30 Ottobre 2019

Fabio Volo (mica scemo, anzi, un gran paracu*o) si merita almeno un paio di stroncature. Qualche buona ragione per evitare “Una gran voglia di vivere”

Fabio Volo ha capito quali storie bisogna scrivere, ma non ha le palle per farlo fino in fondo

Tutti tendono a sminuirlo, ma lui è tutt’altro che scemo. Casomai, è un gran paraculo. Sono anche convinto che, scherzando e ridendo, abbia letto più di tanti conclamati scrittori. Infatti, al netto di tutti i presunti ghostwriter ed editor, Fabio Volo è uno dei pochi ad aver capito che storie sia necessario raccontare oggigiorno. Rispetto alla maggior parte degli autori blasonati – ma non per questo meno commerciali –, le cui trame sono spesso così sopra le righe da risultare idiote, lui è addirittura uno dei pochi realisti in circolazione, una specie di Emile Zola da supermercato che produce libri su base industriale, come altri fanno detersivi.

Una gran voglia di vivere (Mondadori, 2019) è una storia semplice. Una famiglia, tutto sommato senza strambe particolarità o problemi, una coppia che si ama – o si amava – e un figlio, una buona casa in città, a Milano. Naturalmente, la coppia va a ramengo. Problema in più problema in meno, lavoro ben retribuito o no, si tratta di un racconto che potenzialmente potrebbe avere come protagonista la maggior parte degli italiani. In tal senso, Fabio Volo è di molto superiore a tanti: un libro per essere un grande romanzo deve tendere all’universale, al generazionale, alla possibilità di immedesimazione da parte dei lettori con la storia raccontata. E lui ci riesce, anche molto più di una Elena Ferrante qualsiasi con tutte le sue amiche geniali. Volendo azzardare un paragone grosso e quasi blasfemo, il suo libro è un episodio da nuova Commedia Umana – Balzac ci perdoni.

Ma Fabio Volo ha del genio commerciale ed è dunque abilissimo nel sollevare un problema cruciale, quale quello dello sfaldamento del legame sociale principale, ovvero della famiglia, e poi lavarsene le mani, evitando di trarne le conseguenze e quindi svelare il tragico. No, lui preferisce vendere una speranza a buon mercato. Potrebbe chiedersi perché il rapporto tra il protagonista e la moglie si deteriori, perché lei, dopo aver deciso di restare a casa a seguito della maternità, soccomba a un senso di frustrazione, alla fantomatica idea che facendo la madre si stia in fondo sempre perdendo qualcosa, alla sua ossessione che la vita non può ridursi a questo e possa essere altrimenti. Dovrebbe allora spingersi verso una riflessione più ampia che consideri i decennali tentativi della propaganda per mandare in vacca la famiglia tradizionale e generare l’atomizzazione sociale. Certo, se lo facesse, non sarebbe Fabio Volo, ma un Houellebecq italiano con problemi nel trovare un editore e non avrebbe più un posto d’onore in tutti i market e gli autogrill. Dovrebbe pure essere politicamente scorretto, inviso a molti, troppi per essere uno scrittore di grido. Palesemente, però, per fare questo ci vorrebbero due coglioni d’acciaio. Fare i duri ha un prezzo e lui lo sa bene. Ha già visto quanto gli è costato dire un qualcosa che dovrebbe essere chiaro a chiunque, ovvero che Ariana Grande vestita da zoccola ha un’aria un po’ da troione e che un padre che voglia dirsi tale certo non applaudirebbe alla figlia che esce combinata come una che sta per cominciare il turno in casino. Ma quella era una voce dal sen fuggita e subito rimangiata che qui si fa presto a passare per retrivi reazionari, patriarcali, e – rullo di tamburi – fasssssistttiii.

Ecco dunque ben confezionato il volume giusto per un innocuo regalo di Natale – il libro non è scritto male, ma del resto oggi tutti scrivono in modo piatto ma scorrevole, grazie agli editor. Alla fine, forse la famiglia non si ricomporrà, o altrimenti, che diavolo, una soluzione di affido condiviso del bimbo la si troverà. Basta evitare di raccontare il seguito della storia: una donna che a cinquantacinque anni si ritrova sola, dopo una serie di sfortunate relazioni che più che altro si sono limitate a chiavate che l’hanno interiormente annichilita; un uomo dallo stipendio dimezzato che vive in un monolocale, torna a casa e si riscalda un cibo surgelato, mentre guarda alla tele il culo di una qualche velina; un figlio che ha giusto qualche problema relazionale, bullizza o è bullizzato, prende psicofarmaci per dormire e ha come migliori amici il suo psicologo e la sua psichiatra. Ma perché dirlo? Meglio pensare positivo, fare i moderni. Del resto, di romanzi in cui si mette in luce che questo mondo ha qualcosa di malato e perverso ce ne saranno già una cinquantina e forse sono fin troppi – e soprattutto, per le feste, chi cazzo lo vuole un regalo del genere?

Matteo Fais

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A Volo manca quel guizzo che fa la differenza, ma alla fine il pubblico è sovrano

Credo che il modo migliore per recensire l’ennesimo libro di Fabio Volo sia non parlare affatto del libro. In fondo, a chi interessa? I lettori sembrano essere già spaccati in due fazioni inconciliabili: quelli che lo adorano, e se ne fregano delle recensioni, e quelli che si dannano a chiedersi come possa esistere chi lo legge e apprezza. I libri di Volo non sono oggetto d’indagine, o meglio, non lo sono più. Perché continuare a recensirli? È già stato detto tutto ormai. Lo stile scorrevole, le storie di vita quotidiana, i problemi del nostro tempo, la facilità a riconoscersi nei personaggi, le metafore non eccelse ma immediate, gli aforismi pronti all’uso, i finali positivi o comunque mai privi di speranza.  D’altra parte, a ogni nuova uscita, e si parla in media di un libro ogni due anni, Volo tende a ripetere lo stesso schema, nello stile come nelle trame. È quindi il primo a non portare grandi novità al dibattito sulla sua scrittura. Oggetto di discussione perenne sono invece le ragioni del suo successo.

In realtà i motivi sopra elencati, in particolare la gradevolezza e la facilità di immedesimazione, potrebbero essere già sufficienti, e si potrebbe anche citare per l’ennesima volta La fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco e la confortante identificazione del lettore, in luogo dello spettatore, con l’uomo medio, l’everyman. Ma a che servirebbe, se è già tempo di scrivere la fenomenologia di Fabio Volo? È lui il nuovo paradigma della mediocrità, oggetto di una demonizzazione eccessiva almeno quanto il suo successo. In quest’ultimo libro, Una gran voglia di vivere, titolo persino più lezioso del solito, una coppia un tempo felice ma ora in crisi, con un bambino piccolo, parte per un lungo viaggio in Australia. Basterà a ritrovarsi o la separazione sarà inevitabile? Fondamentalmente, chi se ne frega! Questo è il pensiero costante che mi ha accompagnata durante la lettura, portata a termine con la stessa noia indulgente con cui ascolto i racconti delle vacanze degli amici più affezionati. Però senza l’affetto. Il problema non è tanto raccontare storie di vita normale, cosa di per sé legittima e persino auspicabile, quanto lo stile piatto, a tratti didascalico, con qualche raro risveglio.

Cosa gli manca, per essere vera letteratura? Manca lo stupore, il guizzo, il gusto del paradosso, lo spingersi al limite, gli arresti e i gol in rovesciata, i pugni e le carezze al lettore. Tutto quello che alla fine di un libro ti fa sentire diverso da prima. “Quando Anna era arrivata nella mia vita tutto era cambiato, contava solo lei e il tempo che passavamo insieme”, dice l’autore, nelle prime pagine. “Essere o non essere con te è la misura del mio tempo”, scriveva Borges ne Il minacciato. In fondo il concetto è lo stesso, ma fare letteratura è dirlo come nessuno prima aveva mai pensato. La frase di Volo, al contrario, potrebbe essere pronunciata da ciascuno di noi, al telefono con un amico o tra sé e sé. Attenzione, dal punto di vista narrativo lui è coerente. Racconta in prima persona la storia di un uomo qualunque, e si esprime come un uomo qualunque. Alla lunga però la mancanza di contrasto tra la voce del narratore e quella dei personaggi rende monotona la lettura: da una parte dialoghi ben gestiti ma un po’ troppo pettinati, privi di crudezza realistica e di quelle imperfezioni tipiche del vero parlato, dall’altra una narrazione mancante di slanci espressivi.

Ma forse è proprio questo il punto, il suo lettore non vuole allontanarsi troppo da sé stesso, desidera piuttosto guardarsi per un attimo dal di fuori, giusto il tempo di mettere in ordine i propri concetti. La scrittura di Volo non fa che aggiungere un po’ di editing ai pensieri dell’uomo comune, togliere qualche ripetizione, sostituire alcune parole.

Io non ne ho bisogno, i pensieri me li edito da sola. Ma chi sono per dire che è giusto così? Se si parla di scrittura, la mia asticella del gusto è un po’ più alta della media, ma non lo è ad esempio per la musica: spesso non ho voglia di affrontare la complessità della classica e preferisco il pop. A tavola, poi, ho sempre preferito la mortadella al caviale. Perché, dunque, altri non dovrebbero ragionare in questo modo in merito alla scrittura? Alla fine, piaccia o no, il pubblico è sovrano, e ci saranno sempre la massa e la nicchia, sia tra i lettori che tra gli scrittori. Sappiamo bene che l’editoria è sostenuta per la maggior parte da un manipolo di irriducibili, i cosiddetti ‘lettori forti’, che Volo non lo leggono. Ne ho conosciuti, di lettori forti. Sono curiose creature, perlopiù intelligenti e amabili, ma anche capaci di piccole e inaudite crudeltà. Ad esempio, se dici loro che non stai leggendo nulla, ti guarderanno di certo con profondo disprezzo, chiedendosi come tu possa ancora respirare. C’è poi un’altra fascia, molto più ampia, che non legge più di due o tre libri l’anno, e tra questi è facile trovare chi apprezza i libri di Volo. Se tali libri non esistessero, costoro affronterebbero Kafka o Proust? No, più probabilmente non leggerebbero niente, quindi ben venga Volo, che comunque porta soldi all’editoria.

Scegliere che lettore o che scrittore essere, spesso non è nemmeno possibile. Tanti dicono, sono capace anch’io di scrivere come Volo! E allora, verrebbe da chieder loro, perché non lo fai? E qui penso soprattutto ai miei amici scrittori, quelli che al successo non sono arrivati, o non ancora. Qualcuno anche cialtrone e vanesio, ma svariati davvero bravi e meritevoli. Mi ci metto anch’io, nei miei momenti di presunzione, tra i sedicenti sottovalutati. Penso a quelli che ergono Volo a simbolo di ogni male, del degrado del mondo editoriale, della stupidità e ignoranza dilaganti, spesso additati come rosiconi. E a quelli che al contrario lo ammirano in modo acritico, riconoscendo nel successo e nei soldi l’unico parametro di valore. Credo che al riguardo si potrebbe aprire un dibattito, più che sulla scrittura, sull’invidia, sentimento molto più profondamente umano e necessario di come spesso viene dipinto, sempre al confine con l’ammirazione. Ha più senso invidiare il successo meritato o quello immeritato? È meno nobile invidiare Volo per senso d’ingiustizia, o Borges perché ci mette di fronte ai limiti del nostro talento, alla grandezza che mai raggiungeremo?

Il successo di Volo in fondo non è se non la prova che realizzare i propri sogni di gloria, nella scrittura ma anche in altro, non è un teorema matematico: non è detto che il conto torni. Non è nemmeno un esperimento di fisica, perché le condizioni iniziali non sono mai le stesse per tutti. È più un allineamento di pianeti, un complesso di fattori non sempre razionali e il talento forse non è nemmeno il primo della lista. Eppure, la passione vera spinge perseverare, alla faccia dei propri pianeti disallineati. Io a scuola volevo sempre stare in banco con quelli più bravi di me, quindi continuerò a invidiare Borges molto più di Volo.

Viviana Viviani

Gruppo MAGOG