11 Giugno 2019

“Gli slam poetry non sono poesia, ma intrattenimento… dobbiamo ripartire dallo studio, mi preoccupano ignoranza e arroganza”: Matteo Fantuzzi, neo direttore di “Atelier”, dialoga con Matteo Fais

A quanto pare, si torna sempre all’annosa questione del cosa sia poesia. Ciò accade perché il panorama generale muta, soprattutto in questi tempi così social nei quali la lirica, o presunta tale, circola senza argini tra i vari profili e gruppi di lettura. Nuove forme si presentano all’attenzione del pubblico: Instagram e Slam Poetry, tanto per fare qualche esempio. Come a suo tempo per il cantautorato, è lecito interrogarsi in merito alla possibilità di assimilarli all’ambito poetico in sé. Tra le posizioni in tal senso meno “aperte” – meno accondiscendenti –, si segnala quella di Matteo Fantuzzi, poeta e Direttore della versione cartacea di “Atelier”. Nell’ultimo numero della rivista ha voluto ribadire il concetto con un editoriale perentorio e inequivocabile, intitolato Contro un possibile dadaismo. Nell’ottica di dare spazio a tutte le possibili voci, non potevamo fare a meno di approfondire il suo punto di vista, partendo da vari passaggi del testo e chiedendogli di sviscerarli per noi.

Caro Matteo, nel tuo ultimo editoriale su “Atelier”, parli, in merito alla poesia attuale, di “un’evoluzione che senza le giuste attenzioni, contrariamente a quanto di solito accade in natura, potrebbe davvero non produrre miglioramenti”. A quale involuzione – se non comprendo male – ti riferisci? E, soprattutto, qual è lo stato della poesia attuale?

Credo che, con molto apporto collettivo, gli ultimi anni abbiano indicato con precisione il rischio che la poesia smettesse di parlare alla collettività: non avremmo un racconto della Prima Guerra Mondiale senza Ungaretti, non avremmo le contraddizioni del conflitto irlandese senza Seamus Heaney, o forse tutto questo accadrebbe in maniera diversa. Certo questi sono i tempi dell’Io, ma non dell’Io montaliano dalle Occasioni a la Bufera: è piuttosto una estensione del solipsismo che a partire dagli anni Ottanta ha fatto coincidere l’esperienza privata con l’esperienza poetica, quella tendenza che dopo i fatti quasi mitologici di Castelporziano oggi in molti vivono nella profonda solitudine ingigantita dai social: una nuova forma di esponenziale distacco, distacco dalla realtà e soprattutto dal dialogo, ed è questa mancanza di dialogo che mi preoccupa nella attuale poesia perché al di là della quantità enorme di informazioni manca troppo spesso una capacità di entrare nelle cose. La liquidità della società trova nella poesia (da sempre antropologicamente “dell’uomo”) il proprio specchio, uno specchio convesso per dirla alla Ashbery.

Mi sembra di capire che tu contesti tutte le presunte novità, ovvero la visione “di chi nella pratica considera in qualche modo tutto lecito e tutto poesia. Dagli slam fino al meticciato del rap, tutte queste forme sembrano voler ricadere ed essere contemporaneamente accolte nella comunità della poesia, una poesia tout court senza alcun tipo di distinguo né formale né soprattutto sostanziale”. Ma, dunque, scusami, cosa è poesia e perché il resto non lo è?

Proprio oggi rileggevo un passo di Andrea Afribo, che insegna Storia della lingua italiana presso la facoltà di Lettere dell’Università di Padova, che sottolineava come «lo stesso programma di tabula rasa dell’istituzione poetico-letteraria, che nei testi di questi nuovi poeti si realizza principalmente in forma di parodia e straniamento finisce di fatto per accentuare i caratteri secolari della nostra storia linguistica: ovvero iperletterarietà, formalismo e ipercultura, aristocraticismo corporativo, distacco della lingua dalla (loro) poesia dalla lingua di tutti». È chiaro che tutto questo avviene nel momento in cui non viene dato peso a quelli che altrove definiremmo controller e questo spaesamento si deve a mio avviso soprattutto al disinteresse dimostrato verso la crescita di una classe critica che sia in grado in scienza e coscienza di filtrare tutta la mole di materiale prodotto, come avveniva per le grandi riviste, o per i comitati di redazione delle collane di poesia. L’impoverimento di quel mondo, o la delimitazione in luoghi sempre meno comuni, popolari, ha permesso come in altri settori (penso alla politica) l’esplosione di quel qualunquismo da “questo lo dice lei” (frase rivolta, in un noto programma televisivo italiano, a un accademico che stava cercando di confutare alcune traballanti tesi economiche di una sedicente esperta del settore) che anche in poesia porta a una sorta di autodeterminazione che non ha più i confini dei percorsi validi di crescita autoriale, quanto piuttosto una sorta di raggi di esplosione popolare/emozionale che con il plot del testo non hanno quasi mai nulla a che vedere.

Tu esprimi per la lirica la necessità di “raccontare il presente”, intesa come la “grande sfida di non relegare la poesia italiana a protagonista minore dell’esperienza internazionale”. Concretamente, cosa la poesia non fa, ma dovrebbe fare, per raccontare il nostro tempo? E, ancora, quando questa è stata protagonista della scena internazionale e perché non lo è più?

Credo che in Italia esistano testi virtuosi, e credo che l’unica cosa da fare sia parlare di questi testi: per esempio in questi giorni è uscito un libro molto potente di Antonio Lanza, che si chiama Suite Etnapolis (editore Interlinea) e racconta lo spaesamento di uno dei più grandi centri commerciali d’Europa alle pendici dell’Etna. Un libro che affronta quello stesso spaesamento e che racconta la nostra incapacità di reagire ai radicali cambiamenti imposti da una società oramai disumanizzante è Gli enervati di Jumièges di Roberta Bertozzi, è uscito alcuni anni fa per Pequod; d’altronde credo anche sia impossibile non comprendere la centralità di un libro come Fabrica di Fabio Franzin in un’ottica di poesia come racconto delle pulsioni collettive, dei disamori e delle esperienze quotidiane: le fabbriche che si svuotano, i comparti industriali in crisi, il lavoro che dove c’è diventa sempre più disumano. In Italia (e questo andiamo ricordando da alcuni tempi in “Atelier”, la rivista che dirigo) nel silenzio quasi collettivo sono venute alla luce molte opere importanti, opere in grado di portare agli eventuali lettori qualcosa, un segno, un momento di riflessione anche al proprio interno. Ma vanno raccontate, vanno conosciute perché sono opere spesso di autori di case editrici medio piccole, di autori che vivono le nostre periferie e le nostre provincie, autori che stanno facendo tanto e che trovo sia giusto vengano conosciuti da tanti. Probabilmente con il giusto numero di testi importanti l’impatto della nostra poesia sarebbe diverso così come attenzione viene data a Durs Grünbein o Simon Armitage.

“Il compito primario della rivista non consiste nel trovare sempre e necessariamente il nuovo, quanto piuttosto delineare pienamente i margini della militanza anche andando a tracciare la rotta piana e sensata per chi oggi alla poesia si affaccia”. Premesso che non ho ben capito cosa tu voglia indicare con la formula “margini della militanza”, mi chiedo perché ci sia la necessità di tracciare una via per chi si avvicina alla poesia? Non è possibile costruirsi un personale percorso in autonomia?

L’autonomia deriva dalla conoscenza, se una persona ha la possibilità di conoscere è in grado anche di decidere e formare un proprio gusto. Mi preoccupano piuttosto l’ignoranza (nel senso latino del termine) e l’arroganza (nel senso proprio del termine): ed è il combinato disposto tra queste due entità a impoverire la percezione della nostra scrittura o quantomeno a creare dei dislivelli di percezione; non è un discorso di tattica letteraria – il nodo, a mio avviso, è dato dai centri della diffusione della produzione poetica i quali, se in partenza si rivelano virtuosi, consentono una definizione corretta dei parametri finanche del gusto e delle tendenze, ma se tutto questo è gestito in maniera mendace allora anche le tendenze risentiranno di questo restringimento del registro di interesse.

Contro il dadaismo imperante, “Atelier” si pone “in una posizione non retorica di serietà e intransigenza”. Perdonami la provocazione, ma non sarai mica un reazionario della rima?

L’innovazione come in qualsiasi altra materia è necessaria, il caso italiano è un poco strano perché si cerca di proporre come poesia quello che poesia non è e che appartiene ad altre categorie, né migliori né peggiori, semplicemente altre. Per quale motivo dovremmo definire poesia gli slam poetry? Sono una forma spettacolare di testi che hanno magari una buona dose poetica, ma non collimano con la poesia. Sono un’ottima forma di intrattenimento, non per nulla sono stati accolti recentemente da Zelig dove giustamente c’è gente che va lì per ridere, per divertirsi, per assistere a degli spettacoli in cui tra un “Chi è Tatiana !?” e un “Amici ahrarara” giustamente trovano la loro corretta collocazione, e lo dico senza polemica né volontà provocatoria. Sarebbe sufficiente che ogni categoria si mantenesse nei propri ambiti: il rap non è poesia e viceversa, il trap non è poesia e viceversa, le pesche non sono poesia e viceversa. Io credo che ogni innovazione debba necessariamente essere una evoluzione positiva di ciò che è stato in precedenza – che in Italia significa ad esempio leggere e conoscere il Novecento, magari per rivoltarlo come un calzino (e, in fondo, non lo ha fatto anche Sereni ne Gli strumenti umani o Bertolucci ne La camera da letto?) ma sempre all’interno del percorso che da Dante in poi ci ha permesso di essere un esempio virtuoso all’interno della letteratura internazionale.

Anche in questo tuo editoriale, come in altri contesti in cui ti sei espresso, si respira un malcelato odio per i social. Eppure, “Atelier” ha persino una pagina Instagram. Mi spiegheresti che danno reale arrecherebbero questi alla poesia?

Porre l’ipotesi dell’odio credo sia anche quello specchio dei tempi: io credo che esprimere una posizione non sia né fonte di odio né fonte di astio; è la mancanza di dialogo – questa sì – che mi preoccupa dell’ultima società, questa violenza nei confronti delle idee altrui. I social, come qualsiasi altro strumento tecnologico vanno vissuti bene. Prendiamo ad esempio “La setta dei poeti estinti” su Instagram, ad oggi 67mila e oltre followers che ogni giorno propone autori importanti e spesso non banali, da Giorgio Orelli a Salvatore Toma per dire alcuni degli ultimi post, quindi autori ancora una volta non di facile reperimento proposti a un pubblico sterminato per la nostra poesia. Anche i numeri di “Atelier” sono tali perché esistono i social: l’importante però è ancora una volta cercare di alzare l’asticella, quando si scrive e quando si racconta poesia. Credo e ribadisco ancora una volta che si debbano utilizzare bene gli strumenti che si hanno a disposizione e coinvolgere chi ha il compito di formare le future generazioni, dalle Università fino agli insegnanti di ogni ordine e grado, dai giornalisti a tutto il mondo editoriale e di settore. Meccanismi virtuosi pongono le basi per dare credito all’ottima poesia che ancora grazie al cielo a noi non manca. Basta trovarla e proporre quella, non altro.

In chiusura del tuo pezzo, marchi ulteriormente il punto: non vuoi che si confonda la mediocrità con l’eccellenza. Vedi, per caso, tante mediocrità brillare immeritatamente?

Il merito è una conquista che dipende dal metodo. Io credo che dovremmo ripartire da quello: lettura della poesia, amore per la poesia, sostegno della critica e metodo, tantissimo metodo. Col metodo saremo in grado di comprendere quello che è mediocre e gioire viceversa per quello che non lo è e che magari avrà la giusta attenzione letteraria.

Matteo Fais

*In copertina: Matteo Fantuzzi visto da Daniele Ferroni

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