Quando si dice, ‘ti sei perduto’, l’errore è di prospettiva – tu non ti perdi, ti perdi quando pensi di essere qualcosa, quando ti recinti nella tua vacua personalità. Sei perduto quando perdi la necessità di essere per gli altri, di perderti per l’altrui. Se ti perdi, ti salvi.
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Per garantire una disciplina ferrea ai propri occhi e al proprio cuore, bisogna rinunciare a tutto – che ogni poesia sia sorgiva, nuova, ingiudicata, ingiudicabile.
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Quando ho messo testa nei grandiosi poeti russi del Novecento, mi ha sorpreso l’opera di Nikolaj Tichonov. Questo poeta, a me del tutto sconosciuto, era posseduto da versi magnifici, magmatici. Questo è l’esordio de L’uomo del Nord, ad esempio:
Essi credevano che la gioia fosse un uccello,
e la gioia batteva la sua grande ala,
si torceva sotto i piedi come una volpe nera,
si levava in cespugli, si stendeva come ghiaccio.
Naturalmente, ciò che ho letto di Tichonov è tradotto da Angelo Maria Ripellino, che a questo poeta dedica una lauta porzione nell’antologia epocale Poesia russa del Novecento. Un’altra poesia inizia così, sentite il rombo, il suono possente e compassionevole: “Disimparammo a fare l’elemosina,/ a respirare sul mare l’altezza salmastra,/ a incontrare l’aurora e a comprare negli spacci/ con rifiuti di rame l’oro dei limoni”. Mi parve un poeta non meno grande di Majakovskij o di Esenin, ben più noti. Allora, come sempre, partii a razzo nella razzia, a razzolare nelle vite altrui.
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In una nota dell’Enciclopedia Treccani del 1938 si dice che Tichonov “canta la guerra, la morte e la terra, con scarsa partecipazione personale, ma con molta penetrazione nel mettere in rilievo i valori primordiali della vita” e che è “legato ad altri poeti contemporanei, quali Gumilëv, Majakovskij, Pasternak”. Insomma, Tichonov è tra i grandi poeti russi degli anni Venti, intorno alla Rivoluzione russa. Come romanziere, per altro, la sua qualità è celebre, scrive “in uno stile vigoroso e pittoresco, che fa pensare a Kipling”.
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Ripellino parla di Tichonov in questo modo: “Il suo mondo poetico, tutto costruito sui motivi del rischio e dell’audacia, è pervaso di virile ottimismo, di amore per le cose semplici della terra. I versi hanno un piglio festoso e i paesaggi e gli oggetti ne balzano fuori come una scioltezza inattesa, con una densità raggiante”.
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Nikolaj Tichonov ha combattuto tra gli ussari, nel 1914, è nato nel 1896 a Pietroburgo, credeva nella Rivoluzione. Nel 1922 pubblica due libri di versi memorabili, L’orda e L’idromele: il 1922 è un anno decisivo per la poesia russa, Boris Pasternak pubblica Mia sorella, la vita; Anna Achmatova esce con Anno Domini MCMXXI; Osip Mandel’stam con Tristia; Sergej Esenin con Pugacëv; Marina Cvetaeva con Il distacco. Se di tutti gli altri poeti, in Italia, abbiamo delle raccolte, devotamente onorate, di Tichonov c’è nulla. Nel 1944 un “libraio editore” romano pubblica Le cose che non muoiono, racconto; quest’anno Res Gestae edita il romanzo-reportage L’assedio di Leningrado. Delle sue poesie neanche l’ombra.
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La colpa di Tichonov è quella di essere diventato il poeta ufficiale della Russia sovietica: ha venduto l’anima al partito, ha sparito il proprio talento lirico in favore dell’ideologia, s’è fatto linguacciuto servo del potere. “Dal 1944 al 1946 fu presidente dell’Unione degli scrittori sovietici. Ha ottenuto più volte il premio Stalin”, ci ricorda Ripellino, che poi affonda la lama nel cuore del problema: “…le ultime cose di Tichonov, oggi troppo distratto dalle ricompense, dalle decorazioni, dai premi, dagli incarichi ufficiali, hanno perduto la calda vivezza che animava le prime raccolte”.
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Quando Tichonov pensa che la poesia possa essere utile alle sorti sovietiche, muore come poeta: l’utile della poesia è nella sua fragrante inutilità, puntiglio di farfalle, sfarfallio di pretese e di ululati. Così muore, stretto tra le spire del partito, uno dei grandi poeti di Russia.
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Tichonov è deputato del Soviet Supremo dell’Urss dalla seconda alla nona legislatura, cioè dal 1946 al 1979. Il poeta come megafono di parte, di partito: ma è possibile conservare l’innocenza nei pertugi del potere? Possibile l’integrità mentre tutto si disintegra? Tichonov muore l’8 febbraio del 1979, il giorno della mia nascita. Se Tichonov raffigura il genio poetico corrotto dall’affarismo politico, penso che la sua vita sia un monito. A me, prima di tutto.
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Nel 1921, quando Tichonov è ancora tra i più pimpanti dei poeti ‘della Rivoluzione’, Evgenij Zamjatin, lo scrittore di Noi, in un articolo intitolato Ho paura, scrive: “Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici”.
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Ad ogni modo, mi pare una follia non tradurre un poeta così vigoroso, così alto come Tichonov – il contrappasso del poeta pluridecorato dallo Stato è l’oblio.
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Avere il coraggio di ritrarsi, di filare l’urlo nella propria stanza, di affilare il sorriso per i potentati ma tenere i denti soltanto per sé – essere per il mondo, non più del mondo – accordare il verbo in devozione all’albero, al cielo, all’iride dello sconosciuto. Sottrarsi all’ultimo applauso, letale come la ghigliottina; esimersi dal ruolo di spicco, clamoroso come una impiccagione. (d.b.)
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“Disimparammo a fare l’elemosina”
Disimparammo a fare l’elemosina,
a respirare sul mare l’altezza salmastra,
a incontrare l’aurora e a comprare negli spacci
con rifiuti di rame l’oro dei limoni.
Da noi per caso passano i navigli,
e i binari trasportano il carico per abitudine,
computa gli uomini della mia terra
e quanti morti si leveranno all’appello.
Ma noi trascuriamo solennemente ogni cosa.
Il coltello spezzato non serve al lavoro,
ma da questo nero coltello spezzato
sono tagliate pagine immortali.
1921
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“Le nostre stanze son divenute furgoni”
Le nostre stanze son divenute furgoni,
cigolano i cerchioni delle ruote,
mentre laggiù con i capelli verdi
l’acqua sfavilla sotto la luna.
E noi avanziamo su ponti diafani
per la terra e per il cielo.
Il sole con le guance di rosso cotone
si stringe alle finestre e canta.
In ogni cuore c’è un’arnia di luglio
con miele nero e bianco fuoco,
come se avessimo piegato il capo
sopra un ruscello per la prima volta.
Noi non sappiamo chi ci conduca
né dove corrano i nostri furgoni,
ma come un uccello che fugga da mani dischiuse
l’anima taglia con l’ala il vento.
1921
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L’uomo del Nord
Essi credevano che la gioia fosse un uccello,
e la gioia batteva la sua grande ala,
si torceva sotto i piedi come una volpe nera,
si levava in cespugli, si stendeva come ghiaccio.
Il ghiaccio con polvere secca, accecante e pungente
non in sogno, non in sogno attorniò questo cammino sognato.
Così a fianco a fianco, e vengono incontro mucchi di neve e abeti,
e corre incontro un casotto al limite dei pini.
Chi vi entra, prepara lui stesso la cena
e attizza il fuoco; ormai da più notti non dorme
e il suo sangue, mischiato col vento, col gelo pesante della bufera
batte infrenabile come una lunga canzone d’inverno.
La terra boreale è cosparsa di neve e di luppolo,
noi le siamo devoti, noi siamo fedeli al tumulto terreno.
In un Venezuela liquefatto dal sole
narrerò un giorno agli uomini di palma
dei cuori, dei grandi occhi irrequieti,
del mio paese dov’è soltanto inverno
dell’acqua che si può come gioia terrena
ficcare in tasca a pezzetti turchini.
E gli uomini allietati crederanno,
come a fiabe crederanno agli occhi gelidi,
ma per tutte le mandre e le minieri, i campi e le cascate
non darò il tuo semplice nome.
1922
*Le poesie di Nikolaj Tichonov sono riprodotte nella traduzione di Angelo Maria Ripellino